Qualche settimana fa i grandi giornali internazionali hanno enfatizzato che la macchina produttiva della Spagna ‘ha superato’ quella italiana.
Il “Financial Times” ha precisato che tra due anni il vantaggio di Madrid su Roma raggiungerà il 7%. Centoventi anni fa il Regeneracionismo e la Generazione del ’98 -le due espressioni più alte del pensiero spagnolo moderno- avrebbero giudicato folle e scervellato pensare un’economia nazionale che non diciamo superasse altri apparati produttivi d’Europa, ma semplicemente fosse considerabile parte d’Europa.
Le menti creative di quella che fu la fase più vivida dell’intelligenza iberica del nostro evo concordavano nello sconforto: l’Europa finiva ai Pirenei; la Spagna era Africa; uno spagnolo ricco, meditava Angel Ganivet, era disgustoso; chiudere a sette mandate il sepolcro del Cid; al potere gli ingegneri e gli agronomi. Insomma, a quel tempo un ‘milagro espagnol’ era inconcepibile: si ipotizzava che la mente della maggior parte degli iberici mancasse dei meandri del pensare economico e del praticare l’impresa.
Oggi che il ‘milagro’ è una certezza da decenni occorre avvertire che mai esso ci sarebbe stato se tre governanti spagnoli non avessero salvato il Paese da altrettante guerre. Furono Eduardo Dato, Miguel Primo de Rivera e il caudillo Francisco Franco. Nel 1914 il presidente del governo, Dato, sbaragliò i conati dell’ultradestra per intervenire a fianco degli Imperi Centrali; più ancora sventò i tentativi dei gruppi di sinistra di coinvolgere la Spagna a fianco di Francia, Gran Bretagna (perché ‘democratiche’) e Russia. Nel 1921 Dato fu assassinato da un commando di anarchici. Primo de Rivera volle l’abbandono del colonialismo in Marocco (in ciò si scontrò con Francisco Franco, il più prestigioso degli ‘africanisti’).
Ben maggiori furono i meriti del Dictador del 1923-30: egli gettò le fondamenta del Welfare State, aiutò i ceti più umili e favorì al massimo il Partito socialista, unica sinistra legale dell’epoca (gli anarchici sapevano solo sobillare e ammazzare). Il terzo benemerito della pace fu Francisco Franco: nel 1940 a Hendaye resisté al disegno di Hitler di arruolare la Spagna nel secondo conflitto mondiale. E’ vero, il Caudillo mandò una “divisione Azzurra” a farsi maciullare in Russia: ma fu uno sforzo circoscritto, in ogni caso un simbolico ricambiare l’aiuto ricevuto da Franco per vincere la Guerra Civile.
La neutralità arricchì la Spagna nella Grande Guerra perchè tutti i belligeranti avevano necessità di comprare dal regno allora borbonico. Quando il conflitto finì, l’export spagnolo precipitò. La guerra coloniale in Africa contrastata da Primo de Rivera era stata meno luttuosa, ma aveva imposto dolori e ingiustizie (i maschi agiati si risparmiavano la leva e la destinazione in Africa pagando allo Stato una somma per essi modica). Vedremo che il Paese ha ben altri debiti di riconoscenza verso Primo. Quanto a Franco, chi si sentirebbe di negare il suo merito, quando a Hendaye ebbe la forza di dire no al Fuehrer? Il no di Hendaye gli rese possibile di avvicinarsi cautamente agli Alleati man mano che coll’inverno 1942 il Reich cominciò a perdere la guerra. Probabilmente il no di Hendaye ebbe un ruolo anche nella decisione dell’Occidente di respingere nell’autunno 1944 l’assurdo tentativo della Resistencia Armada di abbattere il franchismo coi metodi partigiani: attentati, assassinii, esecuzioni.
Gli sparuti episodi guerriglieri e nel 1944 la declamata ‘invasione’ della valle pirenaica di Aran ( facilmente sventata dal regime) furono drammaticamente vani. Lungi dal suscitare l’insurrezione delle masse popolari, il conato partigiano confermò che i lavoratori volevano la pace, dopo le tragedie della Guerra Civile. Furono pochi i proletari che non aiutarono con le ‘contrapartidas’ (reparti misti di civili e di repressori militari o polizieschi) lo spietato sterminio dei partigiani comunisti. I quali per nutrirsi alla macchia non potevano che rapinare i contadini. Assassinarono anche per procurarsi un singolo schioppo.
Tutto ciò premesso, sbagliano in pieno quanti credono che il quarantennio franchista fu solo autoritarismo fascista. Fu un autoritarismo poco fascista, specie a guerra mondiale finita. Franco godé di un consenso popolare pari a quello che tra il 1922 e la conquista dell’Etiopia tolse il senno al Duce.
Il Caudillo, uomo prudente, non perse mai il senno: con gli anni Cinquanta si votò alla crescita economica. In ogni caso sia chiaro che l’attuale rigoglio produttivo della Spagna non risale alla fine del franchismo (1975). Se fino al 1950 il Caudillo si era soprattutto impegnato a far sopravvivere il regime, il 1951 fu un tornante decisivo. La dedizione di Franco passò alla costruzione economica. Già nel 1939, nel ribadire che scioperi e sindacalismo di lotta erano reati, Franco rivendicò di avere istituito sussidi di disoccupazione e malattia, assegni familiari, il Patronato Antitubercolare, la Fiscalìa de la Vivienda (alloggi popolari). Già nel 1939 nacque l’Instituto Nacional de Colonizacion (creava piccoli poderi). La Magistratura de Trabajo prese ad arbitrare nei conflitti tra datori di lavoro e dipendenti. Fu reso molto più difficile licenziare questi ultimi. Crebbero le pensioni di vecchiaia e di invalidità, il Seguro Obligatorio de Enfermedad e altre provvidenze istituite o almeno avviate tra il 1923 e il 1930 dalla Dictadura di Primo de Rivera.
