CIBO PER TUTTI? Un obiettivo lontano. Per ora soltanto food for thought …

L’antropologo americano Marvin Harris afferma, nel suo affascinante, profondo e divertente libro (1), che noi appartenenti al genere umano condividiamo le nostre abitudini alimentari con maiali, scarafaggi e ratti: infatti siamo tutti onnivori. Potremmo aggiungere che con iene e lupi condividiamo invece la caratteristica di essere mammiferi e predatori gregari.

Questa seconda caratteristica è assai più importante della prima, al fine di capire perché alcuni di noi posseggono più cibo di quanto ne potranno mai consumare, mentre altri più sfortunati o meno rapaci (anche se non meno capaci) vedranno i loro figli crescere deboli, menomati nel fisico e nelle facoltà mentali, e in alcuni casi morire di fame e di stenti. Tutti i popoli rischiano grosso – ci ricordano con i loro scritti Schumacher (2), Steinbeck (3) e d’Eramo (4) – quando i governi sono chiamati a fronteggiare eventi che richiedono di operare scelte che peseranno come macigni sulla vita di ciascuno.

In un’opera autobiografica (5), l’autore de La fattoria degli animali (Animal Farm, 1947) ci racconta che cosa accadeva tra i poveri che vagabondavano negli anni Trenta per le strade di Londra, la capitale dell’impero più vasto e potente del mondo, quando egli ne condivideva la vita.

Ecco il ritratto di Paddy: Da due anni aveva perso il posto. Si vergognava moltissimo di essere un vagabondo, ma del vagabondo aveva assunto tutte le caratteristiche. … Probabilmente sarebbe stato in grado di lavorare, se per qualche mese si fosse nutrito a dovere. Ma due anni di pane e margarina avevano infirmato senza rimedio le sue possibilità. Era vissuto di quella sozza imitazione di cibo finché anche la qualità del suo spirito e del suo corpo non si era deteriorata. Era la denutrizione e non qualche deficienza congenita ad aver distrutto il suo vigore. Un’altra sua testimonianza: Qua e là c’erano impiegati disoccupati, smunti e malinconici. In mezzo a un gruppo di loro un giovanotto alto, magro e mortalmente pallido parlava con eccitazione. Batteva il pugno sul tavolo e faceva lo spaccone con strano nervosismo. … Lo osservai, colpito dal suo modo impulsivo e agitato di parlare; sembrava isterico, o forse un po’ ubriaco. Un’ora dopo entrai in una saletta che avrebbe dovuto essere adibita alla lettura. Non c’erano libri né giornali, perciò ci andavano in pochi. Quando aprii la porta vidi che c’era il giovane impiegato, solo; era in ginocchio e pregava. Prima di richiudere la porta feci in tempo a vedergli la faccia: sembrava in preda agli spasimi della agonia. Capii a un tratto, da quell’espressione, che stava morendo di fame.

George Orwell era nato a Motihari, una cittadina dello stato indiano del Bihar a 55 km da Birgunj, la seconda città più popolosa del Nepal, dove sono stato nel 1971 quando lavoravo per l’UNDP. In questo distretto, a Champaran, era andato il Mahatma Gandhi (1869-1948) per protestare contro gli inglesi per le miserevoli condizioni dei contadini che erano stati costretti a coltivare l’indaco (pianta dalla quale si estrae l’omonima tintura per i tessuti) invece dei cereali che servivano per la loro sussistenza. Un fenomeno questo che si ripeteva in tutte le colonie di sfruttamento, ma che in quelle più densamente popolate aveva effetti disastrosi per l’alimentazione soprattutto dei poveri. Ne sono testimonianza le devastanti carestie che hanno colpito varie zone dell’India nel corso del dominio britannico.

Il ricco e popoloso Bengala è stato colpito da varie carestie. Prima di farne cenno occorre ricordare che il 31 dicembre 1600 veniva fondata con Royal Charter (patente o decreto reale) della regina Elisabetta (la prima monarca inglese ad appoggiare incondizionatamente i mercanti e i corsari, che erano di fatto pirati, predoni e avanguardie della colonizzazione) una società per azioni, la East India Company, alla quale veniva conferito per 21 anni il monopolio del commercio nell’Oceano Indiano, come se quei territori fossero stati soggetti all’Inghilterra. Ne erano azionisti mercanti e aristocratici inglesi.

