LA SUZZARA FERRARA: 125 ANNI DOPO

Forse perchè uscito sotto Natale, forse perché avvincente nelle sue immagini in bianco e nero, il libro “La Suzzara-Ferrara 125 anni dopo” può apparire un libro-strenna. Se questo fosse, si perderebbe nella folla dei volumi da coffee-table. L’incisività dei testi e dei materiali grafici hanno mosso l’associazione Amici della Ferrovia Suzzara-Ferrara a farsene editrice per conto della fondazione Ricerca Molinette Onlus (l’empito benefico è un corollario, però importante).

Può apparire un libro-strenna, dicevamo. E invece è, senza volerlo, una cosa grossa, il manifesto programmatico di un’evasione dal pensiero unico, dall’andare senza meta. E’  la sobillazione a sceglierci modelli e sentimenti migliori. In ultima analisi, preparatevi a darvi nuovi Dei, venuti da un passato che ci è caro. Se arrossite di come pensate e vivete, apritevi a un’esperienza forte su questo libro.

Perché la rievocazione d’una ferrovia secondaria, di “come eravamo” in una contrada minore, dovrebbe essere un manifesto programmatico? Risposta, perché viviamo un tempo di nichilismo disperato, laddove questo libro ci propone un’avventura nei grandi sentimenti, l’esatto contrario del nichilismo. Questo libro in nulla teorico, per questo così suggestivo, è persino l’invito a rivivere la svolta del Romanticismo, contro i canoni e le convenzioni del realismo, chiamato anche ‘modernità’. “La Suzzara-Ferrara” ci fa fare un tratto di strada a fianco di uomini e donne comuni che, senza saperlo, sono portatori di un bell’ideale romantico. Il Romanticismo, quello tedesco soprattutto, deviò la corrente, oppose i grandi sentimenti popolari ai precetti e alle convenzioni del razionalismo illuminista dei benestanti.

Sui binari che andavano da Suzzara a Ferrara vivevamo tutti noi come eravamo. Eravamo popolo autentico, fondamento di un’umanità sofferente ma forte nei valori. Gli autori di questo libro riaffermano l’invincibilità della schiettezza contro il cinismo delle abitudini rassegnate. Ci parlano di locomotive di bassa potenza, di stazioni caselli e passaggi a livello

gestiti da persone di menti e cuori leali. Gioivano della conquista del pane, lottavano contro le malattie gli stenti le guerre le altre afflizioni del nostro passato. Fabio Malavasi, Roberto Santini, Guido Sostaro, Flavio Tiengo, Claudio Demaria e gli altri che hanno messo insieme questo libro ci fanno amare le esistenze vissute attorno alla Ferrovia. Alcuni degli autori e dei volontari hanno dato fatica fisica, oltre che soldi. per ricostruire materialmente macchine e materiali  rotabili di un tempo. Hanno congiurato perché questa o quella locomotiva costruita nel 1903 viaggiasse di nuovo sui binari.

Cosa sono queste abnegazioni, questi sommessi eroismi, se non pratica di valori che vivono da millenni? Non sono oscuri missionari in terra di selvaggi che adorano gli idoli della modernità: successo, Pil, edonismo, saperci fare?

Fabio Malavasi, uno di questi missionari, ha avuto affermazioni importanti come cattedratico di genetica medica all’università di Torino. Però è nato nel casello 15 della Suzzara-Ferrara. Sua madre era la casellante, suo padre era responsabile della manutenzione di un tratto della linea. Fabio vive fino in fondo la pietas verso i genitori e verso la ferrovia. Il casello 15 ha potuto comprarlo ed ora ci vive momenti sereni.

Tutto ciò è vocazione spirituale, ovviamente. Ma la forza del libro è di dare gli ideali per scontati. Di raccontare storie, opere, giorni. Come si facevano andare, rifornire, riparare locomotive e carrozze da non più di 30 kmh. Come le si facevano superare le pendenze. Come durante e dopo l’ultima guerra le si ricostruivano con materiali di risulta, comprese le parti di bombardieri abbattuti. Ancora più immediatamente, il libro ci offre volti e cose emozionanti e solenni: la maestra elementare raggiante alla finestra della povera scuola;  una prima comunione; i trattori Landini “a testa calda”; il pollivendolo e il gelataio; le microstorie di un popolo mille volte più meritevole di amore che i tristi tesserati Fiom, che i cassintegrati long term, prosperi abbastanza da praticare costosi cicloturismi.  Gli equipaggiamenti high tech di questi ultimi ci antagonizzano; le foto e i racconti della Suzzara-Ferrara ci fanno amare il popolo, le altre cose grandi del passato e il loro invincibile compagno di fede d’oggi, il volontariato. Il mondo cambierà quando l’idealismo -anche quello delle piccole cose- andrà al potere.

