L’ultimo decennio del sec. XIX fu la fase populista della storia americana. La Guerra di secessione e il completamento della conquista dell’Ovest
avevano spento la fiabesca adolescenza degli Stati Uniti, quando gli uomini e le donne migliori erano pionieri, e quando le città erano piccole, culturalmente omogenee e virtuose. La sottomissione e poi la ricostruzione del Sud prostrato avevano scatenato tutte le cupidigie. Trionfavano la corruzione dei politici e il commercialismo. Dimenticati gli ardimenti della Frontiera, le circostanze idilliche dell’esistenza scomparvero nelle terre messe a coltura e cominciarono le difficoltà: le ‘bolle’ che si sgonfiavano, trasporti ardui, caduta dei corsi dei prodotti, siccità, solitudine. Cominciò lo scontento agrario, che era disagio grave della classe maggioritaria del Paese.
I due partiti tradizionali, non sapendo rappresentare i bisogni reali della gente, negli anni Novanta dell’Ottocento dovettero fronteggiare il Partito del Popolo, che per un momento apparve poter prevalere sui gruppi e sugli interessi che avevano fatto l’Indipendenza e che gestivano il potere. In qualche misura il Populismo era anti-politico e anti-intellettuale, ma era soprattutto anti-Establishment. Nelle elezioni del 1892 i candidati populisti non raccolsero abbastanza voti, ma nel 1896 il generale James Weaver, distintosi nella Guerra Civile, credette di presentarsi per la Casa Bianca. Come esponente di un ‘third party’ fu naturalmente sconfitto, ma attestò che le campagne più svantaggiate inclinavano ad insorgere. I farmer che si erano indebitati per creare le loro aziende, o per resistere alla caduta di valore dei loro raccolti, si consideravano vittime dei banchieri, delle ferrovie che trasportavano i prodotti, e dei gruppi della East Coast che dominavano i mercati. L’euforia dei decenni passati era sparita travolta dal collasso di vari mercati. Il movimento populista, piuttosto che un vero fatto insurrezionale, fu un episodio anti-sistema, e più ancora un convulso tentativo di far tornare il dinamismo, i redditi e la fiducia del passato. In parte fu rivolto contro la classe politica, molto contro i ‘poteri forti’.
In quanto scontento del proletariato agrario non abbastanza scolarizzato, le espressioni, proposte e formule d’azione del movimento populista furono spesso ingenue, rozze, estreme, quando non semplicemente bizzarre e risibili. Campeggiavano, oltre al rimpianto dei tempi aurorali e gloriosi dell’America, le denuncie delle ‘congiure antipopolari’ dei finanzieri di Wall Street e di Londra, le requisitorie contro tutti gli altri ‘nemici’ delle campagne. Le formule e le parole d’ordine più irrazionali indussero lo storico Richard Hofstadter a intitolare ‘Il folklore del Populismo’ un capitolo del suo importante testo “The Age of Reform: from W. Bryan to F.D.Roosevelt” (1956). Esordiva Hofstadter: “Per tutta una generazione dopo la Guerra Civile, in un’epoca di intenso sviluppo economico, la nota dominante della vita politica americana fu una soddisfatta tranquillità. L’agitazione populista, mossa dall’indignazione, vi mise fine (….). Le proteste, le rivendicazioni, le denuncie e le profezie dei populisti risvegliarono in molti americani lo spirito del progresso collettivo”.
Citiamo altri libri significativi sul populismo: J.D. Hicks, “The Populist Revolt”, 1931; S.J.Buck, “The Agrarian Crusade”, 1920; Martin Ridge, “Ignatius Donnelly”, 1962. Ma la bibliografia è parecchio più nutrita.
Furono innegabili nel populismo gli aspetti di provincialismo, nativismo, irrazionalità. Per la maggioranza dei seguaci del movimento, la vicenda del loro tempo si riassumeva nella lotta tra i predoni (i monopoli, i trust, le banche, le ferrovie, i profittatori) e i predati: farmer e tutti i produttori manuali di ricchezza, che il fisco perseguitava. Il popolo doveva ribellarsi e vincere: se ciò non accadesse, i portavoce del movimento annunciavano il trionfo del male, la fine delle istituzioni democratiche, forse anche l’anarchia e il sangue. Nel manifesto populista per le presidenziali del 1892 era scritto: “Ci avviciniamo a una crisi grave. Se la lotta tra possessori e produttori di ricchezza dovesse protrarsi molto andremmo a un disastro spaventoso. La Nazione è sull’orlo della rovina morale, politica e materiale. La corruzione domina le urne, gli organi legislativi e il Congresso; lambisce persino l’ermellino dei tribunali. I frutti della fatica di milioni di lavoratori sono sfacciatamente rubati da pochi individui che ammassano fortune colossali. Si avvicina la distruzione della civiltà”.
