FRAGA IRIBARNE MANCO’ ALLA PROMESSA DI AVVICINARE L’UTOPIA

Appariva seppellita, la “teoria del Capo” (in dottrina si chiamava così). La leadership d’oggi sembrava accertata come tipica funzione collettiva, dei circoli dirigenti nel loro assieme, più o meno ordinati in gerarchia. Magari è proprio così. Ma funzionano così male i congegni della collegialità oligarchica che occorrerà spuntarcela con lo sforzo verso la democrazia semidiretta, in forme spregiudicate. E poiché da sola tale democrazia sarebbe fragile, bisognerà valorizzare il ruolo del Capo, del monarca non ereditario. Del comandante della nave.

In teoria è vano scrutare l’orizzonte per attendere l’Unto del Signore. In teoria, è il più irrazionale degli Avventi. Ma così sgradevole, la democrazia partitico-professionale, non se l’immaginavano nemmeno le tante generazioni di odiatori della rappresentanza, del parlamentarismo. Sgradevole perché scosciata e inetta, turpe ma neghittosa e quasi sempre depressa, Passi che è tanto poco armoniosa. Ma così inefficiente e corrotta, perché? La democrazia degli uguali dovrebbe essere trionfo del senso comune. Dovrà contentarsi di così poco e così scadente, il senso comune?

Allora non faceva lirica F.T. Marinetti, bensì predicava un saggezza superiore, quando respingeva tutti insieme i secoli del demo-liberalismo, delle novene costituzionali, dell’afflato delle urne. Dopo millenni di dominio dei vecchi alla guida di tribù e di regni, Filippo Tommaso proponeva: ” Invece di un Parlamento di oratori incompetenti e di dotti invalidi, ‘moderato’ da un Senato inutile, avremo un governo di 20 tecnici, non moderato bensì eccitato da una schiera di giovani non ancora trentenni”. Pensava a giovani diversi, si sa; avesse immaginato questi nostri vecchissimi contestatori gauchisti d’oggi, si sarebbe rassegnato al suo ‘Senato di moribondi, moderatore delle 508 incompetenze di Montecitorio’. Scriveva ancora: “Le Assemblee degli eletti non sono quelle indomite cavalle che la retorica dei nostri padri (dei nostri bisnonni- N.d.r.) amava immaginarsi. Fanno un po’ di chiasso, si abbandonano ai tumulti tanto da far strillare agli strilloni dei giornali, ma poi, quando si tratta di far sul serio, sistematicamente si addormentano”.

Neanche i tumulti fanno più, le nostre legislature. Un’infingardaggine fino allo stremo. Un interminabile corteggio di silenzi complici, assordanti, deafening come tutti i silenzi senza costrutto. A compenso di tanto nullismo centomila riunioni, vertici e tavoli all’anno: esecutivi, direttivi, comitati, tavole rotonde, panels, conferenze stampa, consulenti, esperti, capicorrente, capi relatori. L’apoteosi dei tangheri. E’ un po’ tutto Italia, l’Occidente del 2020. Tedioso, sconclusionato, egemonizzato dalle mezze calzette, fondatori di un’Europa gassosa. A dissestare la nostra ed altre repubbliche, basta una lega tra sindacati, manager di imprese morenti e politicanti ladri delle ‘forze che si ispirano agli ideali della Resistenza’. E’ da 25 e più secoli che l’Occidente tenta di far funzionare la democrazia dei maggiorenti: in questo Atene ‘coronata di viole’ non era molto meglio della Terza, Quarta o Quinta repubblica di Francia. Di Draconi non ce ne fu che uno, e non durò abbastanza.

Siamo qui, a Roma come a Glasgow, all’Aja e a New York, vuoti di convinzioni e di impulsi, posseduti da un cinismo e da uno sfinimento tali che fra un tot -questo sentiamo come una legge della natura e della vita- torneremo alle passioni, ai progetti e alle chimere. L’Occidente condannato dalle radiografie e dagli esami istologici, l’Occidente che si sapeva estenuato, si scoprirà vitale, malato solo di troppe tossine e troppo decubito. Infatti l’Europa non si unisce, la Gran Bretagna affonda nella senescenza, gli Usa si svenano per difendersi da nemici immaginati solo dal Pentagono e dai think tanks delle industrie belliche. La Cina va per la sua strada: niente sentimentalismi, niente fideismi, scherno per le convenzioni, per le buone maniere e per i ‘diritti’. Da noi abbiamo un congegno politico che di solito è il governo dei peggiori: compresi, lo scorso secolo, i comunisti che, comicamente, si credevano diversi. Le volte che la Repubblica nata dalla Resistenza non è malgoverno, è merito di impolitici e di ‘grands commis’, sempre che non rubino e sappiano il loro mestiere. I politici della partitocrazia non sono che appaltatori di chiacchiere e avvocaticchi. Peggio di loro ci sono solo gli opinionisti che esaltano la ‘più bella delle Costituzioni’: un giorno applaudiranno ai cestinatori della ‘Più Bella’.

