Farabutti e carnefici, macellai di popoli, furono senza eccezioni i governanti che centoquattro anni fa vollero la Grande Guerra; guerra che riprese nel 1939 dopo una tregua ventennale. Parliamo innanzitutto di Raymond Poincaré, presidente della repubblica francese nel 1914, nonché dei tanti suoi modesti imitatori e seguaci: per esempio gli italiani Antonio Salandra, presidente del Consiglio (nelle Memorie lamenterà che la guerra non gli aveva fruttato un titolo nobiliare); per esempio Sidney Sonnino, negoziatore del patto di Londra; più ancora Vittorio Emanuele III, accanito custode delle tradizioni militaresche dei Savoia (i quali, bisogna ammetterlo, erano stati bravi a farsi, da Medii feudatari alpini, sovrani di rango). Di Gabriele d’Annunzio tacciamo. Invocò la mattanza, contribuì a renderla inevitabile ma fece questo in quanto poeta epico-lirico, sfortunatamente preso in parola da tanti aspiranti cadaveri del Carso.
Ma addirittura pazzi furono coloro che, invasati di autodistruzione, vollero l’immane carneficina sapendo o intuendo che essa, oltre a cancellare i loro troni, avrebbe spento se stessi nonché le loro famiglie. Tra le teste coronate il perfetto suicida fu perciò lo zar Nicola II. Le cronache dicono che nel firmare l’ordine di mobilitazione generale contro Austria-Ungheria e Germania scandì parole che attestavano presentimenti luttuosi. Ma firmò, plagiato in particolare da un ministro degli Esteri, Sergjei Dmitrovic Sazonov, che lo dominava.
Lo aveva convinto che l’impero russo non poteva rinunziare a quell’ineguagliabile occasione di raggiungere le estreme mete occidentali: l’egemonia nei Balcani e nell’Est Europa, la leadership panslava, la tradizionale aspirazione al mare caldo. Sazonov – spalleggiato da uno Stato Maggiore umiliato sì di recente dal Giappone ma singolarmente fiducioso di vincere un confronto bellico con gli Imperi Centrali – era un mestatore nel torbido, scellerato in cilindro come i suoi pari del tempo, rotto a qualsiasi canagliata sulle vite di milioni di sudditi, pur di conseguire le spregevoli glorie del mestiere diplomatico. La Russia era talmente immensa da non avere necessità di conseguimenti geopolitici. Nicola firmò, con la mobilitazione, la propria condanna a morte. In piena coerenza i trionfatori bolscevichi passarono per le armi l’intera famiglia dello Zar. L’eccidio fu, con la cancellazione dell’impero, l’esito obbligato della più folle delle imprese belliche dei Romanov. La guerra di Sazonov portò una rivoluzione incapace di misericordia.
Nel 1914 solo la Spagna tra le grandi nazioni europee ebbe la saggezza di rifiutarsi al conflitto mondiale. Presiedeva il governo il conservatore Eduardo Dato, ed egli riuscì a far fallire i conati di alcuni circoli radicaleggianti -includenti il futuro padre della fallita repubblica Manuel Azagna- : invocavano che la Spagna si unisse alla crociata dell’Intesa in quanto più progressista di quella di Berlino e Vienna. Non era tanto più progressista, e in ogni caso la nazione spagnola non aveva alcun motivo per combattere. La sconfitta nella guerra con gli Stati Uniti aveva cancellato nel 1898 le ultime ragioni perché la Spagna cercasse di conservare qualcosa dell’antico ruolo planetario.
A Madrid prevalse il senso comune: la neutralità consentì al regno borbonico di fare eccellenti affari vendendo a tutti i belligeranti, e in più di avviare la sua prima industrializzazione. Se oggi la Spagna è nel gruppo di testa delle società moderne, lo deve a non essersi dissanguata nella Grande Guerra.
Assai più sventurato fu l’altro regno iberico, il Portogallo, che partecipò al conflitto dalla parte degli Alleati, degli inglesi in particolare. Fu succube per la sola ragione che le sue vicende politiche non gli consentivano una politica estera autonoma. Nel 1917 il governo che aveva voluto la guerra fu rovesciato, ma il contingente portoghese non fu ritirato dal fronte. Invece nel secondo conflitto mondiale Lisbona riuscì a sottrarsi al destino di fornire carne da cannone.
Pagarono carissimo per i mercanteggiamenti di morte dei loro governanti i paesi minori che non sfuggirono alla sventura di guerreggiare. Ma almeno la Romania conseguì quella volta cospicui vantaggi territoriali (al prezzo di oltre trecentomila morti). I lutti del secondo conflitto mondiale furono nell’assieme ancora più gravi. Comprendendo i vari olocausti si arriva a parlare di cinquanta milioni di morti.
