Rileggere, cento anni dopo la Grande Guerra, le pagine di Gioacchino Volpe sull’interventismo di casa nostra (Il popolo italiano tra la pace e la guerra. 1914-15, Milano, ISPI, 1940) ha un’utilità sinistra: “Vedere -avverte Volpe- il buono di quella specie di romantica scapigliatura, di quel calor vivo che ardeva nelle anime, di quelle certezze che occupavano le menti, di quel travaglio torbido ma non sterile, di quella specie di verginità di cuore con cui il popolo italiano, o chi se ne assunse la rappresentanza ideale, si gettò nella mischia prima, nella guerra dopo. Era un fervore quasi da neofiti”.
Pessima, anzi tragica cosa quel “vedere il buono” dei deliri di patriottismo che coprirono di rispettabilità le trame belliciste di governanti, diplomatici e militari. Tanto più in quanto quel vedere il buono fu scritto nel maggio 1940, vigilia immediata del nostro salto in un altro conflitto, quando Volpe stese una prefazione al libro di cui parliamo, scritto invece nel 1928. Una prefazione tutt’altro che innocente. Giustificava la suicida decisione mussoliniana di accodarsi ai momentanei trionfi del Terzo Reich: “Oggi (1940) non sono più in vista Trento, Trieste e la libertà e sicurezza nell’Adriatico; ma un mare più grande e non meno necessario; e frammenti d’Italia (Nizza? La Savoia? Tunisi persino?- NdR) che sono ancora da rivendicare, non solo per compiere l’unità, ma anche per trasformarli da altrui mezzi di offesa all’Italia a nostro mezzo di difesa; e l’Impero da assicurare attraverso una via non troppo minacciata; e terra da dare al lavoro degli Italiani”.
Se il Volpe prefatore del maggio 1940 è l’incauto propalatore del Megalomane predappiese (sognava di replicare la brillante conquista dell’Etiopia), il Volpe che nel 1928 raccontava il nostro interventismo è credibile, non foss’altro in quanto esponeva abbastanza obiettivamente anche le ragioni dei neutralisti. Per questo “Il popolo italiano 1914-15” è da rivisitare.
Col senno di poi, un secolo dopo Serajevo, a valle di tanti altri conflitti minori e nei giorni di nuovi fratricidii, anche a Volpe -come a gran parte degli storici più o meno accademici-
va imputato di elevare a movente irresistibile e nobile un fattore millenario di massacri, oggi in declino assoluto: il patriottismo. Sia chiaro: oggi sono molti ma non abbastanza gli assertori che la patria e la sudditanza al potere sono nemici dell’uomo, quando precettano a uccidere e a farsi uccidere per il volere dei governanti. Gli assertori appaiono ancora, a volte, iperpacifisti anarcoidi: come se il massacro fosse un imperativo categorico. E invece dovrà trionfare il principio che solo i mercenari, professionisti delle armi, hanno il dovere di combattere; tutti gli altri, no. Le patrie, al diavolo. Le maggioranze immense hanno il diritto/dovere di rovesciare i governanti che tentano di arruolarle al fronte.
A valle di Verdun, di Hiroshima, dell’Olocausto, degli stermini di Hitler, Stalin, Churchill e F.D.Roosevelt, non esistono più le guerre giuste. Meno che mai sono concepibili le guerre vestite di ideologia: libertà, democrazia, progresso, socialismo, diritti, emancipazioni, questo o quel credo religioso. Risultano grotteschi o ripugnanti coloro che le guerre ideologiche le muovono. I G.W. Bush e i Tony Blair sono detestati quasi universalmente. Però meritano ludibrio anche i loro predecessori, che tanto più di loro hanno martirizzato l’umanità: gli Hitler, Stalin, FD Roosevelt, Churchill, in piccolo Benito Mussolini.
Per la carneficina di un secolo fa, va detto che l’impostura ideologica fu meno sfrontata. Salandra e Sonnino non tentarono nemmeno di spacciarsi per combattenti dell’ideale. Mossero guerre all’antica, per acquistare territori, mari, mercati, dominii d’altro genere. Il lavoro ignobile di inventare superiorità ideali lo lasciarono ai giornalisti grandi firme e agli intellettuali traditori della verità. Ai Grandi del potere, ai guerrafondai di vertice, bastava l’assioma supremo, quello da non dimostrare: la Patria.
Nel libro di Gioacchino Volpe campeggia, logicamente, il piccolo Poincaré di casa nostra, Antonio Salandra da Troia, provincia di Foggia. Finì coll’assurgere, egli modesto gregario giolittiano, a vittorioso antagonista del grande Giolitti. Se il dittatore parlamentare fosse tornato al governo nel 1915 invece che nel 1920, forse avremmo ottenuto Trento e Trieste senza perdere 600 mila vite, senza martirizzare i feriti sotto i ferri degli ospedali da campo, le vedove e gli orfani nelle povere case, senza soffrire le condizioni che produssero il fascismo. Salandra- il quale oserà lamentare in un libro che le sue fatiche di guerrafondaio (e la sua invenzione del “sacro egoismo”) non gli avessero fruttato “nemmeno un titolo nobiliare”-è piccolo personaggio rispetto all’orrenda figura negativa di Serghiei Sazonov, egemone della politica estera della Russia. Nel 1914 plagiò Nicola II e i suoi consiglieri a ordinare la mobilitazione generale, cioè un’avventura bellica che si concluse coll’Apocalisse: disfatta, Rivoluzione, sterminio della famiglia imperiale, della classe dirigente e di ogni avversario dei bolscevichi. E pensare che gli obiettivi di conquista di Pietroburgo non si limitavano a Costantinopoli, ma si allargavano alla riva sinistra del Bosforo, al Mar di Marmara, ai Dardanelli, alla Tracia del Sud, alle isole egee di Imbro e di Taso. In più la Russia mirava a signoreggiare l’Adriatico attraverso una Balcania slava, o meglio attraverso una Grande Serbia.
Se lo Zar è un personaggio sinistramente doloroso, appaiono i diplomatici ottusi, mondani, pomposi. Si veda il marchese Di San Giuliano, predecessore di Sonnino agli Esteri. Per superstite triplicismo o per la difficoltà psicologica a cambiare fronte diplomatico, dedicò gli ultimi mesi di vita a tentare a Vienna e a Berlino di ottenere promesse di compensi territoriali in caso di trionfi austro-germanici.
Con tutte le riserve che merita, il libro di Gioacchino Volpe aiuta, nelle sue mezze verità persino più che nelle verità intere, a riflettere su quell’impazzamento di patriottismo che travolse ogni trincea della ragione. Dell’istinto di sopravvivenza, persino: ondate di giovani della piccola borghesia, pure dei ceti alti, che tumultuarono nelle piazze d’Europa per esigere la guerra, per invocare di morire per le Patrie infanticide. Furono accontentati in molti.
In Italia però il trionfo dell’Irrazionale ebbe una ricaduta benefica. Con l’aspra, se pur folle, contestazione del parlamentarismo giolittiano -in quel momento ultimo argine contro il massacro- esso anticipò di un secolo la santa insurrezione antipolitica di oggi: il maggiore evento dell’epoca che viviamo.
l’Ussita