Noi e gli altri. Nel momento in cui la diversità italiana minaccia di sfociare, una volta di più nella storia nazionale, in esiti catastrofici, può sembrare ozioso ovvero maniacale e persino masochistico insistere a paragonare la situazione del paese con quelle altrui. Eppure continua invece ad apparire utile, e comunque quasi obbligatorio a causa di straordinarie coincidenze temporali che propongono vistosi contrasti tra somiglianze non sempre solo esteriori e, appunto, differenze talvolta macroscopiche
Fino a non molti giorni fa, rispetto al momento in cui scrivo, si levava immancabile sui media il pianto greco per il confronto con la Spagna in fatto di spread. Il nostro tornava a salire e il loro cominciava a scendere dando luogo ad un ennesimo sorpasso ai nostri danni da parte di un paese economicamente più debole del nostro e più duramente colpito dalla crisi sotto ogni aspetto. La cugina latina, certo, pare stia già uscendo dalla recessione e riprendendo a crescere mentre per noi, nonostante i conclamati segnali di svolta, questa tarda ad avverarsi.
Ma è ancora più certo, e del resto risaputo, che la causa principale dell’incongruenza è un’altra. Con tutti gli errori anche molto gravi compiuti dai suoi governanti nel passato recente e meno recente, la Spagna beneficia di un sistema politico funzionante che non ha subito mutamenti di rilievo in tutto il tempo trascorso dalla morte del caudillo Francisco Franco e conseguente avvento di un regime democratico. In poco meno di quarant’anni si sono alternati al potere a Madrid i due partiti maggiori, più o meno di destra l’uno e di sinistra l’altro, secondo uno schema predominante da ancora più decenni quando non (Gran Bretagna) da secoli nell’Europa occidentale come negli Stati Uniti.
Qualcuno potrebbe obiettare che la stabilità troppo prolungata genera immobilismo e sclerotizzazione, ostacolando i necessari rinnovamenti. Dovrebbe però indicarci quali tangibili vantaggi l’Italia abbia ricavato dalla sua peculiare forma di creatività. Grazie ad essa neppure nella cosiddetta Seconda repubblica i governi sono riusciti a durare per intere legislature, mentre ci si accorge non senza sorpresa che il partito più anziano è la Lega Nord, peraltro puntualmente dilaniata dai contrasti intestini, già ridotta ai minimi termini e forse non lontana da un decesso relativamente precoce.
Resta naturalmente da vedere se la Spagna ben più stabile politicamente saprà davvero risollevare in modo durevole un’economia troppo presto e con troppa leggerezza coralmente esaltata come un modello, rivelatosi quasi di colpo fasullo. Un’affidabilità di base continua a meritarsela, benchè rischi di finire smentita da operazioni avventate come l’acquisto dell’italica Telecom da parte della sua ancor più indebitata Telefònica.
Il caso limite agli effetti del confronto non è però la repubblica iberica bensì, verso l’altra estremità del Mediterraneo, sofferente su ogni sua sponda, quella ellenica. Vittima di un collasso ancora peggiore di quello spagnolo, la culla della democrazia ne offre oggi una versione non certo esemplare. Tra i partiti maggiori che l’hanno interpretata non è mancata, ad Atene come a Madrid, una normale ma per nulla salutare alternanza, che non ha impedito l’accumularsi di comuni e gravi responsabilità, anche di rilevanza morale e penale, per la crisi abbattutasi sul paese.
Benchè si tratti del membro economicamente più fragile dell’Europa occidentale e sulla cui capacità di risalita dal baratro permangono forti perplessità, leggiamo adesso, per dire, sul “Wall Street Journal” che la situazione greca desta minori preoccupazioni di quella italiana. Se osservatori così competenti possono arrivare a tanto, lo si deve evidentemente al fatto che i due partiti di cui sopra si stanno sforzando di salvare il paese (e con ciò stesso, se si vuole, di redimersi) collaborando con apparente convinzione nel quadro di un’alleanza governativa pur aggressivamente contestata da robuste opposizioni di destra e di sinistra.
