LA DEMOCRAZIA DEL SORTEGGIO, COME CI SALVERA’

All’inizio d’autunno alcuni personaggi della consorteria di regime hanno portato inattesa testimonianza: il rifiuto della rappresentanza elettorale è, a questo punto, la sola via di fuga dalla catastrofe di una Repubblica che speravano capace di sopravvivere al Covid, alla disoccupazione, allo spegnersi dell’economia. Beppe Grillo, autentico genio della creatività a perdere -era riuscito a far occupare dai suoi quella istituzione, il parlamento, che a fil di logica avrebbe dovuto tentare di dinamitare – ha annunciato di non credere più nella rappresentanza; occorre il sorteggio della democrazia diretta. Meno clamoroso ma forse più significativo è il fatto che Enrico Letta (Marco Tullio Cicerone lo avrebbe descritto ‘homo consularis’, cioè uno dei motori della repubblica imperiale romana) abbia teorizzato: un uomo di scienza non può prescindere dalla possibilità che il sistema della rappresentanza deperisca fino a finire. Letta non è solo un pensoso ex-presidente del Consiglio; è un accademico di rango a Parigi, direttore di una Grande Ecole; laddove da noi i gazzettieri e i megafonisti del pensiero unico usavano – un tempo, ora meno- prendere sul serio la scomunica e gli insulti del caparbio papa dell’elettoralismo Giovanni Sartori nei confronti dell’eresia del “direttismo”.

Se i Grillo e i Letta si fanno miscredenti della fede che imperversava dal 25 luglio 1943 all’arrivo della pandemia è anche in quanto non possono ignorare il grido di dolore che si leva ormai da quasi tutti gli orizzonti dell’opinionismo e del mestiere partitico: spentisi comunismo e liberismo, la nostra politica “non ha più idee”. Persino il pensiero unico non è più un’idea.

Tra il 1992 e il 1995 The Economist, il maggiore tra i settimanali politici non solo britannici, condusse quasi una campagna per proporre il passaggio, ponderato e lento, alla democrazia diretta. “Il grande balzo in avanti dell’elettronica -prevedeva il 17 giugno 1995 l’editorialista- finirà coll’impedire al sistema democratico di restare allo stadio della locomotiva a vapore. Per qualche secolo il nostro sistema ha lasciato tutte le decisioni agli eletti. Ma gli eletti hanno perso il rispetto”. Un paio d’anni prima The Economist aveva sostenuto: “Il deperimento delle ideologie lascia il campo a quell’autentico pirata e corruttore della politica moderna che è il lobbista. L’indebolimento dei partiti ideologici fa venir meno quasi tutti gli ostacoli al cambiamento. L’esempio della democrazia diretta elvetica insegna che le scelte dei cittadini comuni possono essere meditate e responsabili. E la democrazia diretta è più capace di quella rappresentativa di resistere alle lobbies, massimo tra i mali moderni del parlamentarismo. Con le lobbies il denaro dei gruppi di pressione oltrepassa il confine tra persuadere e comprare i politici. La logica dei nostri tempi non può essere l’apertura al popolo solo il giorno delle elezioni”.

Esperienza elvetica a parte, in Occidente sono fiorite numerose ipotesi di democrazia diretta. Ma chiudere le urne e abolire le assemblee elettive appare ancora una rivoluzione utopica. Non lo è: è la via obbligata, vista l’inesistenza di alternative (un tempo c’erano le dittature). Chi scrive, già numero Due della ricerca all’Ispi di Milano, è uno dei non pochi progettisti specifici che hanno riflettuto (noi a partire dal 1974) sulle vie per liberare l’Occidente dai politici, lobbisti e sindacalisti del malaugurio. Ecco la formula, concepita sulla scorta delle analisi del segmento più innovativo della ricerca internazionale. Nell’anno 2000 raccogliemmo in un opuscolo, “Il Pericle elettronico”, i risultati delle elaborazioni, proprie e altrui, compiute nel trentennio precedente.

La democrazia quasi-diretta sarà selettiva o non sarà. La sovranità non potrà passare alle multitudini sterminate degli iscritti all’anagrafe. La cittadinanza attiva (=sovrana, esercitante il potere effettivo) va ristretta alle micropercentuali imposte dalla realtà: 1% , anche meno. In un paese di 60 milioni come il nostro, 500 mila cittadini attivi, supercittadini, che si turnano continuamente per sorteggio ogni anno o semestre, fanno un corpo politico consistente ma agile. Fanno la Polis. Del resto tanti, circa mezzo milione, sono oggi gli addetti al lavoro politico ai vari livelli, dagli attacchini di manifesti e attivisti di quartiere, a quanti riescono a farsi eleggere, ai sommi dignitari dei palazzi. Solo che tali addetti non sono scelti dal sorteggio, non fanno turni annuali o semestrali. Si impongono a vita come una camorra.

