GENOVA LABORATORIO O SCUOLA D’ACCATTONAGGIO?

“Laboratorio Genova” è l’allarme -per alcuni il grido di speranza- che si è diffuso sulle tastiere degli opinionisti il terzo o quarto giorno dello sciopero (selvaggio, cioè penalmente perseguibile) del trasporto urbano. La metropoli della Riviera -un po’  immelensita, va detto, dai troppi pensionati, velisti da diporto e altri gagà- è stata vicina all’infarto e a qualcuno è sembrata avvisaglia di insurrezione: insurrezione non solo in quello che fu il nostro grande polo portuale ma anche nel migliaio abbondante di città che nello Stivale gestiscono tram, autobus e funicolari attraverso proprie società; il 40% delle quali vengono dette sul punto di portare i libri in tribunale: tecnicamente fallite.

Allora ci si chiede, Genova laboratorio di che? La risposta istintiva sarebbe: laboratorio di risposta anticapitalista alla grande crisi. Ma no: i più riluttano a ricorrere ai termini e ai concetti imparentati con la rivoluzione. Non sarà, piuttosto che un piano di rivolta, la reiterazione di un corso di accattonaggio per estorcere fondi a Roma? Nel suo Notre Dame de Paris  Victor Hugo faceva svolgere nella Corte dei miracoli di un Medioevo fantastico e pauroso dei veri e propri seminari di mendicità: i veterani insegnavano ai giovani come mendicare con successo. A questa didattica ci sembrano assomigliare i Vespri genovesi.

A suo tempo tumultuarono i camalli, gelosi dei privilegi che conservavano e contribuivano a dirottare i flussi di traffico su altri porti. Oggi, meno anacronisticamente, il ferro di lancia del combattimento genovese sono i conducenti dei  mezzi pubblici e altri comparti che da un’eventuale privatizzazione temono la perdita di job, fatturato e  larghezze. Per chi il posto lo conservasse,   ci sarebbe la minaccia alle molte dolcezze di una gestione egemonizzata dai partiti. In tutte le imprese di questo tipo i politici, dal 1945, comprano i voti a spese dei bilanci, cioè dei contribuenti.

Il trasporto urbano, quando gli addetti sono troppi e i biglietti si vendono a prezzi parapolitici, accumula passivo quasi dovunque: a Genova debiti per 400 milioni, a Roma per 1600 milioni. Ai Ciompi genovesi le perdite non interessano: il contribuente intervenga, cioè ripiani i debiti. In questi giorni si è affermato “la popolazione genovese solidarizza coi tranvieri”. Forse  non è vero. Se invece fosse vero, sarebbe la manifestazione di una malattia tra le più gravi. Vorrebbe dire che la metropoli è ai piedi di Cristo, appesa a un filo.

Ancora verso la fine del Novecento era caposaldo del Triangolo industriale e il gigante degli scali italiani. Nel passato remoto aveva finanziato gli exploit della Spagna quando era prima in Europa e dominava il Nuovo Continente dal Messico e dalla Florida in giù. Tra l’anno Mille e gli inizi del secolo XV la Superba aveva messo insieme un piccolo impero nel Levante e nel Tirreno. Perse il gusto della potenza nel 1401, quando fu conquistata da Carlo VI di Francia. Il grande Andrea Doria avtebbe restituito ai genovesi una sia pur circoscritta sovranità nella sfera spagnola. Nel 1815 il congresso di Vienna liquidò le illusioni assegnando Genova ai Savoia.

Fino a qualche decennio fa continuavamo ad ammirarne il grande scalo e un polo di industrie. Oggi Genova si è ridotta a vivere sulle buste paga e sull’indotto di entità declinanti, quando non tenute vive nel polmone d’acciaio. Di suo, oggi, mette quasi niente. E’ un continuo chiedere allo Stato, cioè alle tasse e alle accise di tutti.

Non saranno teneri con Marco Doria, il loro successore vendoliano, il doge verdiano Simon Boccanegra, protagonista del Trecento, e il grande antenato Andrea Doria. Vedremo gli sviluppi. Per ora il Marco che si ispira a Nicky e piace alle vedove scervellate proprietarie dei bei palazzi della Genova “camalla e borghese”, ha rinnegato il proposito di privatizzare, cioè di risanare. In conformità all’insegnamento del suo mentore, il vezzoso governatore barese, il Doria minore sembra darla vinta agli ultrà cui i conti della loro impresa non interessano.

Essi non fanno proposte operative. Non accettano di campare coi sussidi che bisognerà tassativamente garantire a tutti i disoccupati, e ottenere i quali sarà una vittoria grossa. Meno che mai gli ultrà pretendono la proprietà e la responsabilità dell’azienda (infatti Vendola e il Doria minore sanno come finì sotto il sardonico Giolitti l’occupazione gramsciana delle fabbriche a Torino). I lottatori della fu Superba si contentano di poco: restare a libro di un’azienda che passi le perdite agli altri.

Porfirio