L’aspetto più drammatico fu che la terribile esperienza 1914-18 (ma si continuò a morire per qualche anno, magari di malattie) insegnò quasi niente ai popoli come ai governi. Non erano passati sedici anni da quando gli europei avevano fermato il massacro quando si ebbe la prova che niente era cambiato nel pensiero sulla guerra e sulla pace.
La Germania umiliata da Versailles si era data un dittatore per la vendetta, e nel 1935 il dittatore aveva sfidato il trattato di pace ordinando alle sue truppe di attestarsi in Renania, territorio germanico. Questo scatenò nei circoli nazionalistici francesi, e non solo francesi, un autentico parossismo antigermanico: in pratica si esigeva che i vincitori del 1918 riprendessero subito le armi per stroncare sul nascere il revanscismo tedesco. I vertici francesi e britannici dovevano imporre ai loro popoli un immediato ‘casus belli’. Come se un’intenzione di vendetta, da parte germanica, fosse la stessa cosa di una vendetta effettiva, talmente grave da giustificare una ripresa della strage. Col senno di poi, forse sarebbe stato meglio tentare di soffocare al primo vagito l’espansionismo hitleriano. Ma tanta prontezza nel riaprire una lotta armata straordinariamente atroce, era ragionevole? Non era piuttosto assurdo dare per scontata la riduzione a zero dell’orgoglio tedesco?
In Francia, i politici che sbraitarono di più nel pretendere risposta fulminea alla rimilitarizzazione della Renania furono Paul Reynaud e Georges Mandel. Oggi quasi nessuno li conosce. Ma Mandel divenne presto ministro ed esponente dei più accaniti tra i fautori dello scontro (finirà assassinato). Quanto a Reynaud, nel 1940 ascese a capo del governo allorquando l’esercito francese, allora considerato il più potente al mondo, fu sbaragliato in poco più di una settimana dalla Wehrmacht e dalla Luftwaffe. Reynaud avrebbe dovuto riflettere prima di assumere le posizioni estreme. Per qualche giorno egli tentò di fare il Churchill francese: annunciò che avrebbe trasferito il governo in Africa per continuare la guerra dall’impero coloniale. Nessuno lo prese sul serio, dovette dimettersi; il maresciallo Petain ottenne i pieni poteri, chiese l’armistizio al vincitore e cancellò la Terza Repubblica. Gli irriducibili parigini mancarono di realismo.
Winston Churchill è stato consegnato alla storia come il più glorioso dei lottatori. In effetti nessuno è stato più combattivo di lui, che non aveva mai rinunciato a sperare che il presidente F.D. Roosevelt costringesse il popolo degli Stati Uniti -in maggioranza isolazionista- a entrare nel conflitto per salvare la Gran Bretagna (e per passare l’impero mondiale agli USA). Churchill credette di dover perseguire la vittoria finale senza curarsi dei costi. Costi che furono terribili.
I fatti sono quelli che sono. Churchill fu l’inglese che più di ogni altro volle e condusse il secondo conflitto mondiale. Però nel 1939 il Regno Unito era la maggiore potenza imperiale al mondo. Nel 1945, a guerra vinta, la leadership era sparita -anche dagli oceani-, l’economia era dissanguata, la struttura industriale in pericolo; la Germania, il Giappone, persino l’Italia si sarebbero rialzati prima e meglio che la superba ex superpotenza. In più si apriva il rapido smantellamento dell’Impero. La fine della grandezza non avrebbe potuto essere più brutale. Si può sostenere che la patria britannica sarebbe stata sommamente fortunata se non fosse stata guidata dal belluino Winston Churchill, assetato di grandi spedizioni aeronavali. Nel 1915 volle quella disastrosa dei Dardanelli, da lui ideata contro il parere degli ammiragli suoi dipendenti. Tentò anche di organizzare una spedizione contro i sovietici, ma questa non gliela permisero, tanto sangue erano costati i gloriosi Dardanelli. Era tale la sua voluttà guerriera che provò a partecipare in persona allo sbarco in Normandia, in divisa di tenente colonnello. Volle comunque, non sappiamo dove, sparare personalmente alcuni colpi di cannone.
Questo vuol dire che non l’epico duello col Reich, bensì una transazione semi-amichevole avrebbe salvato la grandezza britannica. Si è accertato che Hitler non voleva lo scontro frontale con la Gran Bretagna. Nei giorni della trionfale conquista della Francia il Führer spiegò così ai suoi generali la propria decisione di non annientare l’armata britannica a Dunkerque: “Ammiro l’Impero britannico. La sua esistenza è utile al mondo tanto quanto la sua opera di civiltà. Io domanderò alla Gran Bretagna di riconoscere la preminenza della Germania in Europa. La restituzione delle nostre colonie sarebbe desiderabile, non essenziale…Sono pronto ad offrire all’Inghilterra, se si trovasse in difficoltà, il sostegno del mio esercito. Desidero una pace con la Gran Bretagna su basi compatibili col suo onore”.
