La Frontiera e il West, sole vittorie degli USA    

L’America che in un tempo lontano fu la Fidanzata del mondo, oggi ripugna per molti suoi lineamenti: cominciando dal bellicismo, al tempo stesso permanente e frustrato. Ambirebbe a impiegare una forza che nella storia non fu mai data altrettanto smisurata. Non può perché precipiterebbe nell’abiezione, si confermerebbe il più canagliesco degli imperi. Ha il pugno proibito, come un pugile professionale.

Peraltro, da qualche anno, si dubita addirittura sia ancora un impero, con tanti fallimenti più o meno gravi. Trionfarono nel 1945; da allora non hanno più vinto un confronto militare. Nel Vietnam, in Cambogia, nel Laos non avrebbero potuto farsi sconfiggere più ignominiosamente. In più pareggiarono spesso la ferocia delle SS e dei boia di Stalin.

Tuttavia chiudere così il bilancio di un’esperienza nazionale che fu grande è una perdita netta per l’umanità. Dallo sbarco dei Pilgrim Fathers l’America visse tre secoli di avanzamenti e conquiste. Poi l’intervento nella Grande Guerra –imposto dal catastrofico Woodrow Wilson a un popolo che voleva restare coerente con se stesso e col retaggio di G. Washington e di Jefferson – dilaniò la giovinezza dell’America. Un ventennio dopo il guerrafondaio F.D.Roosevelt completò la costruzione dell’impero planetario, al tempo stesso ponendo le premesse per l’ignominia e i fallimenti in Cina, in Corea, in Indocina. Non si dimentichi che lo scontro frontale coll’espansionismo nipponico fu giustificato da FDR coll’intento di estendere l’impero alla Cina. Però l’impresa portata a termine a Hiroshima risultò inutile: la Cina passò a Mao. Hanno aggravato la disfatta le spedizioni coloniali in Somalia, Irak, Afghanistan, altrove.

Uno come me che sbarcò la prima volta a New York da uno degli ultimi transatlantici, deve cercare nella memoria lontana per trovare i bei momenti dell’America: il viaggio del Mayflower, la ribellione a Giorgio III, la conquista della Frontiera e del West. Quest’ultima certo implicò lo sterminio dei nativi. Ma non esistono nazioni che siano diventate grandi senza spargere il sangue dei vinti e quello proprio. In più le stirpi più bellicose degli Indiani furono corresponsabili con gli invasori del genocidio che subirono.

La colonizzazione bianca non era incompatibile con la sopravvivenza dei nativi. Quando potettero, le tribù indiane esercitarono ferocie estreme, che attirarono rappresaglie spietate. Le ferocie non erano obbligate; era fatale che popolazioni tanto esigue e arretrate fossero costrette a consegnare il continente agli invasori. In quel passato lontano il Nord America aveva posto anche per i conquistatori bianchi. Le stragi compiute dai pionieri, dai cowboys e dai reggimenti di cavalleria furono all’incirca come quelle delle SS, della Wehrmacht, dei russi nel Caucaso, dei turchi in Armenia: le quali sarebbero state meno atroci se non avessero agito i partigiani, i guerriglieri, gli estremisti del patriottismo. Se questi ultimi non avessero ucciso non ci sarebbero state le rappresaglie odiose, le Oradour, le Fosse Ardeatine, le Sant’Anna di Stazzema. Meglio avrebbero fatto i Sioux, gli Apache, i Comanchi ad essere pacifici.

Nonostante tutto, la conquista del West resta una pagina grandiosa.  Alla ricerca delle fasi ‘buone’ della vicenda americana, scavo nella mia memoria di farmer dodicennale di una contea ontariese confinante coll’Upstate New York – anche per la suggestione degli insegnamenti di Thomas Jefferson faceva il libero ‘yeoman – e trovo un mese da me passato a Austin, capitale del Texas, quando un rodeo era un evento ben più sentito che un’Olimpiade o che un’assemblea generale dell’ONU. Il rodeo celebrava la bravura e il coraggio del cowboy, e il cowboy era un eroe americano assai più autentico che un equipaggio di astronauti.

Nel Nord America, Canada compreso, è archeologia accademica anche lo scavo nel basement di una capanna di minatore dell’Ottocento. All’università di Austin la punta di diamante delle investigazioni storiche più originali e più convinte, è la riflessione sul grande allevamento bovino, sui ranch, sulle cavalcature degli Apache, sui pozzi per abbeverare il bestiame e gli uomini, sul filo spinato, sulle ferrovie, su tematiche affini. Gli storici “western” ancora oggi rievocano il tentativo fatto da Jefferson Davis segretario alla Guerra (il futuro presidente della Confederazione sudista), di introdurre il cammello nel Sud per i trasporti dell’Esercito.

Nel 1931 un cattedratico dell’università del Texas, Walter Prescott Webb, pubblicò un libro di 472 pagine per descrivere nel concreto più dettagliato e quotidiano “la svolta che prese la civiltà americana quando nella sua avanzata verso Ovest essa, civiltà, uscì dalla foresta e popolò le pianure”. Aveva ragione: gli Stati Uniti nacquero dai boschi come Afrodite dal mare di Cipro. Presero ad adulterarsi, a perdere innocenza, quando divennero una nazione di città, inevitabilmente corrotte. Si rigenerarono quando sboccarono nel West.