Con l’inganno, la corruzione e l’azione militare gli inglesi avevano finito per ottenere il monopolio sul commercio e nel 1757 erano divenuti i padroni del Bengala fino al punto di razziarne il tesoro. Nel 1764 ottennero i diritti di tassazione ed esazione fiscale e la East India Company divenne così il potere dominante del Bengala. Nel 1768 i raccolti furono scarsi e nel 1769 ancora più scarsi, anche a causa della siccità del settembre 1769. Le autorità britanniche, al corrente della situazione, non presero alcuna misura per sostenere la popolazione colpita dalla carestia nei primi mesi del 1770. A metà dell’anno i morti per carestia aumentarono a due milioni, e non c’erano le risorse per seppellirli. Le piogge nella seconda parte dell’anno permisero un buon raccolto e la carestia diminuì, ma per riprendere negli anni successivi. Vaste aree coltivate tornarono giungla per decenni, poiché i sopravvissuti avevano abbandonato i territori più colpiti.

La East India Company aumentò il peso della tassazione sulla terra e sui commerci portandola dal 10% al 50% sul valore dei prodotti agricoli; l’imposta fondiaria raddoppiò e anche questo gettito andò alla madrepatria inglese. Nell’aprile 1770, quando la carestia stava raggiungendo il suo apice, la East India Company decise che l’imposta fondiaria sarebbe aumentata del 10% nel 1771. La crescente diffusione della coltivazione del papavero da oppio ridusse le aree coltivate per produrre alimenti e aggravò la già cattiva situazione. Occorre osservare in proposito che l’oppio serviva agli inglesi per pagare le loro importazioni dalla Cina, dato che i cinesi non avevano alcun interesse per i prodotti inglesi. La carestia del periodo 1769-1773 causò dieci milioni di vittime e la popolazione del Bengala passò da 40 a 30 milioni.

Grazie al nazionalismo (appreso dagli inglesi e poi usato contro di loro) e al fondamentalismo religioso (incoraggiato dagli inglesi secondo il principio del divide et impera) il Bengala è oggi diviso in due entità politiche distinte: il Bangladesh (già East Pakistan tra il 1947 e il 1971) con circa 155 milioni di abitanti per il 90% musulmani e per il 9,5% induisti; e lo stato indiano del West Bengal con circa 95 milioni di abitanti e la capitale del Bengala, Kolkata o Calcutta, la città più intellettuale del sub-continente indiano. Questi 250 milioni di persone condividono la lingua e le tradizioni, mentre la religione è diventata un elemento di insanabile divisione soltanto con la dominazione britannica (British Raj). Il bengalese (bengali) è una lingua di altissimo valore letterario, usata da 300 milioni di persone, la settima lingua parlata nel mondo.

Altre carestie hanno colpito varie zone dell’India tra il Settecento e la metà del Novecento. A spiegarle non bastano le cause naturali, è l’intervento (o il non intervento) dei dominatori a peggiorare e a rendere catastrofica la situazione. Gli inglesi disprezzavano i sudditi delle loro colonie di sfruttamento perché li consideravano esseri inferiori e idolatri. Alla base di questo atteggiamento vi erano (e vi sono) il razzismo, il nazionalismo e il fondamentalismo religioso, come prova anche il caso dell’Irlanda, dove la forzata sostituzione dei cereali (alimento base) con la patata, creò una situazione che si tradusse in carestie ricorrenti. La più grave, dovuta alla peronospora (blight) della patata, nell’autunno del 1845 distrusse circa un terzo del raccolto della stagione e l’intero raccolto del 1846. Una recrudescenza dell’infezione distrusse gran parte del raccolto del 1848.

Incuranti della sicurezza alimentare degli irlandesi, i proprietari terrieri inglesi avevano destinato alla vendita tutti i cereali prodotti, dando in cambio ai loro contadini la possibilità di coltivare la patata, tubero di una pianta americana molto produttiva ma di cui si sapeva poco o niente. Gli irlandesi poterono così contare soltanto sulla patata per sfamarsi, ma non ne conoscevano i sistemi di conservazione nella forma disidratata o liofilizzata (chuño), come accadeva invece nelle zone di origine situate nelle Ande centrali.