A.M.Calderazzi

Perché nasce questo libro

Un libro che voglia ricordare i 125 anni di vita della Ferrovia Suzzara-Ferrara (FSF) rischia forte: di solito, simili libri vengono percepiti come uno strumento per ripercorrere parte della nostra storia e per glorificare un mezzo di trasporto importante quale è il treno. Ma questo non è il caso.

Il libro potrebbe nascere in risposta ad una precisa richiesta che viene dalla base, come se tutte le genti dei Paesi attraversati dalla Ferrovia non aspettassero altro che ricordare questa opera. Risposta prevedibile: anzi è piuttosto evidente una significativa disaffezione da parte della locale popolazione per questo mezzo di trasporto.

Tutto sembra suggerire che non esista alcuna ragione valida per investire lavoro, carta e inchiostro per completare questo libro. Coloro che hanno deciso di farlo nonostante tutto potrebbero essere guidati da quella piccola (ma umanamente comprensibile) vanità di vedere i propri nomi stampati. Il lettore si può tranquillizzare, in quanto per età i curatori non hanno più motivo o necessità di dimostrare granché.

Premesse stimolanti per una ulteriore indagine volta a scoprire le ragioni vere che stanno dietro a questa forma di accanimento pubblicatorio. Come detto, l’età media del gruppo che ha portato avanti l’iniziativa è un po’ alta. Allora scatta il sospetto che questi individui siano guidati dal principio noto come “retrospezione rosea”, un meccanismo adattativo che sembra essere innato nella psicologia umana e che opera con un meccanismo simile a quello delle endorfine in biologia, in qualche maniera facendo sempre apparire il passato migliore del presente o del futuro.

La realtà non è così. I tempi andati sono stati durissimi ed anche impietosi con tutti quelli che non avevano doti naturali per competere e sopravvivere all’ambiente. Si tende a rimuovere che le zone attraversate dalla Ferrovia sono uscite da situazioni di paludi e malaria, ridotta alimentazione e diffusa povertà. Per queste sostanziose ragioni, ogni forma di “pessimismo nostalgico” è da escludere con sicurezza.

La risposta è in realtà piuttosto banale: a parte Flavio Tiengo che ha magistralmente ricostruito molte immagini e assemblato il libro, il gruppo curatore dell’iniziativa è formato da persone nate nella FSF o in qualche modo legato alla Ferrovia; esse intendono semplicemente pareggiare un conto con la storia. Nulla a che vedere con la Storia vera, ma semplice strumento per analizzare e dare spazio a tutte quelle microstorie che hanno preceduto le nostre generazioni e le cui attività hanno fondato gli attuali livelli di comfort e vivacità della zona. Purtroppo i protagonisti delle microstorie non raggiungono i livelli per attrarre l’attenzione degli storici veri, degli economisti o degli esperti del lavoro, che seguono solo eventi importanti, ruoli eroici, aspetti politici o altro. La ambizione dei curatori di questo libro è quella di generare uno spazio su carta stampata a queste microstorie, sperando così di attrarre forme di attenzioni più alte.

125 anni sono un risultato puramente numerico e convenzionale, ma rappresentano una occasione per ricordare queste persone che con il loro silenzioso lavoro e contributo hanno cambiato la terra attraversata dalle FSF. Questa pubblicazione nasce poi con limiti dichiarati e non intende certo aggiornare il contributo di Alessandro Muratori, che nel 1988 ha scritto un libro che è il referente nella storia della Ferrovia. Vuole invece rappresentare alcuni momenti particolari della vita della Ferrovia, sia a terra che a bordo del treno, attraverso aspetti aneddotici che sono nella memoria delle nostre famiglie oppure di cui siamo stati testimoni diretti o che ci sono stati tramandati da amici e simpatizzanti.

Per gli ultimi momenti della FSF, l’idea di conservare le locomotive, i carri, le littorine e la grande eredità di Officine e strumenti è stata considerata un costoso passatempo. Proteggere il capitale umano è stato poi visto come velleitaria quanto inutile utopia.

La fine ufficiale della Ferrovia Suzzara-Ferrara ha sorprendentemente coinciso con un riemergere di persone e idee che sembravano disperdersi nelle nebbie padane. Queste persone hanno gettato le basi di un timido piano di raccolta di testimonianze della Ferrovia. Affermare che fin dall’inizio il gruppo aveva fatto una scelta culturale rispetto ad una semplice raccolta di cose e documenti è forse pretendere troppo: tuttavia, un gruppo di persone che lavoravano dentro e fuori la neonata Ferrovia Emilia Romagna (FER) decise di mettere insieme le proprie energie per fondare l’Associazione “Amici della Ferrovia Suzzara-Ferrara”. L’Associazione non voleva certo crogiolarsi nel rivangare episodi di un passato gratificante. La scelta fu invece quella di indirizzare l’Associazione verso lo sviluppo degli obiettivi di questa, usando il sociale e la medicina come tramite con la gente.

Questo disegno era nato dalla esperienza di tutti gli importanti gruppi di feramatori italiani, dai quali era emerso che la semplice raccolta di cose e documenti, anche se necessario inizio, non era sufficiente.