Quelle di Franco erano anche misure propagandistiche, i cui benefici andavano valutati sui dati oggettivi. Sta di fatto che alla fine del 1950 il regime poté vantare realizzazioni concrete: 70 centrali tra idroelettriche e termiche, alcuni impianti che lavoravano l’alluminio, fabbriche chimiche, farmaceutiche, di concimi, automobilistiche (Pegasus), arsenali navali, raffinerie di petrolio; in più si era operato alla ricostruzione delle regioni che avevano combattuto la Guerra Civile. Non poche iniziative manufatturiere ebbero risultati economici scadenti e soffrirono di impostazioni autarchiche. Solo nel 1953 il reddito pro capite raggiunse il livello ante Guerra Civile. Entro il 1955 si avviarono programmi prioritari di sviluppo, con liberalizzazioni, indebolimenti dell’autarchia, impulsi alle importazioni, crediti alle iniziative private. Sorsero nuovi impianti siderurgici e la fabbrica delle auto Seat. Il Piano Badajoz avviò la trasformazione irrigua di 100 mila ettari, si realizzarono nuovi invasi con impianti idroelettrici. I risultati non furono pronti: nel 1960 la Spagna era, col Portogallo, il paese più povero d’Europa. Peraltro i livelli di vita migliorarono, anche se nel 1950 solo un terzo degli alloggi avevano l’acqua corrente. Le cose migliorarono sensibilmente solo negli anni Sessanta, anche per l’emigrazione e per l’auge del turismo (nel 1960, 6 milioni di visitatori, il doppio che due anni prima). Alla fine degli anni Sessanta si poteva parlare di concreta liberalizzazione. nonchè di stabilizzazione, con forti realtà innovative. Lo sviluppo e il benessere (=più consumi) erano ormai al centro di tutta la politica economica. Già all’inizio del 1962 la Banca Mondiale valutava che il buono stato delle riserve legittimasse ulteriori sforzi per lo sviluppo.
Nel quinquennio 1961-64 l’economia spagnola crebbe di oltre l’8% l’anno. La produzione di elettricità passò dai 18,6 milioni di kwh del 1960 a 31,6 milioni, quella di acciaio da 1,9 a 3,5 milioni di ton., le nuove auto da circa 40 mila a 112 mila, l’import si triplicò, l’export raddoppiò. Nel 1965 vennero 14 milioni di turisti, che abbastanza presto divennero 24 milioni. Gli ultimi tre lustri del franchismo confermarono lo sviluppo come l’opera centrale del regime, accreditata soprattutto ai ministri e consiglieri ‘tecnocratici’ (piuttosto che ‘falangisti’) come Lopez Rodò e come l’ammiraglio Carrero Blanco, fidatissimo di Franco, destinato ad ascendere a capo del governo e ad essere assassinato dai terroristi del separatismo basco. La radicale trasformazione dell’economia e l’aumento del benessere divennero i massimi vanti del franchismo. I fatti confermarono: crescita 5,6% sul decennio dei Sessanta; l’output elettrico si avvicinò ai 57 milioni di kwh annui, quello dell’acciaio a 7 milioni di tonn., le auto a 450 mila unità.
Nel decennio dei Sessanta 4 milioni di spagnoli abbandonarono l’agricoltura, per la metà emigrando in Europa.
Scrive Juan Pablo Fusi, cattedratico alla Complutense di Madrid e uno dei principali storici del postfranchismo: “In questo periodo la Spagna aveva superato la barriera del sottosviluppo. Non era più un paese rurale, era una società industriale, urbanizzata e moderna, con alti livelli di benessere e di consumo. L’esportazione di navi divenne la prima voce dell’export, al posto dei tradizionali agrumi, olio e vino. Lo sviluppo dilatò il vasto consenso al regime (…) Franco dichiarava di avere dalla sua il 90% della nazione”. Nell’anno della sua morte il Pil procapite raggiunse 2,486 dollari; la popolazione che viveva in città oltre i centomila abitanti sfiorava il 75%.
Il 40% delle famiglie possedeva l’auto, l’85% aveva la televisione”.
Nella tarda estate 1969 esplose lo scandalo Matesa (utilizzazione indebita di 10 miliardi di Pesetas stanziati per favorire l’esportazione di macchinari tessili): la conferma di un serio problema di corruzione imbarazzò il regime, ma le conseguenze politiche furono trascurabili. Lo ‘sviluppismo’ dei tecnocrati e di Carrero Blanco continuò. Il Pil crebbe del 4,1% nel 1970, del 4,9 nel 1971, dell’8 nel ’72, del 7,8 nel ’73. I problemi di una società prospera -corruzione, terrorismo separatista- restarono in tutta la loro gravità. Conclusione obbligata: il grosso della crescita avvenne sotto Francisco Franco.
Antonio Massimo Calderazzi