C’è naturalmente modo e modo di uscire dalle crisi, compreso quello di far quadrare i conti appagando Olli Rehn e Wolfgang Schäuble ma mantenendo alta o gonfiando ulteriormente la disoccupazione (in Spagna tradizionalmente almeno doppia di quella italiana), affamando grosse fette di popolazione nonchè falcidiando, come in Grecia, servizi e dipendenti pubblici e permettendo invece ai più facoltosi (neppure ad Atene e dintorni mancano i nababbi) di mettere in salvo offshore i loro capitali.
Qualche residuo credito quanto meno di buona volontà va comunque concesso ai governanti di Atene come a quelli di Madrid prima di procedere con i confronti. Mentre a Roma la coalizione delle larghe intese, claudicante da subito, ha cominciato a traballare dopo solo pochi mesi, forme analoghe di connubio tra le maggiori forze politiche sono in procinto di nascere o di prorogarsi altrove senza bisogno di gravi o gravissime emergenze nazionali. Avviene in Germania, isola di buona salute in un’Europa più o meno seriamente malata, e nella piccola Austria, che non è da meno della grande vicina settentrionale e per qualche aspetto addirittura la supera; ad esempio, con una disoccupazione e un debito pubbilco ancora più bassi.
Sono due casi parzialmente diversi. In Austria la “grande coalizione” tra socialisti e popolari presenta un carattere quasi istituzionale avendo governato, dal 1945 a oggi, per periodi più lunghi di quelli coperti da gabinetti monocolori o alleanze governative meno ampie. La sua funzione è stata, dapprima, quella di puntellare la solidarietà nazionale, dopo il ritorno all’indipendenza perduta con l’annessione al Terzo Reich, durante l’occupazione militare del paese (fino al 1955) da parte dei vincitori della seconda guerra mondiale, seguita dalla neutralità obbligatoria tra Est e Ovest durante la “guerra fredda”.
Dopo la caduta della “cortina di ferro”, che rimosse gli ostacoli all’adesione alla Comunità e poi Unione europea, una sua ragion d’essere è stata ritrovata nell’esigenza di fronteggiare l’indebolimento di entrambi i partiti maggiori e la corrispondente ascesa di vecchie e nuove formazioni soprattutto di estrema destra all’insegna del populismo e dell’antieuropeismo, vistosamente confermata anche dalle recenti elezioni. Non manca tuttavia, né a Vienna né altrove, chi addebita almeno in parte il declino dei due grandi alleati proprio ad una consociazione logorata dal tempo e da cattive abitudini agevolate dalla detenzione troppo prolungata del potere.
A Berlino, come prima a Bonn, la risorsa della “grande coalizione” tra cristiano-democratici e socialdemocratici è stata utilizzata molto meno che a Vienna, ossia solo per periodi relativamente brevi e in fasi di particolare difficoltà interna o esterna per la Repubblica federale, prima e dopo la riunificazione nazionale. O, semplicemente, per rimediare sempre in via provvisoria a risultati elettorali tali da non consentire la conferma o la nascita di coalizioni meno ampie e più omogenee, come potrebbe accadere dopo la netta vittoria della CDU-CSU di Angela Merkel, privata però dell’appoggio del partito liberale che il voto del 26 settembre ha escluso dal Bundestag.
Simili funzioni sono state assolte in modo nel complesso soddisfacente per tutti, tanto da conferire alla Grosse Koalition il rango anche qui quasi istituzionale di carta da giocare pressocchè automaticamente quando necessario, senza entusiasmo da parte di nessuno ma neppure con soverchi patemi. La Merkel, accusata da qualche parte di essersi spostata un po’ troppo verso sinistra nel corso dell’ultima legislatura, avrebbe certamente preferito continuare con il sostegno della FDP e il conseguente vantaggio di poter scaricare su di essa la colpa, addebitatale da parti opposte, di qualche eccesso destrorso. Ma non ha fatto drammi, pronta del resto a trattare eventualmente anche con i Verdi, fino a ieri considerati quasi più a sinistra della SPD.