Anche il semplice restauro necessitava di un background storico ed economico e lo stesso valeva per l’inquadramento dei documenti. Allo scopo fu sfruttata l’esperienza del Museo Ferroviario Piemontese, un gruppo trentennale che era già passato attraverso questa dialettica interna. La prima tappa fu la raccolta di tutto ciò che ancora esisteva del materiale della ex-Ferrovia Suzzara–Ferrara, cercando di superare la dissennata politica di demolizione e di abbandono. Fu dapprima trovata la storica “Mincio 14”, una locomotiva a vapore della Maffei (Monaco, 1887, anche lei di 125 anni di vita), seguita dal Ganz M.52, automotore costruito in economia dalle Officine Sociali di Sermide. Un illuminato gruppo interno alla FER aveva provveduto a suo tempo a recuperare e a proteggere due automotrici FIAT ALn 556 dell’ultima dotazione. Il Gruppo Amici Treno Torino (GATT) donò la FSF ALn 56.136 al costo di Euro 1,00 + IVA. La Mincio e la littorina sono stati protetti all’interno delle Officine di Ponte Mosca a Torino.

In simultanea iniziava il loro inserimento nel processo culturale in una con il Politecnico e la Facoltà di Storia dell’Università di Torino. Questo ha portato ad una prima tesi universitaria sul design esterno ed interno delle automotrici FIAT degli anni ‘30. Quest’anno sarà la volta dello studio di vetture passeggeri a cassa in legno da parte di studenti del Politecnico.

La seconda scelta strategica adottata prevedeva una collaborazione con Associazioni non lucrative che operavano in un ambito sociale e di assistenza. Qui nacque il primo treno a vapore fatto in collaborazione con l’UNICEF, seguito anche da treni fotografici. L’esperienza dei Volontari del Museo Ferroviario Piemontese ha consentito un salto di qualità, mettendo insieme i gruppi che operavano nella ricerca contro i tumori con altri, invece, che “curano” altrettanto amorevolmente i vecchi treni. E’ nato così la seconda edizione di “Un Treno a Vapore contro i Tumori”, che ha visto correre insieme a Mantova e poi a Ferrara il treno del SAFRE di Reggio Emilia con il treno giunto da Torino. La T3 di Torino ha percorso oltre mille chilometri, mentre la collega ACTF 7 ne ha accumulati trecento.

La parte culturale si è manifestata anche nella preparazione di mostre storiche (a San Benedetto Po, Felonica e Pegognaga, nel Mantovano e a Ferrara): qui si è assistito ad una buona partecipazione di persone, e ciascuna ha apportato un pezzo figurato (e molto spesso reale) di storia del nostro passato. Questa mostra è stata seguita da un’altra dedicata a Corti, Bonifiche e Ferrovia, gli elementi fondanti dell’attuale situazione di benessere e cultura sociale della zona. Ciascuna di queste iniziative ha dato origine a pubblicazioni di diverso spessore e differenti contenuti.

Come si vede, al pari del libro si è trattato di una sfida che è stata portata avanti su base volontaristica. Quello che ci insegnano eventi come questo è che il volontariato è una macchina vincente per definizione, nulla lo ferma se l’idea di partenza è buona e se si vedono i risultati, soprattutto in prospettiva di recupero e sviluppo delle basi delle nostre radici e della nostra cultura.

Fabio Malavasi: Casello 15

Roberto Santini: Casello 18

Guido Sostaro: Casello 20

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            (credit: Fabio Malavasi e Flavio Tiengo)

La Colonia

La distinzione tra i figli di chi lavorava la terra e quelli invece di una famiglia della Ferrovia era il fatto che i secondi erano oggetto di una superiore attenzione al sociale e alla salute. Questo era resa possibile dalla Cassa di Mutuo Soccorso (da tutti, la Cassa Soccorso), una delle conquiste delle lotte dei Ferrovieri dei primi anni del secolo ventesimo, che si erano dotati di uno strumento che assicurava una assistenza medica facilitata.

Uno dei residui di igiene ambientale ereditato dal Ventennio era l’elioterapia, meglio nota come la cura del sole. Diverse generazioni di bambini avevano tratto reale giovamento dalla esposizione della pelle al sole, in fortissima contrapposizione ad inveterate convinzioni materne che obbligavano i bambini a coprire la testa con grandi cappelli di paglia (si favoleggiava di gravi encefaliti letargiche causate anche da pochi minuti di esposizione al sole) e gli esili toraci con maglie di fitta lana. Per contrappasso, c’era invece una rigida libertà espositiva della gamba, notoriamente priva di organi importanti e quindi indifferente ai rigori stagionali.

Gerardo Menani era persona di qualità superiori e a Sermide aveva creato nel 1950 la Sala della Comunità, fucina del Ricreatorio Parrocchiale. Entrato a lavorare a Ferrara nella Direzione della Ferrovia, aveva assicurato la continuità nel fornire ai bambini degli agenti FSF l’opportunità di fruire delle colonie estive al mare. Il mare era un grande salto qualitativo rispetto alle colonie elioterapiche sul Po, di moderato e casalingo impatto e famigliarità. Il numero dei bambini terricoli che avevano visto il mare erano in numero assai limitato negli anni ’50.

