SUPERIORITA’ DEI CINESI E INSENSATEZZA DEI GOVERNI (SENZA ALCUN RIFERIMENTO ALL’ATTUALITA’)

Per parlare della superiorità tecnologica e produttiva dei cinesi occorre ricordare che i governi d’Europa, insieme con quelli delle colonie di popolamento bianco, hanno dominato il mondo per meno di due secoli, e cioè da quando è venuta meno, nell’Ottocento, la superiorità economica e tecnologica dei cinesi che nel 1830 producevano tre volte i manufatti prodotti dagli inglesi, mentre gli indiani nell’India soggetta al Raj britannico (British Rule), ne producevano il doppio degli inglesi.

La “superiorità” delle Grandi Potenze (e la Cina non era tra queste) risiedeva soltanto negli strumenti di morte più efficienti, decisivi per sottomettere un Paese che sopravanzava ogni altro avendo anticipato di secoli alcune delle invenzioni tecnologiche più importanti per la vita dell’uomo.

Come per qualsiasi altro Paese la Cina, se esiste come entità politica che si concretizza nel suo Governo, non esiste veramente nella realtà ma è il frutto dei pensieri umani che l’hanno così battezzata. I cinesi però esistono, e nel loro insieme formano la popolazione cinese. Questo formidabile gruppo di individui (il più formidabile di tutti quelli che vivono sul pianeta Terra) ha delle caratteristiche sue proprie che è difficile riscontrare presso altri gruppi sociali che dalla civiltà sinica non siano stati influenzati. Che differenza c’è tra i cinesi del Sichuan o dello Yunnan e quelli di Taiwan, Hong Kong, Macao, Singapore, Malaysia, Indonesia? I cinesi che risiedono all’estero – overseas Chinese (huáqiáo 華僑) – restando uniti nella loro comunità non cessano di essere e sentirsi cinesi anche se vivono in Italia.

I cinesi sono sorprendenti per come ricreano in ogni luogo il gruppo sociale al quale appartengono. Si potrebbe dire a ragion veduta che Cina è là dove vi sia un gruppo di cinesi che, per quanto piccolo, è destinato ad allargarsi per fecondità endemica o per l’apporto di nuovi venuti, parenti, amici e compaesani. I cinesi sono contadini, artigiani o mercanti? Soprattutto contadini, ma anche artigiani e mercanti (si veda Mariella Giura Longo, CONTADINI, MERCATI E RIFORME La piccola produzione di merci in Cina (1842-1996), Franco Angeli, Milano 1998). Non sono soldati, non amano le armi e le usano soltanto in casi estremi, soprattutto per difendere i loro cari e ciò che hanno. Nella loro tradizione il miglior generale è colui che non ha mai sostenuto una battaglia, e che è in grado di vincere una guerra senza colpo ferire e senza distruggere gli averi del nemico. Presso quale altro gruppo sociale nel mondo esiste un simile ideale, sovente divenuto realtà?

I cinesi, con i greci, hanno dato vita alle migliori forme di governo del Pianeta. Il Figlio del Cielo è in fondo un sacerdote che ha dei precisi doveri, e anche dei diritti che tuttavia esercita con il consenso dei suoi Ministri. Il dispotismo – che è ben illustrato nel film di Bernardo Bertolucci 1941 L’ultimo imperatore (1987) – è un derivato delle forme di governo d’Europa, molto più dispotiche e arroganti di quelle che hanno quasi sempre caratterizzato la Cina. Il governo delle provincie cinesi è affidato a funzionari scelti in base a esami pubblici, istituzione di invenzione cinese che permette ai meritevoli e capaci, per quanto di umili origini, di salire nella scala gerarchica fino al livello massimo di ascoltato consigliere dell’Imperatore nutrendone il potere e l’azione diretta di governo.

Il loro modo di allargare il territorio nel quale vivono non è attraverso la guerra, ma la pace, che favorisce i rapporti umani e fa emergere i più solerti e industriosi. Così è accaduto nelle provincie cinesi di mezzogiorno e ponente, nei Paesi del Sudest asiatico dove in alcuni casi da minoranza si sono trasformati in maggioranza come a Singapore e in Malaysia, e a differenza di quanto è accaduto nelle città di San Francisco, New York, Londra, Milano, Prato, dove sono rimasti (almeno per ora) minoranza.

I cinesi non sono razzisti, sono cinesi. Chi comunica in cinese – e cioè legge e capisce, scrive e parla questa lingua – è cinese. Edoarda Masi 1927-2011 scriveva nel suo libro PER LA CINA Confuciani e proletari (Mondadori, 1978), che andrebbe utilmente letto oggi: da venticinque anni subisco l’invito continuo e pressante a sinizzarmi, che è offerto apparentemente come il solo modo per conoscere; lo accetto e nello stesso tempo lo rifiuto. Mi ostino a ricercare la possibilità di un rapporto senza pretendere di misurare una diversa civiltà col metro europeo, ma senza perdere la mia identità europea.

