Fino a Franklin Delano Roosevelt, il guerrafondaio che mediante l’intransigenza del negoziato con Tokyo ottenne a Pearl Harbor di arruolare il paese a difesa dell’ordine plutocratico, l’America era la fidanzata del mondo. Non si poteva non amarla, e questo in ogni caso ingiungeva Hollywood.
Oggi che l’America assomma da sola tutti i guasti delle società ricche, anziane ed egoiste, è struggente leggere certe premonizioni degli anni Ottanta di due secoli fa. “Comincia a morire la fase migliore dell’America” scrisse nel 1889 Theodore Roosevelt nel libro ‘Ranch Life’. A differenza del giovane parente che trionferà con le menzogne e le Fortezze Volanti, il primo Roosevelt era un uomo di principii. Per due anni, futuro presidente degli Stati Uniti, aveva fatto l’allevatore nel Dakota. Il suo libro additò nel cow boy il campione spavaldo e ammirevole della stirpe dominatrice del Nuovo Mondo. Chi non ne sentiva il fascino, anzi il carisma?
Nell’inverno 1886-87, mentre gli intellettuali di Londra, Parigi, Vienna (e perché no. Boston) si limavano le unghie letterarie, le tormente del West decimavano le mandrie bovine e mettevano in risalto la tempra dell’America. Era la sola giovane e vergine tra le nazioni: la Gran Bretagna troppo materialista e padrona, la Francia “corrotta fino al disgusto” secondo Henry Adams, uno Scipione del Massachusetts (pronipote del primo successore di George Washington, nipote di John Quincy Adams, presidente dopo Monroe). Contrapporre l’adolescenza americana al cinismo e alla stanchezza del Vecchio Mondo era il protoconcetto dell’identità nazionale, la ragion d’essere della Repubblica delle praterie e delle foreste.
Il presentimento dello spegnersi della virtù sorse prima del volgere del secolo della Frontiera, il diciannovesimo. Le macerie e gli strazi della Guerra di Secessione, l’eroismo della Frontiera, furono seguiti da un’età di ricchezze facili, di speculazioni gigantesche, dei fatti di corruttela della società che diventava urbana sotto il pastrano glorioso del presidente Ulysses S. Grant, il generale che aveva condotto alla vittoria l’esercito nordista. Cominciò W.D.Howells, caposcuola del realismo letterario, a lamentare la carie che coll’allargarsi della ricchezza svuotava i valori dell’America. Ciononostante scriveva da Venezia (1862): “La mia preghiera più fervida è che l’America assomigli sempre meno all’Europa, sempre più all’anima dell’Oregon”.
L’Oregon era “la foresta primigenia su cui aleggiava lo spirito dell’America”. I cacciatori e i boscaioli che si erano spinti il più lontano possibile dalle città sull’Atlantico erano gli eroi
eponimi di una stirpe pioniera che nessun Tocqueville, la mente occupata dalle illusioni della democrazia addomesticata e borghese, aveva saputo raccontare. Washington Irving, primo cantore della selva americana, incrinò le certezze intellettuali del pensiero europeo: solo la foresta americana era libera e nobile, non minacciata dai soprusi del denaro. I settlers della regione delle sorgenti dell’Ohio tentarono di chiamare Westsylvania il loro Stato che nasceva. Ci si può chiedere perché nessuno abbia pensato di dare alla nazione il nome ‘United Forests of America’.
A due secoli interi da quel tempo favoloso, lo spiritualismo che contro le apparenze acquisitive era l’essenza del messaggio americano si è completamente essiccato, anzi spento. Il Nuovo Mondo non suscita più pensieri adolescenti. Ha ripudiato l’iunnocenza: sarebbe grottesco se qualcuno sul Potomac la vagheggiasse ancora. Ciò che restava dello Spirito Americano è finito come una medusa lasciata sulla sabbia, anzi come una balena spiaggiata. Le genti che amarono la patria di Washington Irving sanno di dover guardare verso altri astri.
L’America straricca e devastata da militarismo e consumismo è talmente senile da non essere più nemmeno idonea al ruolo di Santa Alleanza voluto da George W. Bush. Non riesce più a mandare spedizioni militari che competano coll’efficienza dell’esercito dei Figli di San Luigi: lo mandò il re di Francia a reprimere i patrioti spagnoli che nel 1812 da Cadice avevano additato l’orizzonte delle libertà costituzionali. Troppo senile l’America di Obama per saper capeggiare i reazionari del pianeta. Dovranno cercarsi un altro Metternich.
E più gli States generano ricchezza e dilatano a dimensioni di firmamento gli arsenali bellici, più si fanno tutt’uno con la vecchiaia del creato. Più di ogni altra grande civiltà, l’America avrà bisogno di un big bang che ne sconvolga l’anima: come accadde all’Arabia beduina quando Maometto prese a predicare.
L’Islam, l’arcinemico odierno dell’ordine americano, aiuterà di fatto a rigenerare menti e cuori dell’America?
A.M.Calderazzi