Riflessioni di Nicola Matteucci sul movimento neo-conservatore negli USA. L’adesione di J.F.Kennedy

Una sessantina d'anni fa, in pieno levarsi negli States dell'aurora kennediana, il compianto professore Nicola Matteucci, luminare degli studi storici a Bologna e cofondatore de Il Mulino, scriveva un'imponente introduzione -150 pagine- all'edizione italiana (Il Mulino) di "The American Revolution: a Constitutional Interpretation", molto autorevole e poco letto saggio di Charles H. McIlwain, uscito nel 1923. 

Lo studioso americano si diceva "scettico sulla possibilità che la dottrina della sovranità parlamentare sopravvivesse al trionfo della democrazia". McIlwain negava che la suddetta settecentesca dottrina fosse adeguata alle ex-colonie britanniche, ormai sul punto di diventare grande nazione: infatti c'era stata la Rivoluzione americana. La quale risultò dal fallimento del sistema costituzionale dell'Impero nel far fronte a situazioni nuove. "Nel XVIII secolo dalle due sponde dell'Atlantico si guardava invano al Parlamento londinese. I leaders inglesi, compreso William Pitt, furono incapaci, per scarsa capacità intellettuale, secondo lo studioso americano, di intuire la vera concezione dell'impero britannico". L'Introduzione di Nicola Matteucci rileva che "un'attenta meditazione sui problemi della moderna democrazia porterà McIlwain a respingere sia il mistico concetto della sovranità dello Stato, proprio della scuola tedesca, sia quello francese della sovranità del popolo, sovranità possibile solo in una democrazia diretta".

"Negli anni 50 del Novecento la guerra fredda e l'intervento in Corea, il contrasto tra democrazia e comunismo, le dure responsabilità degli USA nella difesa dei valori occidentali hanno imposto agli storici americani una domanda fondamentale sulla natura della civiltà e della tradizione politica del proprio paese. E ciò che maggiormente stupisce un intellettuale europeo, così propenso a farsi mediatore di conflitti più grandi di lui, è il fatto che il dissenso non metta mai in dubbio la lealtà verso il proprio paese, la profonda accettazione della sua storia".

La cultura USA che Matteucci descrive "più europea rispetto alle passate generazioni, ma più ricca dell'attuale cultura europea, capace cioè di fornire un modo nuovo con cui guardare l'America, essa porta altresì gli studiosi americani ad essere aperti critici dell'intellighenzia europea, con la sua vocazione per non superate frustrazioni al mandarinismo e al bovarismo.

Matteucci cita D.J. Boorstin, duro critico degli intellettuali italiani e francesi per la loro sufficienza e atteggiamento di superiorità. In "The Genius of American Politics "(1953) Boorstin scrive: "Per la declinante cultura europea -una cultura che muore di povertà, di monopolio, di aristocrazia e di ideologia- è naturalmente di una certa consolazione pensare che i suoi mali siano semplicemente gli eccessi delle sue virtù. "Il concetto europeo di cultura è essenzialmente aristocratico; e i suoi maggiori successi, specialmente in paesi come Italia e Francia, sono raggiunti nelle arti aristocratiche.

La letteratura dell'Europa è intesa per i pochi, i suoi giornali sono sovvenzionati dai partiti; i suoi libri, quando hanno successo, hanno una circolazione che è un quinto di quella in America, fatta la proporzione delle popolazioni. La cultura europea, o almeno la maggior parte di essa, è l'eredità di un passato pre-liberale".

Invece P. Viereck, in 'Professori dalla mentalità sanguinaria: la funzione antisociale di certi intellettuali', critica la funzione deleteria esercitata dalla cultura francese con la creazione di un nuovo tipo di intellettuale: lo snob 'aristocratico' sia in arte sia in politica: è un 'progressista' compagno di strada.
"Per meglio comprendere la novità del clima americano degli anni '50 rispetto all'America populista e progressista è opportuno, secondo Matteucci, riferirsi al movimento del 'New Conservatism'.

Esso teme di vedere travolti dall'edonismo della società opulenta i valori etici e religiosi della comunità nazionale; e sente che gli intellettuali finiscono per disertare se si integrano nella società capitalistica. L'intellettuale neo-conservatore non si sente integrato, non è riappacificato col mondo esistente".

