LE SPIRITOSAGGINI DEL GRANDE MONTESQUIEU AVVILIRONO IL PENSIERO SULLA SPAGNA

Molti sanno che la disfatta spagnola del 1898 (la flotta e l’impero coloniale cancellati dagli USA) suscitò in patria una straordinaria eruzione di pensiero: fu quel Regeneracionismo che riscattò quel tungo torpore della cultura nazionale, che nel Settecento si era fatto vistoso.
Col ’98 sorsero intelligenze che invocarono il rovesciamento dei modelli e dei valori della cosiddetta diversità spagnola. Questi ultimi si usavano credere l’essenza della civiltà castigliano-asburgica; l’avvento nell’anno 1700 di un re francese, imposto dall’imperialismo di Luigi XIV, non apportò correzioni sufficienti. In Spagna il primo ventennio, o forse trentennio, del Novecento fu un tempo di riflessioni dolorose, ma anche di un improvviso fervore creativo.

Un pensatore intrepido, Joaquin Costa apripista del Regeneracionismo, trovò parole profetiche: ‘Chiudiamo a doppia mandata il sepolcro del Cid Campeador’, cioè ripudiamo molte eroiche glorie del retaggio nazionale.
La loro interminabile esaltazione ha segnato la carne e l’anima degli spagnoli. Ai sinistri fasti delle conquiste e dell’orgoglio
Costa contrappose programmi prosaici, realisticamente concreti, quali la trasformazione irrigua di vaste terre abitate da turbe affamate.
Joaquin Costa tentò di mettere gli ingegneri e gli agronomi al posto dei generali. Altre vivide menti seppero dare incisività a formulazioni di pensiero che si allontanavano alquanto meno dalle punte del ‘casticismo’ tradizionale. Si veda il grande Miguel de Unamuno: si sforzò di rivendicare e meglio indirizzare la dolorosa dignità della Castiglia storica. Anche Angel Ganivet intuì i limiti della modernizzazione invocata da tanti, pur partecipando agli aneliti rigeneratori. E il maestro di razionalismo José Ortega y Gasset propose, col suo ammirevole “Espagna invertebrada” e con la serrata milizia di tanti altri scritti, i categorici imperativi della modernità e dell’Europa.

Gli anni a ridosso della fine dell’impero furono dunque densi di prese di coscienza che gettarono luce sulle vie della salvezza. Furono anni aurorali, fondativi di un pensiero spagnolo da far tornare nobile. L’opposto va detto dell’intellettualità nazionale allorquando il regno degli Asburgo si fece borbonico e fu annesso all’ecumene illuminista, senza riuscire a vivificare le coscienze e la società. Ci furono governanti riformatori (tale fu anche il sovrano Carlo III, che aveva onoratamente regnato a Napoli) ma l’intelligenza del Settecento spagnolo sembrò ammutolire. Ci furono storie letterarie che di fatto ignorarono la ‘Espagna posible en tiempo de Carlos III’ (fu il titolo, nel 1963, di una riuscita operetta del filosofo Julian Marìas). Una delle storie di cui parliamo saltò semplicemente da Quevedo, morto nel 1645, a José de Espronceda (1808-42).

Tutto ciò approfondì la lama nella ferita della decadenza nazionale: nel sec. XVIII la cultura dominata da Madrid non seppe produrre molto più che la rivendicazione patriottica, di albagia micronazionalistica, di fronte agli ingiuriosi sarcasmi che vennero dai Pirenei sulla scia del libello di un autore illustre, Montesquieu (barone Charles de Secondat, 1689-1755) cui andò molta fama per le “Lettres Persanes” e per “L’Esprit des Lois”. Montesquieu si occupò estesamente della Spagna (anche del Portogallo) ma lo scritto che suscitò più curiosità e confutazioni fu la LXXVIII delle “Lettres Persanes”. Le ironie della lettera Settantotto furono lontane dagli alti livelli che prevalgono nell’opera dello scrittore e ‘president’ nato nel castello de la Brede, non lontano da Bordeaux. Il fittizio autore della missiva esordì: ‘Je vis parmi des peuples (Spagna e Portogallo) qui, méprisant tous les autres, font aux seuls Français l’honneur de les hair (…) La gravité est le caractère brillant des deux nations; elle se manifeste principalement de deux manières, par les lunettes e par la moustache. On conçoit aisément que des peuples graves et flegmatiques peuvent avoir de la gravité’. Le molte cartelle della missiva continuano su questo tono non esaltante.