La colonia iniziava i primi di Luglio e durava un mese. Gli aspetti critici dell’evento riguardavano abbigliamento e trasporti, nemmeno considerato invece il fatto che i bambini soffrissero a stare fuori di casa e soprattutto lontano dai genitori.

Abbigliamento: alle famiglie del partente veniva richiesto di fornire una maglietta a righe trasversali bianco e azzurro (modello marino), canottiera standard, pantaloncino corto leggero e uno più pesante. Veniva anche richiesto un pullover modello simil cardigan, preferibilmente blu. Le scarpe erano quelle normali di casa con lacci, con l’aggiunta di un paio di sandalini, del convenzionale modello francescano a due bande.

Mare significava immersione in acqua e quindi si imponeva il costume da bagno. Non esistendo allora negozi in grado di fornire tali capi sportivi, un efficiente passaparola aveva guidato le famiglie della Ferrovia al disegno di un modellino di pantaloncino sgambato, di colore rigorosamente verde. La tradizionale oculatezza della zona orientò anche la scelta del materiale, lana spessa derivata da coperte militari (italiane o anglosassoni) modellata alla sera con i ferri. Ogni famiglia creò un proprio modellino di costume, variabile per altezza e per modalità di sospensione in vita. Le famiglie di reddito più modesto facevano ricorso ad un rodato approccio basato sull’elastico (anch’esso rigorosamente di recupero), passato in un’abile ripiegatura del bordo superiore del costume. Le famiglie più alte nella gerarchia della Ferrovia si differenziavano anche in questo, adottando una cinturina che agiva all’uopo infilata in passanti dello stesso materiale. La vezzosità di design e di insieme cromatico imponevano che la cintura fosse di colore bianco o chiaro. Posizioni intermedie erano l’aggiunta di semplici bottoni (generalmente due), posti anteriormente, di colore bianco e con funzione solo decorativa. Le bambine coprivano pudicamente il petto con prolungamento di apposite pettorine che si annodano sul collo.

I capi di abbigliamento della comunità avevano la inderogabile necessità di essere identificati come propri e venivano quindi marcati con l’apposizione di un numero rosso su un piccolo quadrato di tessuto bianco. Il numero era assegnato inizialmente da Menani, ma tendeva a rimanere lo stesso negli anni a venire per dettati di economia pre-bocconiana.

Si poneva poi il problema del trasporto di questi capi: la risposta del lider maximo Gerardo fu quella di richiedere la costruzione di un sacchettino di tela azzurra (anch’esso marcato) con chiusura fatta da lunghi lacci, che ne assicuravano al contempo il trasporto a tracolla.

L’unico lusso concesso ai partenti era il bicchiere componibile fatto di anelli concentrici in plastica o lamierino che assicuravano una tenuta del liquido, ancorché moderata.

Trasporti: la colonia era posta a Riccione, località lanciata dal Ventennio per la sua prossimità a Predappio. Mezzo di comunicazione era il treno Ferrara-Ravenna-Rimini, che partiva alle 7:23. I bambini delle famiglie poste tra Sermide e Suzzara non ce la facevano ad essere per quell’ora a Ferrara, ma qui provvedeva una certa forma di solidarietà aziendale. I bambini con questa necessità venivano messi a dormire la sera precedente a casa del Capodeposito Ghiretti, la cui famiglia per una volta all’anno aveva almeno 10 bambini da accudire. L’agitazione per viaggio e novità era alta, ma le minacce non montessoriane delle famiglie assicuravano in genere una tranquilla gestione della prima fase. Il mattino successivo si partiva con la littorina da Sermide e si giungeva freschi a Ferrara. Il treno per Rimini era addirittura un Direttissimo con nome, l’Adria Express, di grande impegno internazionale perché portava persone da Austria e Germania fino al mare. La Ferrara-Ravenna non era ancora elettrificata, per cui era mantenuta la trazione a vapore: questa era assicurata dalle tozze 623 di Venezia o Rimini. Nei fine settimana o d’estate la situazione cambiava totalmente quando una  685 diveniva titolare.

La comitiva FSF aveva una vettura riservata e un significativo sconto sui biglietti. Già dalla partenza, iniziava l’analisi comparativa da parte dei bambini tra il materiale dello “Stato” e quello più modesto della FSF. Spesso l’Adria Express aveva un numero alto di vetture, che rendevano necessaria la doppia trazione. I pre-riscaldatori Franco Crosti delle 623 emettevano particelle incombuste di carbone in quantità, per cui c’era il divieto assoluto di sporgersi dal finestrino per evitare il pulviscolo negli occhi. I bambini ingannavano il tempo sfoggiando i mitici bicchierini e bevendo dalle bottiglie di acqua col tappo a macchinetta portate da casa. I più ricchi avevano l’Idrolitina gasata.