"Il liberalismo di oggi scopre la profonda omogeneità tra conservazione e radicalismo, fra reazione e progressismo, quali aspetti necessari della stessa mentalità liberale. Questa consapevolezza porta a sottolineare l'assenza in America di una genuina tradizione rivoluzionaria. Neoconservatori e neoliberali sembrano quasi destinati a incontrarsi: nel 1962 Peter Viereck, che per primo aveva lanciato il neo-conservatorismo, riconosceva l'indissolubilità dei due termini, la loro stretta complementarietà. L'accento del neoconservatorismo cade sul promovimento di una maggiore libertà per gli individui: esso diffida del mondo industriale, ma sente che il pur necessario intervento del governo nell'economia può rappresentare un pericolo. Non c'è dissonanza con il liberalismo europeo, un liberalismo che si è affrancato da quella stupida e stantia religione del laicismo. "Nulla è più illuminante dell'itinerario di Peter Viereck, una delle personalità più affascinanti del neoconservatorismo.

Lo troviamo tra i più fermi oppositori della demagogia del senatore McCarthy, ma senza alcun complesso d'inferiorità nei confronti di comunisti e di compagni di strada; era stato acceso sostenitore di Adlai Stevenson, sconfitto candidato alla Casa Bianca. Aveva sostenuto che i democratici erano diventati l'autentico partito conservatore di questo paese, teso a preservare tutto ciò che è valido.

Sarà J.F. Kennedy a incarnare questo ideale. Non per nulla Kennedy, che si definiva un idealista senza illusioni, si richiamerà all'eredità di John Adams, quell'Adams rivalutato e esaltato dai neo-conservatori.
Lo stesso concetto di Nuova Frontiera non rappresenta un ripudio del passato: nella tradizione americana ci sono le soluzioni dei problemi nuovi".

Matteucci disapprova che si insista nell'usare la categoria "per noi squalificante", di conservatorismo invece di liberalismo. Il fatto è che in America liberal vuol dire radicale; inoltre liberal era stato deformato dalle formule del populismo e del progressismo. Ma, spiega, la guerra contro Hitler era stata voluta dagli intellettuali dell'Est, dagli uomini del New Deal, dagli industriali di Wall Street, da una nuova classe politica sulla quale non pesavano i sacri miti isolazionistici dell'Ovest, bensì l'ideale di una solidarietà anglosassone ed europea.

"Nel dopoguerra, dalle vecchie roccaforti populiste e progressiste era venuta la reazione al liberalismo, a Harvard, ieri portavoce di Wall Street, oggi del comunismo. Il radicalismo conservatore ha dietro di sé i larghi strati e non certo le classi alte. La massa, il popolo, poteva essere radicalmente conservatore, sordo ai valori aristocratici della tradizione."
"Nel ventennio 1940-60 il liberalismo perse senso di fronte al comunismo. Un'illusione spinse i migliori intellettuali a firmare un manifesto filocomunista: "Communism is 20th century Americanism". Si credettero i comunisti dei liberali mal guidati e troppo frettolosi, avviati sulla stessa strada di noi tutti: 'l'antifascismo progressista'.

In questi anni la pubblicistica italiana e francese non ci ha fatto conoscere il vero volto dell'America. Il concetto di conservazione costringe il liberale progressista a liberarsi di un'antica sedimentazione culturale". Quali che siano gli indirizzi storiografici e politici, conclude Matteucci, resta il problema di spiegare come fecero tredici rissose colonie a diventare una sola grande nazione. Senza volere in alcun modo sminuire il valore propagandistico degli slogan popolari, si può ben ammettere che i coloni d'America avrebbero perso la loro causa se la decisione fosse dipesa da un'imparziale considerazione dei principi giuridici in essa implicati".
"Insomma, nella storia della Rivoluzione non c'è spazio per le grandi controversie forensi su astratti diritti. La riscoperta del pensiero della Rivoluzione muoveva da un concreto problema politico che si era affacciato dopo la pace di Versaglia, quello di riorganizzare il mondo attraverso la Società delle Nazioni. L'ingenuo concepire la politica in meri termini morali non aveva retto alla prova di Versaglia. Il ritornare di moda delle interpretazioni progressiste degli anni '30 si dava però in un'atmosfera politico-culturale profondamente mutata: da un lato i comunisti si impadronivano degli schemi interpretativi dei progressisti americani, nell'atmosfera di un comune fronte popolare; dall'altro il New Deal porterà al superamento degli ideali individualistici degli anni a cavallo del secolo, a non odiare più il capitalismo.
La democrazia americana si riconciliava con le grandi corporations, visto che garantiscono al mercato una maggiore efficienza".

A.M. Calderazzi