E' abitudine della pratica medica di indicare questa o quella patologia col cognome dello scienziato che la scoprì o approfondì (p.es: "un caso di Alzheimer"). Non è andata così per Tom Wolfe, uno tra gli scrittori statunitensi più famosi. Egli è sì riconosciuto come il fortunato definitore del bugiardo sinistrismo alto-borghese: però la seria malattia che studiò non ha preso il suo nome. Nessuno ha mai chiamato "un caso di Wolfe" il morbo che p.es. da non molto ha colpito Giuseppe Sala, sindaco di Milano e terrore del fascismo.
Ma non era giusto che i cognomi di benemeriti della scienza fossero fatti turpi dalle malattie su cui si erano impegnati, purtroppo né debellandole né attenuandole. Quando Tom Wolfe morì, nel maggio 2018, i necrologisti ricordarono, a titolo di gloria, il libello "Radical Chic & Mau-Mauing the Flak Catchers" che gli editori newyorkesi Farrar, Straus and Giroux pubblicarono nel 1970. Mezzo secolo fa Wolfe derideva in particolare quella schiera di percettori di molti dollari che nelle loro principesche sale di Park Ave. procombevano in dure battaglie dalla parte degli ultimi.
'Ultimi' peraltro né sottomessi né inermi.
Lo storico scritto di Wolfe esordiva col folto ricevimento dato da Leonard Bernstein (West Side Story) e dalla consorte Felicia Montealegre per raccogliere fondi a favore delle Pantere Nere. La causa dei neri statunitensi era già abbastanza lanciata se, anni dopo, la nazione allora egemone del cosmo non trovò un presidente bianco al posto del semikeniota Barack Obama, fiorito a Honolulu; e, se oggi, quella nazione non avverte il ridicolo di attribuire alla signora Michelle Obama il pensiero di poter asserire meglio di Hillary Clinton i diritti sulla Casa Bianca delle consorti presidenziali, grondanti meritocrazia.
Esilarante com'era la cronaca di Wolfe del party fondativo del radicalismo chic planetario, in Italia non fece abbastanza scalpore.
Come avrebbe potuto, in un paese avvezzo da millenni ai 'mores' disinvolti della bella gente?
In compenso, quando lo scettro del 'Corriere della Sera' passò all'ereditiera Giulia Maria Crespi, il parteggiare di non pochi milanesi ricchi per i lumpenproletari, o quanto meno per i partiti beneficati delle vittorie partigiane, si erse minaccioso.
Indro Montanelli pagò per primo, estromesso dall'augusto quotidiano.
Altri alto-benestanti fecero molto più della Crespi: finanziarono la nascita di 'Repubblica', oggi sommo usbergo del sinistrismo di gamma (nei fatti indistinguibile dal destrismo). Gli editoriali della galassia di testate di Carlo De Benedetti gridano all'unisono che il fatturato forte ha il cuore a sinistra, dunque parteggia a parole per i diseredati di tutti i continenti.
La Park Ave. di Tom Wolfe aveva un debole, oltre che per le Pantere Nere, per i raccoglitori latini dell'uva californiana. Persino per gli immigrati dalle isole Samoa, descritti da Wolfe con ventri e polpacci smisurati.
Chi potrebbe negare l'empito giustizialista degli epigoni di donna Giulia Maria? Tom Wolfe ha schernito per sempre il fatuo engagement di tutte le varianti indoeuropee del sansculottismo ad alto reddito: Esquerda Esquisita, o Festiva; Champagne/Caviar/Chardonnay Socialism; et cet.
In tedesco troviamo non solo Salonbolschevismus, ma persino Toskana Fraktion. Qui il riferimento è alla propensione dei meglio intellettuali germanici -quelli ben pubblicati- per i cipressi, le colline e i capalbi della terra di Dante e Roberto Benigni: cantore l'Alighieri del guelfismo un po' ghibellino, il secondo della Costituzione partitocratica, placenta o utero della peggiore politica d'Occidente.
La fissazione più recente del Salonbolschewismus nazionale è lo jus soli: come se lo Stivale non fosse troppo sovrapopolato per necessitare di africane o sudamericane a gestazione avanzata.
Ma bisogna ammettere che Tom Wolfe aveva scelto bersagli migliori di Giulia Maria e di Ezio Mauro per i suoi lazzi irriverenti ma sofisticati: i miliardari di Manhattan che singhiozzavano per i mestizos raccoglitori d'uva californiana.
A.M.Calderazzi