L’attesa di un’apocalisse ebbe espressione letteraria nel romanzo fantapolitico di Ignatius Donnelly “Caesar’s Column”. In esso la feroce lotta sociale negli Stati Uniti trovava scampo in un paese d’utopia situato in Africa, forse in Uganda. In patria i plutocrati ingaggiavano ‘uno stuolo di demoni’ che, dai dirigibili che pilotavano, minacciavano il popolo americano con le loro bombe a gas velenoso. Le lotte sociali erano accanite. Persino i virtuosi contadini di un tempo erano divenuti spietati selvaggi per la durezza della loro esistenza, tra avversità della natura e dei mercati, oppressione delle tasse e concorrenza dei proletari urbani, immigrati soprattutto dai paesi miseri del mondo. Il romanzo narrava che verso la fine del XIX secolo i lavoratori americani si erano ribellati e per piegarli i loro sfruttatori avevano fatto ricorso ai ‘demoni’. Le ferocie e le ghigliottine della Rivoluzione francese venivano superate dalla carneficina statunitense.
Gli oppressori erano bruciati sul rogo. I cadaveri coperti di cemento formavano piramidi gigantesche. Gli scampati da tante ferocie fuggivano in dirigibile sulle montagne dell’Africa; lì fondavano uno Stato socialista e cristiano nel quale il programma giustiziero dei populisti diveniva realtà. Commenta lo storico Hofstadter: “La fantapolitica di Donnelly è puerile, ma non risibile. Descrive l’orribile potenziale della rivolta di grandi masse. Il libro arrivò nel momento in cui molti attendevano un’Apocalisse. In passato molte vicende della storia americana stimolarono le menti degli eccentrici e dei fachiri politici”.
La vulgata di una cospirazione dei malvagi contro il popolo americano suscitò nello scorcio dell’Ottocento un’immensa letteratura di pamphlet. Tipico il fortunato libro della signora S.E.V. Emery, titolo “Sette cospirazioni della finanza che hanno schiavizzato gli americani”. L’opera era dedicata “al popolo asservito di una repubblica morente”. Secondo l’autrice, prima della Guerra Civile, gli Stati Uniti erano un Eden. In seguito, specialmente nel 1873, Wall Street decise una serie di perfide azioni per strangolare la circolazione monetaria attraverso la demonetizzazione dell’argento. Dietro Wall Street c’era la Banca d’Inghilterra, monopolista dell’oro. Il ‘Panico del 1873’ produsse bancarotte e drammi umani, dai suicidi agli assassinii, all’alcoolismo, ai divorzi.
Nel romanzo “The Two Nations” si raffigura il potente barone Rothe, grande della finanza londinese, intento a conseguire la demonetizzazione dell’argento negli USA allo scopo di impedire che l’America sorpassase la Gran Bretagna. Sullo sfondo della corrotta aministrazione Grant (il presidente Grant era stato il comandante supremo dell’esercito nordista che aveva piegato il Sud sul campo di battaglia), un emissario del barone riesce a comprare in massa l’intero Congresso di Washington perché legiferi contro l’argento. Anche gli economisti più prestigiosi vengono guadagnati alla causa dell’oro, metallo monopolizato da Londra. Grover Cleveland, uno dei successori di Grant alla Casa Bianca, è rappresentato come agente dei banchieri ebrei e dell’oro londinese. Il movimento populista si caratterizzò anche attraverso numerose posizioni antisemite. Secondo lo storico Hofstadter, quel po’ di antisemitismo moderno negli Stati Uniti risale al Populismo e si spiega in rapporto alla credulità, al provincialismo, all’innata diffidenza dei farmer. Inutile dire che il movimento populista denunciava i finanzieri e gli industriali per la loro insaziabile voglia di immigrati stranieri a buon mercato, la ‘feccia del Creato’.
Mary E. Lease, altra accanita esponente populista, divenne famosa per avere consigliato agli agricoltori di ‘coltivare la rivolta, non il grano’. Visto che non c’erano più terre vergini da distribuire gratis nell’Ovest, gli USA dovevano organizzare l’emigrazione dei farmer nelle repubbliche sudamericane da essi controllate, nonché nei paesi da annettere: Canada, Cuba, Haiti, Santo Domingo, Hawaii. Abbiamo visto che gli anni del populismo, ultimo decennio del secolo, videro una straordinaria fortuna della fantapolitica catastrofista. Proliferarono gli scenari apocalittici e i progetti di dominazione mondiale. L’Inghilterra, sola superpotenza planetaria, andava combattuta con ogni mezzo, e preferibilmente annessa.
Con tutti i suoi limiti -il provincialismo, l’ingenuità, la credulità- e con tutte le sue sconfitte (passato l’ultimo decennio del secolo non si parlò quasi più del Partito del Popolo), il populismo agì nella realtà americana ben al di là delle apparenze. Scrive lo storico Hofstadter: “Se gli intellettuali del tempo prestarono ai populisti un’attenzione disdegnosa e superficiale, gli storici posteriori hanno apertamente riconosciuto i loro meriti, spesso trascurando i loro difetti…. Il populismo fu il primo movimento politico di qualche rilievo a sostenere la responsabilità del governo federale nella gestione delle risorse collettive, nonché ad affrontare seriamente i problemi creati dall’industrializzazione e dall’immigrazione in massa. Discutere le generalità ideologiche dei populisti porta a far loro qualche ingiustizia: fu con le iniziative concrete che presero, non con le formule ideologiche, che essi contribuirono costruttivamente alla nostra vita politica”.
Lasciamo ad altra occasione qualche rilievo sul populismo, sia americano sia europeo, dei nostri giorni.
Antonio Massimo Calderazzi