La democrazia più celebrata della storia, quella di Atene e della costellazione di città che si modellavano su Atene, era ‘diretta’ in quanto si basava su una cittadinanza molto esigua: per l’intera Attica si stimano quarantamila uomini. Così a ciascun cittadino elitario, pur se semplice coltivatore della terra, spettava il diritto d’essere sorteggiato almeno una volta in vita come arconte, il diritto di fare un turno al vertice dell’Esecutivo. E tutti i cittadini veri, quelli di pieno diritto, potevano/dovevano partecipare alle istanze deliberative e giudiziarie.

Nella futura Polis liberata dai politici e dalle urne, chi sceglierebbe i supercittadini sovrani a turno? Risposta: un computer centrale controllato in via permanente dall’intera rete (addirittura mondiale) selezionerebbe i Migliori, possessori dei requisiti dovuti. Il computer sarebbe programmato per sorteggiare solo all’interno di determinate categorie e in rapporto a qualificazioni specifiche. Per esempio: lavoratori esperti, coltivatori indipendenti, artigiani con x anni di esperienza, professionisti, laureati o diplomati, imprenditori da x anni, magistrati, funzionari e altre figure legali, operatori con esperienze oggettivabili, insegnanti, operatori del volontariato da x anni, altre categorie qualificate in rapporto alla pubblica utilità; persino gli ex politici e gli ex sindacalisti. In ogni caso, i padri e madri di famiglia, come invocava Thomas Mann
un secolo fa (‘Considerazioni di un impolitico’, 1918).

A quel tempo il pontefice lubecchese aborriva il suffragio universale: “Solo superficialmente la democrazia ha a che fare col diritto di voto (…) Chi in Germania parla il linguaggio della demoretoricrazia non pensa ai difetti della plebe, alla corruzione, alla mafia dei partiti (…) In fondo si potrebbe andare avanti senza politica”. E infine: “Chi aspirasse a fare della Germania una semplice democrazia borghese la defrauderebbe di quanto ha di meglio e di più faticoso. Tedesco vuol dire abisso”.
Nel 1918 Thomas Mann non poteva sapere degli orrori dei lager e dei gulag. Non doveva nutrire complessi nel rifiutare il culturame, l’internazionalismo, i diritti dell’uomo, il radical-illuminismo, l’deologia del benessere, l’apoteosi della socialità, la sceneggiata sentimental-rivoluzionaria. Prima di andare a servizio in casa F.D. Roosevelt, Mann aveva fatto constatazioni politicamente assai scorrette: “Nel nome del popolo spadroneggia l’oligarchia. Il gran trafficare dei partiti appesta di politica la vita. Il suffragio non dovrebbe essere universale, bensì articolato secondo il merito, il grado di cultura, il livello spirituale, l’età, e anche l’avere figli. Se il parlamentarismo è ciarpame, se non si riesce ad escogitare niente di meglio, allora la politica è ciarpame”.

La selezione operata dal computer centrale di cui sopra lascerebbe fuori della Nuova Polis tutti i mancanti dei requisiti voluti: i semplici iscritti all’anagrafe, gli studenti, apprendisti e lavoratori molto giovani, le casalinghe senza figli e senza arte né parte, gli artisti improvvisati, i creativi all’ esordio. gli stilisti di moda, gli ‘intellettuali’ senza fatiche dimostrabili, gli sportivi di mestiere, quanti svolgono attività illegali; altri superflui o inutili. In una parola, la plebe che Mann detestava. Poco male: nemmeno oggi la plebe e gli inutili contano. Votano, cioè non contano. Gli elettori sono masse di pesci, molluschi e plancton che le reti dei politicanti e i fanoni del mercato rastrellano il giorno delle elezioni. La Polis dei Cinquecentomila governerà anche per conto dei semplici iscritti all’anagrafe. Per gli altri, resteranno i referendum.

I supercittadini sarebbero sorteggiati dal computer centrale a turno, p.es. un anno; una seconda e ultima nomina avverrebbe solo trascorso un quinquennio. Va reso impossibile il formarsi di un ceto di professionisti degli affari politici. I supercittadini riceverebbero via computer interattivo ogni documentazione sugli affari pubblici. Verrebbero molto modestamente retribuiti in rapporto all’entità delle prestazioni. All’interno della Polis dei Cinquecentomila il computer sorteggerebbe tutte le cariche pubbliche, cominciando dai componenti degli organi di approfondimento e definizione finale delle leggi, organi sostitutivi delle attuali assemblee elettive. All’interno dei Cinquecentomila il computer aggregherebbe un certo numero di classi, in rapporto alle qualificazioni richieste. Nella classe inferiore sarebbero p.es. i membri pro tempore delle amministrazioni locali e degli organismi minori. Nella classe più alta verrebbero sorteggiate persone di qualifiche ed esperienze eccezionali, per un turno da ministro o da titolare di funzioni di vertice. I ministri e altri membri della categoria massima servirebbero a turno come capi del governo centrale.
L’attuale capo dello Stato, espresso dagli accordi e dagli interessi dei partiti, sarebbe sostituito per sorteggio, a turni annuali, da uno dei supercittadini in possesso dei requisiti più opportuni. Tassativamente costui non siederà al Quirinale, bensì in una palazzina senza fasto e senza corazzieri, palafrenieri, cortigiani e lacché. Sarà il primo dei presidenti repubblicani del settantennio a meritare rispetto.

