A beneficio dei parecchi che rimpiangono la fase aurorale del Pensiero Unico – quel primo dopoguerra in cui a sinistra Palmiro Togliatti era dominus- trascriviamo qui pochi paragrafi di “Irrweg einer Nation”, libro di testo delle scuole est-tedesche, autore Alexander Abusch, prontamente pubblicato in italiano come “Storia della Germania moderna” dall’editore Giulio Einaudi, ferro di lancia dell’intellettualità progressista.
I suddetti nostalgici (in latino: laudatores temporis acti) erano, ovviamente, i giudici più spietati del totale asservimento al Regime della nostra cultura del Ventennio. Dunque essi nostalgici non troveranno irrilevante il capitolo finale del lavoro di Abusch, dal titolo ‘Il grande messaggio di Stalin’, datato Berlino settembre 1950.
Si concludevano così il capitolo e il libro: “Stalin, studioso classico del concetto di nazione, traccia anche al popolo tedesco la soluzione del problema del suo destino nazionale. Il maestro del metodo dialettico non si arresta alla confusa situazione odierna: egli è padrone del metodo dialettico non solo per la conoscenza, ma anche per la creazione della storia.
Nel suo profondo materialismo dialettico e materialismo storico, Stalin scriveva nel 1938: “Per il metodo dialettico non è importante ciò che a un dato momento sembra stabile e presto comincia a decadere, ma ciò che sorge e si sviluppa. In Stalin c’è la convinzione superiore che all’epoca della crisi generale del capitalismo, condannato storicamente a tramontare, le forze del socialismo e di una nuova democrazia si rafforzano (…)
Quando Stalin parla, non parla un qualsiasi uomo di Stato, per quanto potente; con l’uomo di Stato che guida il primo paese socialista del mondo parla il più esperto e responsabile combattente per la pace, il capo spirituale della classe operaia internazionale. Parla l’amico più fidato di tutti i popoli oppressi. Ogni sua parola pesa, perché è meditata in ogni minima sfumatura (…) Così la parola di Stalin si leva al di sopra dei dolori e delle rovine della guerra hitleriana. La parola di Stalin sta tra il popolo tedesco e il popolo sovietico con la forza della grandezza storica dell’uomo il cui nome va associato, su tutta la Terra, ai nomi di Marx, Engels e Lenin”.
Come il Duce nel 1940 si affrettò a mandare le sue armate contro la Francia per non arrivare in ritardo, nel 1950 Giulio Einaudi si precipitò a pubblicare il libro direttamente distillato dalla grandezza storica del maestro del metodo dialettico e capo spirituale dell’intera classe operaia del pianeta (momentaneamente in Italia la detta classe è un condominio con Matteo Salvini). Come ha sentenziato Alexander Abusch, “Stalin è padrone del metodo dialettico non solo per la conoscenza, ma anche per la creazione della storia”.
Non vi è chi non apprezzi lo sforzo dell’Autore per non scrivere ‘il creatore del creato’. Il Creatore, semplicemente.
Nel 1938, a impero abissino espugnato dalle Camicie Nere, gli Abusch italiani facevano capire che anche il volitivo Predappiese creava la storia, tra l’altro.
Tuttavia il loro entusiasmo di sicofanti (propr. ‘denunciatori di ladri di fichi’) aveva un’attenuante: il loro ‘Creatore’ non era il mostro assassino dello Stalin di quegli anni, anni delle Grandi Purghe: il Creatore georgiano mise a morte la maggior parte degli artefici della Rivoluzione d’Ottobre, e in più liquidò il resto dell’élite politico-militare dell’Urss.
Venerare il Duce da operetta era di necessità meno spregevole che deificare il ‘Creatore della storia’ venuto da Tiblisi.
A noi sembra educativo evidenziare che negli anni d’oro della sinistra gli intellettuali della nostra repubblica nata dalla Resistenza facevano quasi tutti come la casa editrice Giulio Einaudi: la tolda di comando dalla quale gli ammiragli e i commodori del progressismo fecero inabissare il comunismo, non solo nello Stivale.
Porfirio