Della superiorità tecnologica dei cinesi abbiamo ormai analisi storiche inconfutabili di ogni tipo, e basterebbe fare riferimento all’opera ciclopica coordinata dallo scienziato inglese Joseph Needham 1900-1995 Science and Civilisation in China, Cambridge University Press 1954 (e disponibile in parte anche in italiano: Scienza e civiltà in Cina, Volume primo, Lineamenti introduttivi, Giulio Einaudi editore, 1981, pp. 296~301 dell’edizione italiana) dove, nel capitolo dedicato al flusso delle tecniche provenienti dalla Cina, si fa un interessante e lungo elenco che mostra la profusione di applicazioni che raggiunsero l’Europa e altre regioni in epoche varianti tra il I e il XVIII secolo [in parentesi è indicato il ritardo approssimativo, misurato in secoli, nella trasmissione all’Occidente delle tecniche prodotte dalla Cina]:

a) pompa a catena a palette quadrate [15 secoli] …

c) macchine soffianti per la lavorazione dei metalli azionate da forza idraulica [11 secoli] …

e) mantici a pistoni [circa 14 secoli]

f) telaio per tessitura a disegni [4 secoli]

g) macchinari per la lavorazione della seta … [3~13 secoli]

h) carriola [9-10 secoli]

i) carro a vela [11 secoli] …

o) trivellazione profonda [11 secoli]

p) ghisa [10~12 secoli] …

t) chiuse per canali [7~17 secoli] …

y) carta [10 secoli]

z) porcellana [11~13 secoli].

A proposito della porcellana sarebbe bene ricordare che questo importantissimo manufatto (che richiedeva forni di cottura capaci di temperature che i forni europei non erano in grado di raggiungere) venne prodotto in Europa per la prima volta soltanto nel 1707 a titolo sperimentale, e a partire dal 1711 a fini produttivi, dopo secoli di nostri vani tentativi tesi a imitarla. Una tendenza, questa dell’imitazione, che vorremmo attribuire agli altri, per esempio ai giapponesi piuttosto che agli europei, ritenuti superiori a tutti (per ragioni basate sul RAZZISMO) plagiando in questa infondata opinione persino i colonizzati che si erano rassegnati ad essere “inferiori”.

Dati gli scritti (soprattutto inglesi) in lode del white man’s burdern costretto (!) a gravarsi del “fardello dell’uomo bianco” e quindi della missione civilizzatrice propria di chi sovrasta gli altri e la sente come un dovere (noblesse oblige), la superiorità non soltanto economica della Cina e dei cinesi sembra difficile da provare, ma è invece testimoniata da numerosi anche se brevi scritti di mercanti mediterranei in merito all’esperienza di commercio con quelle terre. D’altra parte dagli abitanti dell’Europa settentrionale, ricca soprattutto di ristrettezze, il resoconto di Marco Polo non venne creduto al momento della sua pubblicazione, e così per molti secoli a venire. Non potevano neppure immaginare che le descrizioni delle prospere città cinesi contenute ne Il Milione corrispondessero al vero. Vennero quindi ritenute frutto della fantasia e dell’immaginazione dell’autore o del suo amanuense.

Non così a Venezia, e nel Mediterraneo in genere, dove le persone che conoscevano il mondo erano numerose, anche se non scrivevano libri perché impegnate nel loro lavoro di mercanti o di missionari che li assorbiva completamente. Marco Polo aveva potuto dar vita a quest’opera perché si trovava in prigione e non aveva di meglio da fare che dettarla a Rustichello da Pisa, come lui in carcere.

Nell’Europa settentrionale invece soltanto nell’Ottocento si credette finalmente al viaggiatore veneziano, sebbene in Cina la pressione demografica crescente avesse fatto ormai abbassare enormemente il tenore di vita dei cinesi, la maggior parte dei quali era afflitta dalla miseria più nera. Ma le vestigia della passata prosperità restavano, ed erano sotto gli occhi di tutti.

All’opera di Marco Polo credette pienamente due secoli dopo un altro mediterraneo, fino a farne il principale stimolo al suo viaggio verso Ponente per raggiungere le Indie. Nel volume Scopritori e viaggiatori del Cinquecento, a cura di I. Luzzana Caraci, Ricciardi, Milano – Napoli 1996, T. II pp. 922-932 (segnalatomi dal professor Claudio Zanier dell’Università degli Studi di Pisa) si dice: Scrive Filippo Sassetti 1540-1588 a Bernardo Davanzati sul finire del 1585, alludendo al fatto che se non si dispone d’argento è inutile pensare di commerciare con la Cina: “Alla Cina reali e non altro...”. E aggiunge, descrivendo gli arrivi a Cochin da Oriente: “…la nave o le navi della Cina compariscono più tardi; portano tutte le cose che si possano imaginare, fuori delle spezierie;… di là viene la seta, i drappi, tutta la sorte di metalli, argento vivo, rame, ottone, e oro in tanta quantità quanta si vuole, perché basta portarvi capitale [intende: argento, soprattutto i reali, reales de a ocho coniati nell’impero spagnolo, accettati in tutto il mondo come strumenti di pagamento] per comprarlo che se ne caricherebbe una nave… ed è mercanzia tale che… si guadagna sessanta per cento. Viene di là allume di rocca senza fine, galanga [radice medicinale], cinabro, canfora, le porcellane, che sono grandissima mercanzia, legnami dorati per gran somma, sete ricamate finissimamente, pitture e tutto insomma quello che si sa dimandare di là viene, perché, se…manca […] qualche cosa che altri desideri, sapendola…[far]… loro intendere, la fanno [venire]; e in ogni genere di mercanzie che di là venga… si raddoppia, quando non si fa di uno in tre. E veramente che se non fusse questo negozio [= commercio con la Cina] in questa parte…tutto sarebbe in terra...”

