Ci siamo: nel nostro ecumene politico-giornalistico non c’è più uno che davvero creda nell’avvenire della partitocrazia. I partiti sono malati terminali, che avvenire possono avere? Nel frattempo si fanno nere le previsioni per l’economia e per la pace sociale: colpa della concorrenza globale più ancora che della pandemia. Chi si farà illusioni su un miracolo, come nel dopoguerra del Piano Marshall?
Resta micidiale l’ammissione di Michele Salvati (un giusto, benché alto esponente del regime), fatta quasi quattordici anni fa: “Esistono problemi difficilmente trattabili in democrazia, e da questi dipendono il destino del Paese e la sfiducia che lo pervade. Ogni tanto gli scienziati sociali fanno l’ipotesi del ‘benevolent dictator‘. Ai tanti ingegneri costituzionali che si affannano al capezzale della repubblica l’arduo compito di inventare l’equivalente democratico del benevolent dictator“. Michele Salvati, deputato, accademico e opinion leader, è stato il capoprogetto del Pd”.
Tra il 1923 e il 1930 la Spagna ebbe la fortuna di un decisore benefico, il generale Miguel Primo de Rivera, quasi niente in comune col figlio José Antonio, protomartire della Falange. Nel 1958 Charles de Gaulle si fece chiamare dai francesi a demolire la Quatrième République, all’incirca scalognata quanto la Nostra. La Turchia ebbe Kemal Ataturk. La Polonia, Pilsudski. La Finlandia, Mannerheim. La Grecia, Johannes Metaxas.
Il Portogallo sarebbe imploso senza Antonio de Oliveira Salazar, che brillò da professore a Coimbra, prima tra le università lusitane. Il problema dello Stivale è che sarà costretto a scoprire un decisore: un uomo, persino una donna, con la stoffa del dittatore.
Errore imperdonabile, errore fatale, fu quello di Matteo Renzi. Aveva il governo, aveva l’aura del vincitore e si lasciò intimidire come un adolescente dall’accusa tremenda: solo al comando!
Avrebbe dovuto reclutare un generale, anche di una sola stella ma munito di qualche blindato. L’occasione giusta sarebbe stata, forse, la parata iper-democratica del 2 giugno: poche salve ad alzo massimo e le tribune delle eccelse autorità si sarebbero arrese. Con esse le Grandi Forze e le Grandi Masse. Presidenti, sommi magistrati costituzionali, boiardi di Stato, governatori più le loro signore, parenti e compari sarebbero stati trasferiti in resort panoramici non lontani dall’Urbe. Alcuni veterani e imbonitori delle vittorie partigiane si sarebbero scalmanati, ma non a lungo. Li avrebbe zittiti il giubilo del popolo per la liberazione dai Proci. Solo inconveniente, il panico che avrebbe messo fisicamente a repentaglio, alla prima avvisaglia di Putsch, gli appaltatori della repubblica e le loro consorti, compagne e portaborse. Meno pericolosa sarebbe stata una cattura di somme cariche nei giardini del Quirinale. Il colpo di stato avrebbe fatto molta scena se accompagnato dal lancio di paracadutisti sull’impagabile vegetazione del verde quirinalizio, già sabaudo e prima ancora pontificio.
Una cosa sarebbe stata certa: non sarebbe scorso il sangue. Il 25 luglio 1943 non un moschettiere o gerarca del Duce, non un manipolo di fedeli fino alla morte fece resistenza al trasferimento di Mussolini nell’albergo di mezza montagna. Andò così. Gli eredi delle terribili lotte tra Cicerone e Catilina, delle micidiali fazioni medievali, dei pugnali e dei veleni rinascimentali, restarono impassibili. E’ vero, se Renzi avesse oltraggiato la Più Bella delle Costituzioni, un tot di pensionati dell’ANPI e di intonatori di Bella Ciao sarebbe andato in montagna. Ma forse no.
Se Renzi fosse davvero fuori gioco, occorrerebbe trovare uno/una che sia ‘dictatorial timber‘. Ebbene, se per instaurare una dittatura-a-fin-di-bene bisogna saperla lunga, perché non cercare tra i top burocrati? Non si usa pensare che siano onnipotenti? Che se sono saliti così in alto, sono in gamba? Ricordiamolo: il dittatore parlamentare Giovanni Giolitti, alla pari col Predappiese il maggior governante del Novecento, si rivelò in un concorso per allievi burocrati. Antonio de Oliveira Salazar debuttò come docente di economia. Non sarebbe assurdo se un civil servant di vertice si raccordasse a un generale per salvare il Paese. Non proprio un generale qualsiasi, ma quasi. Un condottiero militare eccelso, a capo di un gruppo d’armate, non possiamo permettercelo. Del resto, quando de Gaulle si fece chiamare a sciogliere il nodo algerino e a scongiurare la débacle totale, non disponeva di un esercito: era uno statista scontento, un po’ come Renzi.
Messa così, Matteo benché avariato dovrebbe ancora aspirare a redimere lo Stivale. A diventare il decisore quasi altrettanto benefico quanto Miguel Primo de Rivera. Ricordiamoci: non è verosimile che sia la classe politica d’oggi a vincere le sfide che ci minacciano.
Emulare Primo de Rivera è il meglio che Renzi possa compiere. Primo de Rivera seppe fare le cose grosse cui i politici di Mattarella non saranno mai all’altezza. Il capitano generale della Catalogna mise fine a una guerra coloniale in Marocco che era stata sul punto di abbattere il trono di Alfonso XIII ben in anticipo del 1931. Giudicato sulle azioni realizzate e non sulle formulazioni programmatiche, de Rivera fu il miglior governante di Spagna a partire dalla guerra contro Napoleone. Il Dictador avviò la Spagna sulla via della modernità, anzi la mise al lavoro: strade ferrovie porti canali dighe elettrificazioni, persino i Paradores e i primi aeroporti. Egli inventò anche il turismo, ma l’opera più grande fu l’avvio del Welfare State, con frequenti sussidi agli ultimi, che egli prediligeva benché marchese e Grande di Spagna (infatti sarà abbattuto dalle destre, non dai seguaci laico-giacobini del catastrofico Manuel Azagna). Primo de Rivera non uccise, né incarcerò o perseguitò gli oppositori; li lasciò andare in esilio e, se erano ricchi, li multò. Governò soprattutto coll’appoggio del Partito socialista, il cui capo Francisco Largo Caballero (il futuro ‘Lenin spagnolo’ e presidente del secondo governo repubblicano) volle nel Consiglio organo di vertice. Non impose un partito di regime, e quando al settimo anno, malato, fu sfiduciato dai generali si dimise in poche ore e andò a morire a Parigi, in un albergo quasi pidocchioso (non si era abbassato a rubare).
Giudichi lui, Matteo Renzi.
Antonio Massimo Calderazzi