Dunque il Führer non mirava ad umiliare il Regno Unito. Voleva mano libera nell’Europa orientale e, senza insistere troppo, voleva una grossa colonia. Da come sono andate le cose, è oggettivo che a Londra sarebbe convenuto addomesticare o placare la belva germanica e quella nipponica, piuttosto che affrontare una guerra disastrosa, piuttosto che accettare la perdita del primato mondiale e del più grande degli imperi.
Anche la Francia del 1939 possedeva un grande impero: e anche alla Francia sarebbe ampiamente convenuto cedere parte di un dominio intercontinentale inutilmente vasto, che Parigi non aveva saputo valorizzare, piuttosto che subire dal Terzo Reich la più grave disfatta militare della storia. Oltre a tutto Parigi si fece imporre la seconda guerra mondiale da un fatto artificioso all’estremo quale un dubbio trattato diplomatico con Varsavia. Versailles aveva innalzato una Polonia gigantesca perchè molestasse da est la Germania. Negli Anni Venti Parigi aveva scopertamente gestito, con un generale francese, il sorgere di un apparato militare satellite polacco, sempre in odio alla Germania. Però la garanzia militare che Francia e Gran Bretagna vollero dare a questa Polonia intesa come ausiliare e sicaria antigermanica era irrealistica. Infatti la Polonia fu annientata in pochi giorni, in totale assenza di soccorsi occidentali; il suo mandante parigino avrebbe avuto un destino terribile pochi mesi dopo. Quasi nessun francese e nessun inglese fu disposto a “morire per Danzica”.
Meglio avrebbe fatto Parigi, già nel momento che Berlino si sottometteva (novembre 1918) a moderare il proprio trionfo, a non infierire sull’avversario sconfitto. Meglio avrebbe fatto Parigi a imboccare la strada dell’intesa duratura con la Germania. La Francia aveva avuto nel 1911 un primo ministro, Joseph Caillaux, che incarnava quella strada. Quell’anno Caillaux aveva scongiurato un conflitto con Berlino a proposito del Marocco (crisi di Agadir); la formula trovata era consistita in uno scambio territoriale nel Congo francese inteso a normalizzare possibilmente per sempre il rapporto col “nemico ereditario”. Ma quello stesso anno un capriccio del catastrofico parlamentarismo Terza Repubblica scalzò dal potere Caillaux e insediò il suo perfetto contrario: Raymond Poincaré, massimo esponente del revanscismo francese, presto elevato a capo dello Stato e a sommo tra i guerrafondai del 1914.
La linea Caillaux -l’intesa di fondo con la Germania guglielmina- fu stroncata duramente. Venne la Grande Guerra. Verso la fine del 1917, col grosso della strage già consumato, con varie divisioni francesi e con alcune unità germaniche prossime all’ammutinamento, e con le Potenze Centrali disposte a cercare con qualche anticipo le vie della pace, l’ex-presidente del Consiglio Caillaux fece qualche passo in Germania in vista di un negoziato che avvicinasse la fine del massacro. Lo scoprì il capo del governo Georges Clemenceau, il “Tigre”, divenuto il terribile demiurgo della guerra ad oltranza. Caillaux fu arrestato coll’accusa d’alto tradimento.
Tenuto in carcere, benché ex-presidente del Consiglio e figlio di un ministro particolarmente autorevole, Caillaux rischiò seriamente la condanna capitale: tale era l’accanimento di Clemenceau contro i “disfattisti” cioè tutti coloro che invocavano o suggerivano la fine dell’eccidio. Nel 1920 l’Alta Corte condannò l’ex primo ministro per ‘corrispondenza col nemico’ ma non per alto tradimento. Cinque anni dopo il Nostro fu amnistiato. Ma aveva rasentato la fucilazione, o magari la ghigliottina. Fu dunque il martire di una causa -l’amicizia con la Germania- che trionferà quando Charles De Gaulle e Konrad Adenauer decideranno di capovolgere la storia.
In conclusione. Winston Churchill figura ancora ammantato di gloria guerriera. Ma è una gloria non solo sinistra, anche oggettivamente falsa: la guerra di Churchill distrusse la grandezza britannica. Non andò molto meglio dell’impresa dei Dardanelli. Una gloria ben più vera, voluta dal futuro, spetta a Joseph Caillaux, che anticipò nel concreto l’asse franco-tedesco e, come tale, fu premessa di Europa.
Antonio Massimo Calderazzi