Lo storico economico Carlo M. Cipolla 1922-2000, nel suo scritto Conquistadores, pirati, mercatanti. La saga dell’argento spagnuolo (Bologna, 1996), osserva (pp. 58-63) “che l’argento [reali] serviva agli europei per acquistare merci sui mercati extraeuropei dove non c’era alcun interesse per i prodotti dell’Europa. … Tutte queste monete, ed i reales in modo particolare, aprirono alle nazioni europee l’opportunità di espandere notevolmente il loro commercio con l’Oriente. … Possenti forze li calamitavano… Ma la marcia verso Oriente dei reales de a ocho non si fermò in Persia. Nel primo decennio del secolo XVII la marcia …[dei reali] era giunta ad invadere anche l’India e la Cina…il fatto [è] che gli europei, … non avevano nulla però da offrire in cambio, perché né l’India né la Cina avevano interesse ai prodotti dell’Europa. I tentativi per migliorare la situazione non si contano. … Se gli europei volevano commerciare con l’India e con la Cina non avevano altra scelta che offrire a questi due paesi dell’argento…. [Inoltre] l’Europa…venne a conoscere prodotti orientali che prima non conosceva. Esempio classico il tè, … che nel 1720 arrivò a soppiantare decisamente la seta come principale merce di importazione della Compagnia [inglese delle Indie Orientali]. Di conseguenza il saldo positivo della bilancia commerciale cinese continuò a crescere.” Cipolla ricorda (pp. 66-67) che “il mercante portoghese Gomes Solis poteva scrivere nel suo Arbitrio sobre la plata (Discorso sull’argento) pubblicato a Londra nel 1621 che “l’argento vaga traverso tutto il mondo nelle sue peregrinazioni, per poi finire in Cina, dove rimane come al suo centro naturale”.

Gli inglesi, così conclude Cipolla (pp. 75-76), trovarono nel commercio dell’oppio che facevano coltivare in India il rimedio al “grave deficit della bilancia commerciale inglese con la Cina. …a partire dal 1776 la quantità di oppio esportata dagli inglesi in Cina crebbe… soprattutto negli anni 1830-1840…in misura eccezionale… Un funzionario cinese in un suo memoriale scriveva in quegli anni che “Il Celeste Impero permette la vendita di tè e di rabarbaro che servono a tenere in vita i popoli di quelle nazioni…, e tuttavia questi stranieri non dimostrano alcuna gratitudine, ma contrabbandano, invece, l’oppio che avvelena il Paese; quando il cuore riflette su questa condotta ne è disturbato e quando la ragione la considera, la trova irrazionale.” Il governo cinese…tentò di correre ai ripari ma…si arrivò… nel 1839 alla famosa guerra dell’oppio in cui la Cina fu sconfitta ed umiliata...”. Il testo della lettera scritta nel 1839 dal magistrato 林則徐 Lín Zéxú 1785-1850 e indirizzata alla regina Vittoria (non sappiamo se fu mai portata alla sua conoscenza) è un documento che mostra come fosse difficile il dialogo tra la civiltà che soccombe – piena di stupore per la violazione delle elementari regole della convivenza fra i popoli – e la barbarie che trionfa senza ragione se non quella della forza bruta, contravvenendo alle leggi della Natura che (in Cina) vede l’uomo come un essere buono, che quando sbaglia può sempre essere educato ad emendarsi.

Concludiamo citando un noto proverbio che la dice lunga sul modo dei cinesi di intendere le cose divine e le cose terrene. Lassù vi è il Cielo, quaggiù sono Suzhou e Hangzhou , shàng yǒu tiān táng, xià yǒu Sū Háng. Con Sū  (ora si intende la città di Sūzhōu 苏州 e con Háng  la città di Hángzhōu 州. Il regno Celeste di lassù sarà bello (dicono i cinesi), ma qui abbiamo città impareggiabili per splendore come Sūzhōu 苏州  e Hángzhōu . La citazione è di Eileen Power 1899-1940 nell’avvincente capitolo su Marco  Polo in Medieval People (Vita nel medioevo, Einaudi, Torino 1966).

Brano (con lievi modifiche) tratto da:

Gianni Fodella, MATERIALI per una introduzione allo studio della Politica economica internazionale, LUMI Edizioni Universitarie, dicembre 2017 (IV edizione) pp.58-62