I Capi delle stazioni avevano a quei tempi l’ambizione che la propria fosse più curata e più bella delle altre. Questa sottile competizione sulla FSF era prevalentemente affidata alle Capesse, le mogli che nel paese assurgevano a rango socialmente superiore. Queste usavano il giardino (di solito posto accanto al cancelletto ove entravano i passeggeri) come vetrina: aree con un pino posto al centro e che ospitavano una distesa di fiori pregiati. Dominanti erano il lilium e le viole, quelle scure dette da giardino, un marker esclusivo di alcune case.

Complici le maggiori dimensioni, le stazioni delle FS erano diventate una passerella di aiuole curatissime, di fontane simil-laocoontiane, di costruzioni monumentali che includevano anche pezzi di rotabili. La Direzione delle FS gettò benzina sul fuoco, lanciando il concorso “Stazioni Fiorite”, con premi in denaro per i Capistazione che investivano nella cura del posto di lavoro.

La grandezza delle stazioni e la diversa organizzazione e presentazione erano ulteriori spunti comparativi per considerazioni per chi non aveva mai lasciato il proprio borgo.

C’era poi l’attesa spasmodica per chi vedeva il mare per primo, una semplice fetta azzurra in mezzo a stabilimenti e case, ma una rarità assoluta per i terricoli della Bassa.

Il viaggio proseguiva fino a Rimini, dove la trazione diveniva elettrica. Le 623 venivano sostituite da un E.428, che raccoglieva la stupita ammirazione dei giovani rampolli FSF di fronte a un locomotore elettrico lungo quasi come una littorina.

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                (credit: Fabio Malavasi e Flavio Tiengo)

Menani e la FSF avevano il privilegio di una fermata straordinaria a Misano, ove il gruppo veniva fatto scendere dalle carrozze con mille precauzioni da parte delle “Signorine”. Si giungeva quindi alla sede della colonia, la Pensione Vela d’Oro sita in Viale Michelangelo. A quel tempo la zona era nella periferia di Riccione e si prestava bene ad un impegno di ospitalità per bambini fuori dalle pertinenze dei costosi bagni.

Il fronte della pensione era posto sul lato della Via Emilia, separato da un alto muretto con mattoni traforati e da robusto cancello. L’uscita operativa era sul lato che dava sulle dune di sabbia che proseguivano in direzione di Cattolica, del tutto disabitate.

Una stradina di terra portava alla spiaggia, ove l’attrezzatura era basata su tendoni a righe montati su 4 pali quadrati e su qualche spartana poltrona di tela, che ospitavano Gerardo e la sua corte.

Occupazione principe dei bambini erano i giochi con la sabbia, di qualità ben diversa da quella terrosa delle bonifiche e del Po. La prima settimana era obbligatorio l’uso della maglietta e del cappellino bianco con visiera per evitare scottature, anche se l’epidermide cominciava ad essere gradualmente esposta.

I giochi di spiaggia erano costituiti prevalentemente da scavi, con la sorpresa di trovare l’acqua a pochi centimetri di profondità. La mano a coppa del giovane di colonia raccoglieva acqua e sabbia e cominciava a costruire le prime stalagmiti di vaga fattura gotica. Questo portava il giovane colono ad acquisire una certa manualità e fiducia, il quale si avventurava poi in costruzioni sempre più ardite. Una di queste era costituita dalla trappola: con i suggerimenti ed istruzioni dei più anziani della colonia, si costruiva un buco abbastanza grande, il quale veniva astutamente ricoperto con rami trovati sulla spiaggia, qualche ramo frondoso e quindi ricoperto di sabbia. L’ultimo strato era di sabbia secca, per cui solo un occhio esperto poteva individuare una trappola tipo VietCong. A questo punto scattava l’ardita operazione di invitare una delle ragazze della colonia con richiami vari. Si assisteva allora allo spettacolo di una bambina di 6-7 anni che affondava nella buca, anche se di pochi centimetri. Le lacrime che ne seguivano erano dovute più alla vergogna di essere cadute nel tranello dei maschi più che per motivi ortopedici.