Per il nostro storico indagare su quella svolta volle dire ripensare la scure, il fucile, il cavallo, la barca, gli altri mezzi coi quali il pioniere e il cowboy conquistarono la Frontiera. Anzi, era essenziale accertare che fu il six-shooter (il revolver Colt) a trionfare nei pascoli del West.

Uno dei molti duri condizionamenti cui i pionieri dovettero adattarsi per sopravvivere furono i venti caldi: almeno una volta i treni della Southern Pacific furono fermati perché il “chinook” aveva distorto le rotaie.

Un detto comune da quelle parti recita che un jackrabbit mangia quanto un cavallo. Questo roditore faceva tanti danni alle colture che ad una delle battute contro esso parteciparono 700 persone, che uccisero o catturarono 20.000 bestie. Tra il 1888 e il 1897 le battute uccisero mezzo milione di grandi lepri. Impressionante il numero dei bisonti. Una mandria particolarmente grossa poteva contare mezzo milione di capi. Nel 1880 gli USA vantavano 40 milioni di bovini. All’Ovest un grande ranch copriva l’area di un migliaio di fattorie contadine.

Nel 1874 fu venduto il primo rotolo di filo spinato. Il filo spinato chiuse l’era della libertà assoluta: pascolare ovunque, non riconoscere diritti altrui, non rispettare leggi, non permettere l’insediamento di contadini stanziali. Condizioni dure ma seducenti, che non potevano durare. I cowboys e i ranchmen erano una genia rozza e affascinante, il cui vigore e spirito d’avventura stregava gli abitanti dell’Est.

In dieci anni una mandria di 100 vacche poteva raggiungere 1428 capi, senza contare i maschi destinati a rifornire di carne le città dell’Est. Si vendettero mandrie e diritti di pascolo a speculatori di buona parte del mondo. Un trafficante si fece ricco collocando diritti di pascolo nel New Mexico sulle sponde del Pecos River. Arrivò a sostenere che sul fiume facevano servizio regolare cinque vapori, e non era vero.

Nel 1885 venne una crisi drammatica: esaurimento dei pascoli, ondate di freddo terribile. Un solo grande ranch del Texas perdette 15 mila capi su 25 mila. Segui un decennio di sciagure, poi i tempi tornarono euforici. Il cowboy divenne una figura leggendaria: coraggio, forza, somma maestria nel cavalcare.

Sono pochi gli storici accademici del West che non abbiano dovuto indagare sugli aspetti più materiali e tecnici dell’espansione verso Occidente: da come cavalcare e come stendere recinzioni, a come costruire mulini a vento per attingere acqua, a come gestire gli ‘stampedes’ (le fughe improvvise di grandi mandrie).

Il West fu l’affermazione dell’Americano primigenio: inglese, scozzese, irlandese. I tedeschi dell’Illinois e dell’Iowa non raggiunsero le Grandi Pianure occidentali, cioè non fecero i cowboys e i ranchmen. Soprattutto nel Sud-Ovest arido si impose il primo ceppo americano – i Jones, i James, gli Smith, i McDonald. I neri non si spinsero oltre il 98° meridiano, gli esteuropei non vollero andare dove non pioveva, i cinesi restarono sulla costa del Pacifico. Gli immigrati di fine Ottocento-primo Novecento si addensarono negli slum sull’Atlantico, dunque non conobbero il West. Messa così non furono veri americani gli italiani, gli esteuropei, i neri, altri.

Theodore Roosevelt fu l’ultimo leader nazionale che, oltre a impersonare la Frontiera vera nell’immaginazione letteraria e politica – pur essendo nato in una famiglia patrizia del New York – si sforzò di difendere la vocazione Western dell’America come l’autentico e il più nobile destino nazionale. Gli succedette Woodrow Wilson, il quale rappresentò un’America catturata dall’Europa, dal suo urbanesimo, dalle sue guerre e trame diplomatiche: tutto ciò che George Washington e Thomas Jefferson avevano respinto nel nome dell’autenticità e dell’innocenza americane. L’intervento nella Grande Guerra, imposto da Wilson e dai circoli guerrafondai, snaturò la logica della Prima America, tutta vocata all’emisfero occidentale.

Wilson, antagonista simbolico di Theodore Wilson e insulso rettore di un college per ragazze ricche, fu anche il liquidatore morale dell’avventura Western, nonché dei suoi valori più alti. Con Franklin Delano Roosevelt, un protetto di Wilson, si aprì l’equivoca era imperiale dell’America, diametralmente opposta ai modelli dei Padri Pellegrini, della Frontiera e del West.

I successori di Wilson, incluso John Fitzgerald Kennedy finto campione di democrazia, in realtà condottiero della plutocrazia, del militarismo, della degenerazione dello Spirito americano, non hanno più conseguito vittorie. Hanno invece aperto l’età del disonore, non solo avviando la turpe guerra d’Indocina ma anche perdendola nella vergogna. Con Kennedy si aprì il declino americano, che mezzo secolo dopo non accenna a chiudersi.

Niente di ciò che l’America consegue oggi è paragonabile alle gesta dei pionieri e dei conquistatori del West. Quella che fu la più giovane, la più vigorosa e “morale” delle nazioni è oggi il più gigantesco degli Stati-canaglia.  Più nessuna gloria e invece odii o malanimi dal pianeta intero.

A.M. Calderazzi