Ventiquattro anni fa partecipavo a Budapest a una riunione non molto importante, che però vantava la presenza del Presidente della repubblica ungherese. In attesa di fare lo scontato interventicchio, ripassavo mentalmente le frasi fatte e gli altri farfugli che sono d’obbligo davanti a un microfono. D’un tratto feci una constatazione che mi tramortì: dopo Mani Pulite gli stranieri, quindi anche i magiari, ci consideravano ladri in blocco. Dunque gli astanti avrebbero riprovato me, unico italiano nella saletta, non i politici e gli imprenditori subalpini, vesuviani, salentini, etc. Anche il Successore di Stefano re e santo mi avrebbe riprovato: come avrebbe potuto sapere al momento che non avevo frodato, voltato gabbana, mangiato nel truogolo, insozzato valori, ceduto l’anima in leasing, come i più eminenti degli italiani?
Dal giorno che Mario Chiesa irruppe nella storia, mi chiedevo come se la cavavano i miei connazionali che ogni giorno avevano a che fare con gli stranieri? Beninteso dei diplomatici, degli europarlamentari, di altre non entities non mi curavo. Mi curavo di me carneade. Sarebbero bastati i panni andanti che indossavo a convincere il Presidente a non accostarmi agli eleganti impostori, prediletti di Moda Uomo, che derubavano la Penisola? P. es. il presidente della Camera era un maestro di cravatte.
Trafitto da queste apprensioni presi a leggere i foglietti al microfono, ma soprattutto sbirciai meglio lo Statista: sollievo, appariva assente, forse non si era accorto del compaesano di Craxi! Il sollievo durò poco, perché Egli guardò nella mia direzione: forse avrebbe messo insieme il canovaccio di un lavoro sull’Italia, lo avrebbe intitolato “L’aggiornato piacere dell’onestà”. Obbedendo a faziosità danubiane, dunque un po’ calviniste, mi avrebbe messo nella trama pirandelliana come reggi sacco di un portaborse craxiano o finiano. Non c’era scampo per me. E se permettete, neanche per voi bellimbusti e femministe d’Italia.
Ripiegati i foglietti tornai sconsolato alla mia sedia, dietro un attaccapanni che mi proteggeva dalla riprovazione del discendente degli Unni. Ma dopo il pathos tragico venne la Catarsi. Dalla fossa della disperazione ai cieli alti della speranza: mi ricordai dei Cainiti. Setta gnostica del II secolo, divinizzava Caino figlio di Adamo, tanto più energico del fratello Abele; onorava Giuda: aveva tradito perché Cristo potesse compiere la sua missione.
Ecco la prospettiva salvifica che mi venne dalla filosofia cainita della storia! Se la Repubblica nata dai mitra del colonnello Valerio e di Giorgio Bocca era il peggio d’Occidente, era per rigenerare quest’ultimo. Aveva il più fetido degli assetti demo-plutocratici, affinché Lettonia e Bundesrepublik si disgustassero dei loro partiti e delle stesse urne. I misfatti di Montecitorio e di Montemadama mettevano a nudo l’insipienza finale della democrazia rappresentativa: allora addirittura avrebbero persuaso gli inglesi, ex padroni del mondo, a disfarsi di Queen Insulsa e ad affittare Buckingham Palace ai turisti asiatici. Insomma l’interpretazione cainita della storia ci avrebbe messi in onore, noi contigui di Mafia Capitale e dei Tulliani di Montecarlo. Non ci saremmo vergognati, bensì vantati, del DNA cainita. Saremmo tornati The Best, come nel Rinascimento.
Furono questi i pensieri, quando aspettavo di porre domande ad Arpàd Goencz, ex aiuto manovale e successore di Stefano, santo e re.
A.M.C.