Forse l’insurrezione contro gli usurpatori sarà un fatto spontaneo, corale. Forse invece verrà un Ulisse sterminatore dei Proci. O un Dracone giustiziere. Meglio se sarà un maestro e un condottiero, un Maometto o un Lutero, capace di mobilitare i cuori e le coscienze, non solo di mettere a punto dottrine politiche. I fossi del mondo sono colmi di politologi ed essi hanno da darci solo la loro sapienza di malaugurio: che viviamo un tempo di disgusti. Poveri diavoli, i politologi, non è colpa loro se il giro intero dell’orizzonte è quali i popoli non lo vorrebbero. Il capitalismo e la democrazia si macerano nella palude. Dal Terzo Mondo sventurato e senza un barlume di creatività politica, non viene un’idea. E’ la realtà che i politologi descrivono. Un’altra e migliore non sanno nemmeno desiderarla. Il più moderno e immaginoso tra loro non andrà oltre il rispetto per la contestazione trasgressiva; non oltre la demolizione dell’etica antica, quella che ancora vale o comunque è cara ai popoli. I politologi consegnano il futuro ai terroristi, ai demagoghi del consenso, agli Spartachi ribelli. Alle maniere vecchie di pensare il futuro. Non avendo la forza per sognare il Nuovo Ordine, legittimano il Non-Ordine. Non ammettendo il pensiero politico come profezia e come visione, i politologi annunciano un futuro il quale non è che il passato impoverito della storia.

Il tumore dell’Occidente è di credere in valori senili, e lo fa per cinismo. Dal cinismo deriva sul piano civile di lasciarsi governare dai peggiori, dalla partitocrazia, dalla prepotenza sindacale, dagli evasori fiscali, dai rivenditori dell’impostura: sull’intesa che nessuno dei decisori vorrà o saprà cambiare le cose. Se il cambiamento ci fosse, nessun prezzo sarebbe troppo alto. I vecchi padroni della società hanno fatto posto a tavola per i professionisti delle urne. Il regno del privilegio resta, perenne come il bronzo. Peraltro certi paesi sono meno ammalati degli altri. La Francia trovò un Capo che assestò colpi di clava sul partitismo: è tutta qui la differenza tra la repubblica di de Gaulle e la Quarta: il Parlamento, com’è giusto, conta quasi niente. E’ stato ridimensionato alle sue mansioni naturali: ua camera di registrazione, una sede di obiezioni e di sofismi, quasi una Onu casalinga o screditata. Tutto ciò ha colpito sodo su notabili e su capicorrente.

Il Dracone o il Lutero che attendiamo dovrà essere, oltre che signore dell’azione, anche maestro e guida spirituale. Dovrà ispirare aneliti, suscitare visioni: questo fecero Maometto e Lutero, non i tanti dittatori della storia . Dovrà far lievitare idee attorno a lui. In Spagna sembrò levarsi uno statista con le risorse culturali, il carisma e il nerbo per deviare la corrente: Manuel Fraga Iribarne, l’uomo che aveva forzato da ministro il regime franchista a cambiare. Pervenne ad essere considerato, soprattutto all’estero, credibile successore del Caudillo, erede del potere senza far scorrere il sangue e senza riempire le carceri di oppositori. Apparve idoneo a creare un modello politico nuovo. In Fraga la sapienza specifica del cattedratico aveva il supporto di una natura imperiosa e di una prontezza selvatica all’azione. Un uomo così sembrava fatto di una delle leghe più rare: la lega tra il filosofo, il capo e l’ingegnere sociale. Chiudeva spesso i suoi ragionamenti con “Y Dios con todos“. Alcuni tratti del suo progetto erano avvincenti: la cogestione dell’impresa, quale momento del passaggio dal sistema delle élites alla partecipazione e ‘perché non suonino le trombe di Gerico’. La rigenerazione del capitalismo (‘la Borsa non ha saputo sostituirsi al Santo Graal’). L’integrazione dei ceti per fondere la dos ciudades‘ e far avanzare l’uguaglianza. La riscoperta della carità, perché ‘c’è più senso della realtà nel Discorso delle Beatitudini che in tutti gli scritti di Lenin, come purtroppo sa chi è povero in Urss’. Il riscatto della mansuetudine contro la truce grandezza dei Conquistadores. L’invocazione di un cristianesimo più puro, in un paese come la Spagna ‘dove tanti peccati si perdonarono alla Chiesa storica’. La severità contro la violenza rivoluzionaria, tollerata per vigliaccheria dai borghesi di mala coscienza. L’esaltazione del lavoro contro l’eroismo ‘inutile’ del matador e contro la maschia ferocia della guerra civile. L’ottimismo di cambiare in meglio la Spagna, ‘non in quanto nazione (il nazionalismo è morto), ma in quanto parte dell’Occidente dove l’immobilismo imprigiona tutti noi’.

Manuel Fraga Iribarne prometteva di avvicinare l’utopia. Di chiudere sì a doppia mandata il sepolcro del Cid, come invocò Joaquin Costa. Ma anche di tener viva la tensione morale ‘che fu la chiave della nostra grandezza, miseria e anche follia’. Dalla ‘altra Spagna’ di Lope de Vega, di Calderon de la Barca e di Fraga Iribarne l’Occidente si attendeva la trasfigurazione nelle opere dell’eroico quotidiano e nell’euforia della liberazione. Fraga aveva scritto: “A Jerez de la Frontera, nel tempo imperiale di Carlo V, gli uomini non avevano da mangiare. Si mangiarono, letteralmente, tra loro”. Ma quando arrivò il momento Fraga mancò alla promessa di rigenerare. Fondò un partito come gli altri. L’uomo dell’esplorazione del futuro si fece sedurre dalla Tradizione liberal-costituzionale e monarchica della Derecha, dalle eleganze concettuali della Restaurazione di Canovas del Castillo e di Sagasta. Avrebbe dovuto tentare di liberare dalla Vecchia Politica quello che fu un grande paese. Invece mise insieme un partito degli imprenditori e delle duchesse. Dai vaticinii e dai presagi di Fraga l’Occidente aveva il diritto di attendere l’esperimento del Buongoverno senza le frodi delle urne, senza le lebbre della demoplutocrazia.

Antonio Massimo Calderazzi