L’acquisizione di superiori competenze idraulico-ingegneristiche conduceva inevitabilmente alla costruzione della pista destinata alle biglie. La pista aveva due tipiche ed immutabili conformazioni: montagna o vigorelli. La montagna era un groviglio di strade con salite e discese costellate di trappole. Chi vi cadeva, doveva ripartire da capo. Le piste erano costituite da torciglioni con salite impennate di montagna, difficili gallerie, tranquilli tratti pianeggianti ed infine passaggi su stretti ponticelli. Sulla pista correvano le palline con i ciclisti, costituite da due emisfere di plastica di colori differenti, con l’immagine di un corridore posta sagittalmente. Le più popolari erano quelle di Coppi e Bartali, ma chi aveva la fortuna di seguire da casa “Il giro minuto per minuto” poteva vantare conoscenze che arrivavano a Nino Defilippis, Louison Bobet, Franco Balmamion, Ercole Baldini e il mitico Charly Gaul, il re della montagna. Queste biglie venivano mosse tramite cricco, il risultato di lunghi allenamenti invernali con le biglie di vetro e le buche. Le biglie di vetro erano mosse con il movimento generato dall’azione del pollice che faceva pressione istantanea sulla biglia tenuta ferma dall’indice. I più bravi venivano identificati come burleur per l’abilità di bocciare le biglie nemiche e raggiungere direttamente la “pina”, termine indicante la buca di meta. La biglia dei giocatori da spiaggia era molto più grossa di quella di vetro (o terracotta) e per di più molto più leggera. Si elaborava allora una tecnica differente basata su dito medio caricato a molla sul pollice, il quale colpiva la leggera pallina in plastica, che poteva così lanciarsi sulla pista tra le sue intrinseche difficoltà.

Dopo la prima settimana, il giovane colono maturava il concetto che le montagne fosse gioco da femmina, non sufficientemente virile per un ambiente che ancora risentiva di passati miti, duri a morire. Si costruiva allora l’epitome del gioco di spiaggia, il vigorelli. Trattavasi di pista ellittica che poteva avere una lunghezza di svariati metri e riproduceva fedelmente il tempio milanese del ciclismo su pista, sul cui parquet si sfidavano i campioni di allora. Noti erano i surplaces di Antonio Maspes, che cercava sempre la partenza in seconda fila per sfruttare la ruota e controllare il duellante.

Per costruire un vigorelli ci volevano secchielli, pale e palette e molto lavoro. I bambini piccoli erano deputati al trasporto e all’accumulo di sabbia bagnata per costruire la componente strutturale più difficile, le curve sopraelevate. I più vecchi provvedevano al disegno del tracciato, alla gettata della pista piana con relativi bordi di contenimento ed infine alla costruzione delle curve, ove si provava l’abilità del lanciatore, ma anche del progettista. Dopo un giro di collaudo, partivano le gare, appannaggio dei più vecchi, con i giovani con l’umile compito di mantenere umida la pista che tendeva a seccare sotto il sole.

Tutto ciò fino alle ore 11:00, l’ora dedicata al bagno. In tempi privi di previsioni metereologiche, vigeva l’inappellabile decisione di Gerardo, il quale valutava sole, onda, temperatura di aria e acqua e direzione del vento (quello chiamato Garbino poteva trascinare i bambini fino all’allora Jugoslavia). Altro riferimento era la bandiera esposta dai rari bagnini: solo quella bianca era compatibile con le abluzioni. Una volta passati positivamente questi criteri selettivi, c’era da superare il test più difficile costituito dalla una valutazione dello stato di salute del giovane colono. La personalized medicine di allora era molto semplificata. I bambini erano allineati in riva al mare e la lingua scannerizzata visivamente: quelli con la lingua “sporca” erano costretti a ritornare sotto l’ombrellone con un umore vicino al suicidio e per di più con obbligo di Euchessina serale. Quindi Gerardo si toglieva la canottiera e dava il colpo di fischio che consentiva ai selezionati di raggiungere le acque. Intanto le Signorine avevano costituito un muro di sbarramento in acque che in genere non eccedevano profondità di 30-40 centimetri.

L’entrata in acqua dei 30 giovani coloni era simile alla carica di Balaclava per impeto e coraggio. Le foto di quegli anni mostrano che alcuni maschi e la maggior parte delle bambine portavano salvagenti a ciambella e – i più ricchi – ad ochetta. Lo strumento era non oggetto di divertimento, ma un reale salvavita di difesa dalle caratteristiche strutturali del costume da bagno. Infatti la lana derivata dalle coperte militari aveva la capacità di assorbire importanti quantità di acqua salata, impregnandone in maniera stabile le fibre. Questo carico provocava frequenti cedimenti strutturali degli elastici impiegati per il sostegno, con imbarazzanti ostensioni di infantili intimità. Quando l’elastico invece teneva e soprattutto nel caso delle bambine con pettorina appesa al collo, la situazione poteva diventare critica. La cromatografia ascendente su fibra di lana portava ad accumuli di acqua pari al 10-20% del peso corporeo dei coloni, nell’ordine di circa 20-25 Kg. Il previdente Gerardo aveva quindi favorito gli acquisti di ciambelle e ochette a scopi di evitare perdite di bambini, anche in acque molto basse.

L’uso del moscone era rarissimo privilegio riservato a chi aveva genitori in visita e con voglia di dedicare tempo e soldi a qualcosa di grande lusso, come erano considerati i giochi dei bambini. E’ chiaro che chi tornava da una gita sul moscone diventava oggetto di fulminanti invidie che potevano durare a lungo, in quanto ci si spingeva oltre la prima banchina, zona di accumulo di sabbia e limite considerato invalicabile da ogni persona di buon senso.