Il già citato Julian Marìas, uno dei protagonisti recenti del dibattito sulla ‘Idea de Espagna’ sottolineò cinquantasette anni fa che la Spagna, per ripicca, proibì “Esprit des lois’ nel 1756, e che nessuno scritto di Montesquieu fu pubblicato in spagnolo prima del 1820. Nel 1782 apparve in Francia un’altra critica di peso alla Spagna, la ‘voce’ redatta da Nicolas Masson de Morvilliers nella nuova “Encyclopédie Méthodique”.
La fortuna che anche questo scritto maligno ebbe, osserva Marìas “si deve esclusivamente all’insolenza della sua domanda ‘Que doit-on à l’Espagne?’ Il Masson chiedeva anche ‘Che ha fatto (la Spagna) per l’Europa nei secoli? Nacque così, nota Marìas, un autentico genere letterario che raggiungerà l’espressione più importante nella “Ciencia espagnola” di Menendez y Pelayo: ‘Enumerazione di nomi più o meno noti che illustrarono i vanti intellettuali delle nazioni”. In ogni caso, rileva ancora Marìas, quando la Spagna ebbe un re francese, Filippo V, e dei governanti connazionali del sovrano, essa si fece ancora più riluttante ad apparire allieva della Francia.

Insomma, diciamo noi, le apologie, le confutazioni e le malignità su Francia e Spagna furono in realtà quasi tutto ciò che di incisivo la cultura madrilena espresse nell’intero secolo XVIII: davvero poco. Bene fece Ludovico Incisa di Camerana (Ludovico Garruccio) a parlare nel suo ammirevole “Spagna senza limiti” (Murcia 1968) di “abortito illuminismo spagnolo”.
I tanti vanti degli assertori e propagandisti dei Lumi non valgono a smentire che il razionalismo parigino, come in terra germanica non indebolì l’impeto del Pietismo -riforma della Riforma protestante e riproposta della fede, nei giorni di J.S.Bach, quale commozione e quale anelito- non seppe mobilitare in Spagna né pensieri né volontà a contrastare la decadenza e le deviazioni spirituali degli epigoni dei Re Cattolici. Semplicemente qui i Lumi non furono all’altezza, non generarono valori nuovi. Contribuirono, e non fu poco, a razionalizzare determinate realtà e prassi. Nel 1812 le Cortes di Cadice furono un cominciamento di libertà (meglio, di ragione).
Troppo complesse furono le vicende, le pulsioni, gli antagonismi, le stesse componenti etniche del paese di Ferdinando/Isabella e della Guerra Civile.

Migliaia di libri sono stati scritti, fiumi di intelligenza sono scorsi sulle passioni e sui fatti di un paese che, come scrive Incisa di Camerana, ‘Più di ogni altro in Europa ha suscitato miti e messianismi’. Il secolo XVIII tacque sui grandi temi che campeggeranno fino ai nostri giorni. In cambio si scambiarono dileggi. E ha ragione Marìas a precisare la modestia delle analisi settecentesche che vennero dalla terra da cui si irraggiarono i Lumi. Non fece opera meritoria il grand’uomo Montesquieu a far alzare, con righe elegantemente leggere, un vespaio di rancori banali. Saranno le meditazioni del Regeneracionismo e le ferocie della Guerra Civile a consegnare ai postumi le spiritosaggini della Lettera Persiana numero 78.

Antonio Massimo Calderazzi