Giorni fa il Corriere della Sera (Gerardo Villanacci) ragionava: “In questi lunghi anni di crisi, culturale prima ancora che economica, la politica si è arresa sì al mercato, ma soprattutto allo strapotere dei partiti”. Tuttavia, sostiene il Villanacci, questo momento di grande difficoltà può essere un punto di ripartenza della politica (…) Non si esclude che “in una prospettiva futura possa esservi democrazia a prescindere dai partiti”. L’Autore non prova nemmeno a sostenere che la democrazia sia essenziale al superamento delle attuali crisi di sistema. E’ possibile, diciamo noi, che essa democrazia sia addirittura nociva. La Cina trionfatrice e le nazioni neo-industriali si curano della democrazia?
Matteo Renzi sembrò vagheggiare in segreto di emulare a suo modo il de Gaulle del 1958: e non si può dire fosse solo un velleitario. Il suo successo iniziale non era stato cosa da poco. Persino Mario Monti si era trovato a disporre in un frangente grave delle possibilità che avevano fatto trionfare de Gaulle. L’abbattimento della Quarta repubblica fu l’unico successo pieno del Generale: la vittoria del 1944 sull’occupatore germanico non spetta né a lui, né al Maquis, bensì ai marescialli di Eisenhower).
A Matteo Renzi, come a Mario Monti, mancò la fede in sé stesso. Non capì che la sua missione grossa avrebbe dovuto essere di liberare lo Stivale dai Proci, non solo di rottamare i più marpioni. Gli mancò l’audacia di cancellare la Quatrième italiana, la repubblica più oligarchica e più tangentocratica del mondo occidentale. Nel ’58 de Gaulle vinse perché osò abbattere le istituzioni del parlamentarismo. Il Generale capì ciò che Monti e Renzi non intuirono: che le malerepubbliche si possono/devono sovvertire, per il bene della nazione. La condizione ha da essere il prescindere dalla legalità, dalle Carte e dalle Corti, tutte controllate in esclusiva dai politici professionali.
Forse Monti e Renzi potrebbero ancora tentare, magari insieme. E forse sovvertire la nostra Quatrième risulterà sorprendentemente facile: come facile fu nel 1923 il sorgere della bonaria Dictadura spagnola di Miguel Primo de Rivera. Il plauso del popolo, in primis gli operai e i contadini, durò almeno un quinquennio, nel quale l’economia spagnola intraprese il cammino che la porterà ai successi di 95 anni dopo.
Da noi quasi nessuno si spinge a proporre di capovolgere la nostra storia contemporanea. Eppure tutto sarà meglio che oggi, se un uomo superiore agli altri rimuoverà lo scadente nostro meccanismo di democrazia rappresentativa. Intanto lo Stivale non cresce da un quarto di secolo: non è sicuro ma è probabile che mortificando i partiti e i politicanti, il veicolo Italia avanzi meglio. Andò così in Francia sessant’anni fa: stracciata la Costituzione del 1946, assegnati i pieni poteri a un uomo, la Francia riprese lena. Senza le sacrosante demolizioni del Generale, la Quatrième si sarebbe rassegnata a finire come noi. Noi siamo peggio della Quatriéme. Essa è passata alla storia come un’epoca di instabilità politica e di conflitti sociali.
Non abbiamo un de Gaulle, naturalmente. Ebbene, proviamo a darcelo. Non criminalizziamo, bensì sosteniamo chi riesca ad imporsi sulla consorteria dei politicastri.
Nel momento che la Quarta nacque, de Gaulle profetizzò: “Non sarà nemmeno un governo d’assemblea, ma da birreria”. Si rivelò subito una dittatura dei partiti. I partiti, che Pétain aveva soppresso, apparivano l’essenza stessa della libertà e dell’antifascismo. Chi su questo avanzava riserve era immediatamente bollato ‘cesarista’ e ‘bonapartista’. Ma andò esattamente come aveva previsto il Generale: “Quando si scatenerà la burrasca verranno a rifugiarsi sotto la mia ala. Potrò dettare le mie condizioni”.
Tra il 1947 e il 1951 il partito comunista di Maurice Thorez, con 814 mila iscritti e cinque milioni di elettori, è la prima forza politica e soprattutto esercita una specie di monopolio dell’intelligenza francese. L’economia va molto forte ma ai francesi non basta: la Quarta è detestata come il regime dell’instabilità, dell’impotenza, dell’inettitudine a gestire l’immenso capitale accumulato dalla Francia nel suo impero coloniale, secondo solo a quello britannico.
Tra il 1950 e il 1956 la Quatrième ebbe 12 governi. Vogliamo elencarli tutti, a disdoro della classe politica insediata dalla Costituzione del 1946: G. Bidault, R. Pleven, H. Queuille, R. Pleven, A. Marie, E. Faure, A. Pinay, R. Mayer, J. Laniel, P. Mendès-France, E. Faure, G. Mollet. Nel 1953 l’elezione del presidente della Repubblica richiese 13 scrutini.
Quando il 3 giugno 1958 de Gaulle entra a palazzo Matignon, chiamato dal capo dello Stato René Coty in quanto “il più illustre dei francesi”, i partiti capitolano. Ricevuti in tutta legalità i pieni poteri, de Gulle stende la Costituzione della Quinta repubblica, al cui centro è la fine dell’egemonia dei partiti e l’esautorazione del Parlamento. Tutti i partiti si oppongono, in testa quello che era stato il possente PCF, ma il referendum del 28 ottobre 1962 approva col 62% dei voti.
Il Generale dimostrerà di essere non il solito dittatore, bensì il grande riformatore che occorreva alla Francia -e all’Italia di sessant’anni dopo- dimettendosi nel 1969, il giorno stesso che conobbe il risultato del referendum del 27 aprile. I partiti ebbero la loro vendetta, ma la Quinta Repubblica resta iper-presidenziale.
Anche l’Italia dovrà liberarsi delle istituzioni imposte dai partiti: dovrà liberarsi dalla democrazia rappresentativa. L’Italia non soffre dei duri problemi coloniali della Francia -l’Algeria!- e non dispone del personaggio della croce di Lorena. In compenso i politici italiani sono ‘N’ volte più corrotti e più corruttibili di quelli francesi del 1958. Il suo retaggio storico – dalle guerre civili di Roma al potere temporale dei Papi e all’asservimento a tutti gli stranieri – è tra i più inquietanti. Un giorno un uomo di tempra dovrà abbattere questa repubblica.
E’ quasi certo che non occorreranno i carri armati: gli italiani gioiranno. Si aprirà la conversione a quella delle varie formule di democrazia semi-diretta che prometterà di bloccare il ritorno dei Proci usurpatori.
Antonio Massimo Calderazzi