Il bagno terminava quando compariva il segno che la semeiotica medica di allora indicava come prossimità al collasso. Questo era costituito dal raggrinzimento delle dita, oggetto di continue ispezioni durante l’ammollo. Partivano allora i due colpi regolamentari di fischietto e questa volta i bambini si avviavano lentamente e malvolentieri sulla spiaggia e lontano dal desiderato bagno.

Gerardo allora faceva fare una serie di ritmici movimenti noti come ginnastica, che avevano lo scopo di tenere attivo il muscolo e – in maniera non confessata – permettere la conta degli emersi.

Ignoti a quei tempi teli o asciugamani, per cui l’acqua veniva eliminata dal sole e con molta più lentezza percolava dai costumini.

Dopo la parentesi sportivo-balneatoria, il gruppo ritornava alla Vela d’Oro per pranzo ed obbligatoria gabanella.

Il pomeriggio era dedicato al gioco di massima virilità e abilità costruttiva. La trincea nasceva dalla inderogabile necessità di avere il lato Cattolica della Pensione Vela d’Oro protetto. Nessuno ha mai colto la ragione reale di questa strategia á la Maginot, né si erano viste incursioni di pirati o comacchiesi dalla fine della II Guerra mondiale. Suggestivi forse potevano essere i relitti di fortificazioni e blocchi anti-sbarco lasciati dalla Wehrmacht e di costoso smaltimento post-bellico. La trincea si poteva fare a scopo di allenamento sulla spiaggia, anche se mal tollerata per il disturbo dei grandi passeggiatori da battigia, la cui unica e reale professione era di criticare quanto veniva fatto di fuori norma. Comunque i giovani coloni scavavano la trincea. Per fare questo non erano sufficienti le palette e i secchielli convenzionali: era necessario passare al badilino da Lire 500 distribuito ogni mattina dai vu cumprà ante litteram, riminesi che caricavano su una bici un bidone per braccia del manubrio e un terzo sul portapacchi posteriore. Questi container erano pieni di ogni ben di Dio per l’edonismo da spiaggia e venivano reclamizzati con un crudele “piangetebambinichevadovia”. La popolazione della colonia era chiaramente senza soldi e solo Gerardo poteva, ad insindacabile giudizio, consentire spese voluttuarie. Inconfessati accordi pre-partenza consentivano a taluni fortunati l’accesso al sibaritico badilino in lamiera con manico passato al tornio. Naturale complemento era il secchiello grande, di plastica ma robusto e quindi in grado di portare grandi quantità di sabbia bagnata.

La strumentazione d’avanguardia e l’esperienza acquisita nella spiaggia consentivano al passaggio alle dune poste sul lato Cattolica della Pensione, del tutto non frequentata e occupata solamente da erbe, spini e piante in grado di crescere in quella savana. Questo era l’ambientazione ideale per disegnare strutture degne della linea difensive passate di lì qualche decennio prima e che impegnavano la popolazione maschile per giorni e giorni. Le femmine erano escluse a causa di potenziali rischi di cadute (in realtà, per inconfessata misoginia). La trincea vera e propria aveva come coronamento un muro esterno di sabbia pressata, cui venivano messi legni e rami spinosi a formare mini cavalli di frisia. Le retrovie erano costituite invece da scavi profondi, che agivano da ipotetici luoghi di riposo e protezione.

La occhiuta vigilanza di Gerardo e delle Signorine era sempre attiva. Come da protocollo, le Signorine esprimevano sonoramente il loro disappunto per attività tanto faticose, che sporcavano tutti i vestiti e che lasciavano i bambini spossati. Gerardo invece aveva una sua strategia sottile e i ragazzi venivano lasciati a giocare finché non giungeva il buio. Questo era il segnale non negoziabile che si tornava alla Pensione e ci si avvicinava alla cena dopo sommario lavaggio delle mani.

A questo punto intervenivano le arti di Pina, la sorella di Gerardo addetta alla cucina, che gestiva una struttura da stella Michelin. Infatti vi erano gruppi di Italiani e Tedeschi che venivano appositamente per assaggiare lo spaghetto di Pina e il suo pesce fritto.

I bambini mangiavano con vigoroso appetito: la somma di fatica fisica più pranzetto agivano come potente facilitatore del sonno e le Signorine potevano star tranquille che dopo le 21 nessun ragazzo era più sveglio.

Quando pioveva c’era la triste passeggiata, guidato dalle onnipresenti Signorine e con Gerardo in testa. In quelle occasioni, la pancromatica colonia dei bambini della Ferrovia avevano occasione di incontrare le file ordinatissime e serrate di bambini di altre colonie, guidate da rigide suore o da algide schwester. I bambini delle colonie delle Ferrovie, della Stipel, dei dipendenti di strutture statali erano vestiti tutti rigorosamente uguali, dalla testa ai piedi. Lo stesso avveniva per gli accompagnatori. Gli occhi di quei bambini apparivano colmi di tristezza infinita e desiderosi solo di un abbraccio materno e di un ritorno a casa. Elioterapia sì, ma decisamente sofferta.