Una delle tante obiezioni alla democrazia diretta intesa in senso tradizionale – non
nel senso selettivo di cui sopra- è che, eliminati assieme alle urne i professionisti della politica, diverrà troppo potente la fascia alta della burocrazia. Risposta: intanto parte dei supercittadini avranno preparazione ed esperienze pari, magari superiori, a quelle degli alti burocrati. In ogni caso occorrerà destituire, espropriare dei beni e chiudere in campi di rieducazione i burocrati che tenteranno di plagiare i supercittadini. Nell’ambito della rivoluzione giuridica che dovrà ridurre a livelli modesti le possibilità di ricorsi, ostruzionismi, sabotaggi operativi, contestazioni, scioperi e conflitti, non sarà difficile ridurre all’impotenza i nemici della democrazia dei sorteggiati.

Nulla di tutto ciò sarà fatto dalla classe politica che abbiamo. Dovrà sorgere un Distruttore/Ricostruttore che abbatta le Istituzioni e la loro grottesca Carta. Oggi il congegno delle urne e dei partiti domina intero l’Occidente. Appare imperituro. Ma nel passato anche il socialismo reale (il comunismo al potere) e il gioco dei partiti ideologici e dei sindacati di controllo sembravano intramontabili. Invece sono collassati, più o meno di colpo. Potrebbero restare immutabili congegni sempre meno efficienti, sempre più obsoleti, come la delega elettorale e le consorterie dei Proci?

L’assetto che abbiamo sperimentato dal 1945 non merita di sopravvivere. Occorrerà quel magistrato straordinario, a tempo, che la Roma repubblicana antica, prima delle guerre di fazione, chiamava ‘Dictator’.

Oggi il Pensiero Unico dice no, dunque il Dictator serve davvero.
Alla fine del 2007 ci fu una riflessione perforante di Michele Salvati: un editoriale del Corriere della Sera intitolato ‘L’illusione del dittatore’ (il titolo attestava che l’aspirazione era diffusa). Il deputato e accademico rifletteva: “Esistono problemi difficilmente trattabili in democrazia, e proprio da questi dipendono il declino del Paese e la sfiducia che lo pervade (…) Ogni tanto gli scienziati sociali fanno l’ipotesi del ‘benevolent dictator’. Occorrono misure ispirate a imperativi di legalità, efficienza, concorrenza, merito; un’impresa impopolare e di lunga lena, due caratteri che rendono l’impresa difficile in ogni democrazia, perché i voti arrivano se si assecondano gli interessi e le mentalità prevalenti (…). La conclusione di Salvati: “Ai tanti ingegneri costituzionali che si affannano al capezzale della seconda repubblica l’arduo compito di inventare un equivalente democratico del ‘benevolent dictator'”.
Dette dal maggiore politologo del Partito democratico, anzi dal suo progettista concettuale, sono verità aspre, durezze salutari, vaticini di un futuro già cominciato. Ne dette la prova ‘a contrario’ un esilarante numero di ‘Liberazione’ (23 dicembre ’07) largamente dedicato a maledire Salvati.

Un dittatore benevolo modellerà (gestirà all’inizio) la repubblica del sorteggio, senza le urne vecchi utensili dei politici. La storia ha conosciuto non pochi reggitori-a-fin-di-bene. Tali furono molti dei tiranni che nel mondo greco liquidarono gli assetti aristocratico-oligarchici spianando la strada, almeno nell’assetto ateniese, alla democrazia diretta (nella cui fase migliore Pericle fu di fatto il ‘benevolent dictator’). Il più recente dittatore indispensabile fu, nella Spagna 1923-30, Miguel Primo de Rivera, definito bonario anche dagli storici di sinistra.
A lui, come a Bismarck in Germania, si dovettero in Spagna i passi iniziali del Welfare State. In più, il Dictador chiuse la rovinosa guerra in Marocco e avviò nel concreto la modernizzazione: strade, ferrovie, telefoni, industrie pubbliche e, soprattutto, quegli aiuti ai poveri di cui la repubblica sinistrista di Manuel Azagna fu perfettamente incapace (ad Azagna premeva la laicità e l’alfabetizzazione). Infatti il dittatore ottenne la piena collaborazione dei sindacati di Francisco Largo Caballero, il futuro ‘Lenin spagnolo’ e il capo di uno dei governi repubblicani. Primo de Rivera non impose un vero partito di regime, non liquidò fisicamente né incarcerò gli oppositori. Li lasciò emigrare o, secondo quanto reddito avevano, li multò. Appena gli eccessi della spesa pubblica e la Depressione del ’29 misero in difficoltà il suo potere, nel giro di ore si dimise e andò a morire a Parigi. Resuscitasse, però nello Stivale!

Antonio Massimo Calderazzi