La trasformazione in farina di pochi quantitativi non bastò ad evitare la grande carestia (Great Famine), che avrebbe potuto essere meno disastrosa se la cupidigia e le motivazioni degli inglesi – desiderosi non soltanto di impadronirsi degli averi degli irlandesi, ma di sterminarli una volta per tutte – fossero state meno radicate e ingigantite dai pregiudizi nei loro confronti dato che erano papisti, pigri e ubriaconi, e perciò soggetti alla punizione divina della carestia (6).

Concludiamo queste brevi note con una parola di speranza. Nel giuramento di Mandé rivolto alle orecchie del mondo intero proclamato nel 1222 dinanzi al re del Mali – al tempo di Francesco d’Assisi (1182-1226) e della sua Regola non bollata composta nel 1221 dopo l’incontro con il sultano d’Egitto al-Malik al-Kaamil (1219) – e tramandato oralmente di generazione in generazione dai cantori africani, si dice: L’uomo in quanto individuo (…), la sua anima, il suo spirito vive di tre cose: vedere ciò che ha voglia di vedere, dire ciò che ha voglia di dire e fare ciò che ha voglia di fare. Ciascuno risponde della sua persona, ciascuno è libero nei suoi atti, nel rispetto delle leggi della sua Patria. (7) Non si parla qui di diritto al cibo ma di ciò che rende la vita degna di essere vissuta.

Nella vita delle comunità di villaggio era cosa naturale, da parte dei vicini, coltivare il campo della vedova e dell’orfano o del malato e consegnare i frutti ai titolari dei diritti di coltivazione perché potessero nutrirsi. Da allora di passi indietro ne sono stati fatti tanti, sebbene qualcuno sia stato fatto anche in avanti.

Come può oggi la vita – per i più poveri – essere degna di essere vissuta, quando sono circondati dall’indigenza e dalla miseria materiale che riduce i componenti di una gran parte dei loro fratelli allo stato di bruti? Cosa possiamo fare noi, che siamo nati e cresciuti nell’abbondanza? …..

Gianni Fodella

Note bibliografiche:

(1) Marvin Harris (1922-2001), Buono da mangiare. Enigmi del gusto e consuetudini alimentari, (Good to Eat. Riddles of Food and Culture, Simon and Schuster, New York 1985) Einaudi, Torino 1990 e 1992, pagine 251

(2) Ernst Friedrich Schumacher (1911-1977), PICCOLO E’ BELLO L’economia come se la gente contasse qualcosa, (SMALL IS BEAUTIFUL Economics as if People Mattered, Harper & Row, 1973), Oscar Saggi Mondadori, Milano 1978, pagine 249

(3) John Steinbeck (1902-1968), FURORE (The Grapes of Wrath, 1939), RCS Bompiani, Milano 1940-2010, pagine 478

(4) Marco d’Eramo (1947), Il maiale e il grattacielo. Chicago: una storia del nostro futuro, Feltrinelli, Milano 2004, pagine 482

(5) George Orwell (1903-1950), Senza un soldo a Parigi e a Londra, (Down and Out in Paris and London, 1939) Oscar Mondadori, Milano 1981, pagine 257

(6) Redcliffe N. Salaman (1874-1955), Storia sociale della patata (The History and Social Influence of the Potato, Cambridge University Press 1948, edited by J.G. Hawkes in 1985), Garzanti, Milano 1989, pagine 434

(7) Citato a p. XIII da Giuseppe Prestìa (1971), LA CENTRALITÀ DELL’AGRICOLTURA NELLO SVILUPPO ECONOMICO E NELLA CRESCITA L’ignorata eredità africana e alcune delle esperienze agricole più significative del mondo, LUMI Edizioni Universitarie, Milano, II edizione luglio 2014, pagine XIV+805

NOTA DELL’AUTORE

Si stima che nel 1801 la popolazione irlandese fosse pari alla metà di quella inglese; sulla base dei censimenti la popolazione dell’Irlanda è passata tra il 1841 e il 2011 da 1/3 a 1/14 di quella della Gran Bretagna.

Irlanda in milioni di abitanti: 8,18 (1841), 6,55 (1851), 4,46 (1901), 4,23 (1926), 2,98 (1971), 4,59 (2011);

Regno Unito in milioni di abitanti: 26.71 (1841), 41,46 (1901), 63,18 (2011).