Gerardo conosceva perfettamente tutte queste cose, sapeva che a quel tempo i bambini non si muovevano affatto e per questo la mancanza di casa era spesso lancinante. I più fortunati alla Domenica provavano un tuffo al cuore quando scorgevano arrivare uno o entrambi i genitori con Vespe e Lambrette: i più organizzati arrivavano il Sabato e si fermavano a dormire. Il mese che sembrava non passare mai di colpo assumeva vivacità e corse dinamiche, con il solo rammarico del momento della partenza. Gerardo sapeva benissimo tutto ciò e cercava in tutte le maniere di mantenere vivo il contatto con casa. Le cartoline partivano con aiuti di scrivani più anziani e i servizi postali dei tempi assicuravano che queste raggiungessero destinazione in un giorno. Le famiglie rispondevano altrettanto velocemente, con attenta osservazione del numero dei francobolli da usare. La posta veniva data durante il pranzo e Gerardo dispensava le cartoline ai fortunati destinatari, tronfi di queste attenzioni. Le cartoline venivano lanciate ed era un piacere da volley raccogliere i saluti e i baci da casa.

Però Gerardo sapeva che anche questo non era sufficiente: la freddezza del mezzo postale andava sinergizzata con qualcosa di più caldo e interattivo. E qui apparve il magnetofono, antico termine indicante registratore a nastro. Per ragioni non note ai più, Gerardo riuscì a trovare un registratore Geloso che colpì immediatamente l’attenzione dei bambini quando videro i tasti verdi, bianchi e rossi mossi con maestria dal mago Gerardo. Gerardo chiedeva alcune cose, si avvicinava innocentemente ai bambini e questi rispondevano in base ad umore e domanda. Il dato che i bambini non sapevano è che la pressione simultanea del tasto verde e del tasto rosso faceva registrare quanto detto. La cosa poteva finire lì, ma era una sorpresa duplice e basata su strategie a tappe multiple. Il magnetofono e relativo nastro raggiungevano la Direzione della Ferrovia e poi Sermide: alcuni fortunati genitori potevano sentire in anteprima le voci dei bambini al mare, che sembravano a mille chilometri di distanza.

La settimana successiva uno dei figli di Menani tornava a Riccione con un carico segreto. Al pranzo della Domenica c’era la convenzionale sorpresa, ormai non più tale: arrivava il camioncino dei gelati e i bambini FSF avevano un extra ben diverso dalle mense delle grandi colonie. E qui Gerardo estraeva la sua bacchetta magica, il mitico magnetofono, stavolta caricato con le voci di alcuni genitori che mandavano antesignani messaggi vocali via nastro.

Però casa è casa e un sospirone di sollievo sorgeva tra i 30 coloni quando arrivava la notizia che era tempo di andare dal barbiere. Quegli anni erano caratterizzati da nuche pulite, taglio alto del capello, all’“Umberta”, che faceva pulito e ben tenuto. Quelle giovani nuche sarebbero state al ritorno un’attrazione fatale per le maestre dei paesi di origine, per correzioni montessoriane di errori e abitudini malsane.

I bambini si lasciavano andare a scene di eccitazione e di entusiasmo, quello era il segno sicuro che il giorno successivo ci sarebbe stata la partenza ed il ritorno a casa. L’eccitazione continuava nella notte e quella era l’unica in cui le Signorine dovevano esercitare il loro severo imperio per ottenere una qualche forma di disciplina. I bambini sarebbero tornati belli abbronzati, muscolosi e scattanti e con un piacevole sapore di salmastro, complici anche le non frequentissime abluzioni del tempo.

Il ritorno sarebbe stato speculare rispetto quanto visto all’andata e anche stavolta ci sarebbe stato il direttissimo Adria-Express del mattino, che partiva in forte composizione da Rimini al traino di una 685. Il grattacielo di Ferrara era il segnapassi del “siamo quasi a casa”. Sul quinto binario della Stazione c’era la 72 con i motori accesi e il suo tranquillizzante colore isabella, pronta a restituire alle case bambini e bagagli. In realtà i bagagli si limitavano al sacchettino azzurro con numero, ove spesso però c’era spazio per una conchiglia dipinta con Madonna oppure di una palla di neve in vetro. Ancora un’ora o due e tutti sarebbero giunti a casa. Al “15” ci sarebbero state tagliatelle in brodo ottenute fini con la coltellina derivata dalla falce, la gallina lessa con peperoni e cetrioli a fette spesse. Il pranzo contemplava l’anguria tenuta nel pozzo come complemento rinfrescante. Felicità per il corpo, ma anche per l’anima per un ritorno tanto desiderato.

Fabio Malavasi

Flavio Tiengo

 

P.S.: Si ringraziano le Famiglie: Menani, Negrini, Banzi, Bottoni, Cappi, Galli, Marchini, Santini e Arrivabeni per aver messo a disposizione le immagini della colonia