Non occorre abbracciare la visuale di Beppe Grillo (PD=PDL senza L) per rendersi conto che il quadro politico italiano, a ben vedere, non è poi così radicalmente diverso da quello tedesco, guardando ai programmi, alle posizioni e agli orientamenti dei partiti maggiori sulle tematiche concrete, da precludere costruttive ancorché temporanee convergenze almeno quando si tratta di scongiurare l’ennesima catastrofe nazionale. Le diversità e, se si vuole, inconciliabilità delle ispirazioni di fondo non sono verosimilmente scomparse ma non sembrano arrivare al punto da renderla più appetibile di qualche compromesso.
Assistendo (sempre più malvolentieri) allo spettacolo ormai inqualificabile dei talkshow televisivi si ha persino l’impressione, talvolta, che l’ormai abituale gazzarra nella quale affoga la stessa comunicabilità sia proprio il frutto della comune difficoltà di differenziarsi gli uni dagli altri, sui problemi di sostanza, abbastanza per guadagnarsi le preferenze degli elettori. Quando le distanze tra gli antagonisti erano molto maggiori, tra la DC di De Gasperi o di Moro e il PCI di Togliatti o di Berlinguer il confronto-scontro era più serrato ma più civile, più aspro ma più credibile, e comunque non precludeva responsabili convergenze di portata persino epocale.
Adesso succede il contrario di quanto sarebbe sensato aspettarsi. Anzichè limitarsi a fare lo stretto necessario per superare l’emergenza o lo stallo e per aggiustare le regole del gioco ci si pongono obiettivi più ambiziosi straparlando, almeno da una parte, di pacificazione nazionale dopo una guerra civile ventennale pensando sempre e solo, o soprattutto, ai consensi popolari. Ed escludendo peraltro dai programmi, qui chiaramente di comune ancorché tacito accordo (e non senza la prevalente connivenza dei media) le doverose e urgenti risposte a quanto il popolo, benchè ancora parecchio accecato, altrettanto chiaramente chiede votando in gran numero per i pentastellati: la ripulitura della politica e degli affari dopo gli scandali a valanga, la decimazione dei privilegi della casta, una lotta a fondo contro corruzione e criminalità.
Avevo cominciato questo articolo prima dell’impareggiabile sequenza di colpi di scena che ha portato al salvataggio di un governo delle larghe intese apparentemente destinato a cadere. Che si tratti di un salvataggio relativamente duraturo rimane quanto meno dubbio, e il dubbio non è dei più angosciosi dato quanto si è visto fino a ieri. Altrettanto incerto è che il massimo statista della seconda repubblica, l’uomo che per naturale generosità e puro patriottismo più fortemente di tutti ha voluto le larghe intese, sia stato messo davvero al tappeto per la conta finale dai colpi della magistratura prima che da quello di grazia infertogli, forse, dagli emuli del Gran Consiglio di 70 anni fa. Che peraltro, giova ricordarlo, disarcionò il Duce ma non al cento per cento.
Se il mago di Arcore finirà effettivamente giubilato, può darsi che il governo delle larghe intese riesca a dimostrare, come molti sperano, un minimo di credibilità e costruttività cancellando così una delle tante e più importanti anomalie della politica italiana. Beninteso, non è il caso di farsi soverchie illusioni. Sono anomalie, con le conseguenti disfunzioni e inadempienze, che hanno salde radici nel passato anche lontano e che il maggiore protagonista dell’ultimo ventennio non ha estratto dal suo cilindro ma solo ingigantito ed esasperato. Dopotutto, era già un’anomalia che in un simile personaggio la maggioranza degli italiani abbia creduto così a lungo, pur con qualche momento di perplessità, e lo è ancor più che una parte tuttora cospicua di essi continui a credergli.
Franco Soglian