La tradizione del viaggio in Italia, che connotò in modo moderno l’attrazione della Penisola sulla cultura transalpina, cominciò probabilmente nello scorcio del Seicento, con la lunga permanenza di studio da noi di Jean Mabillon, rinomato benedettino della parigina abbazia di Saint-Germain-des-Prés, a quel tempo la maggiore scuola di ricerca storica in Europa. In quello stesso 1685, anno dell’epocale revoca dell’editto di Nantes (seguirono la Notte di San Bartolomeo e la strage degli ugonotti), venne lo scozzese Gilbert Burnet di Cambridge, futuro vescovo di Salisbury. In patria si era scontrato con prelati, con ministri e con un sovrano per affermare una sua linea politico-religiosa, intesa soprattutto ad avvicinare anglicani e presbiteriani nel comune impegno antipapista e ‘progressista’.
Le esplorazioni di intellettuali stranieri si moltiplicarono: Bernard de Montfaucon francese; l’olandese Georg Graef (Graevius), che in vent’anni pubblicò 44 volumi in folio; poi una schiera sempre più fitta di visitatori colti. Pietro III, giovane zar di Russia, cercò nell’Adriatico prima che in Olanda e che in Inghilterra i mastri e i marinai per la nascente flotta del suo impero. In più nel 1696 mandò in viaggio di apprendimento un grosso manipolo di nobili russi: 39 in Italia contro 22 in Olanda e in Inghilterra. Resteranno incisive le osservazioni sull’Italia di inglesi di rango come Joseph Addison e lord Shaftesbury.
Col Settecento il commercio intellettuale coll’Europa si intensifica al punto da perdere un po’ di rilievo. Quando nel 1799 il presidente De Brosses pubblica in volume le sue Lettres familiales sur l’Italie suscita interesse ma non scalpore. Il grande Montesquieu ha già impressionato l’Europa coi suoi pensieri sulla patria di Virgilio.
Se gli eletti spiriti fin qui evocati tornassero in Italia oggi, troverebbero un paese senza confronti meno povero e meno inerte, però smarrito, moralmente desolato come al loro tempo. La missione di Mabillon, 328 anni fa, trovò una classe dirigente prigioniera del sussiego, del formalismo, della fiacchezza, dell’indifferenza alle grandi questioni che appassionavano e sconvolgevano l’Europa. “On n’y pense qu’à campare (…) c’est a dire qu’à ce qui peut servir à s’avancer et à se mettre à son aise. Un habile homme est celui qui, comme disait un cardinal, sa camminare. Je ne sais pas, disait-il, ni la théologie ni l’histoire ecclésiastique, mais je sais vivre, et vivre à la cour”.
L’allora misero stato della nostra economia impressionava i viaggiatori.
“The richest countrey in Europe -scriveva Burnet, l’ecclesiastico scozzese- era in realtà “full of beggars”. Ma anche più grave era che “men of searching understanding, who have no other idea of the Christian religion but that which they see received among them, are naturally tempted to disbelieve”. Oltre a tutto, atei!
“Cotesta è una miserabile ed infingarda nazione, degna d’essere trattata come schiava, e ricolmata di opprobi e di sciagure” scriveva il cardinale Giulio Alberoni all’epoca del proprio tentativo di riconquistare la Penisola alla Spagna, che governava sotto Filippo V. Notava E. de Silhouette, personalità francese degli anni di Luigi XV, che “à la vertu, à la droiture, ont succédé la souplesse, la dissimulation, l’amour des voluptés et du repos”. Per esempio a Venezia “le Sénat contente le peuple en le laissant vivre dans l’oisiveté et dans la débauche”.
Tra il 1727 e il ’28 il barone di Montesquieu trova “une nation autrefois maitresse du monde, aujourd’hui esclave de toutes les autres”. Eppure, notava il nostro storico Franco Venturi, “Italiam, Italiam” furono le ultime parole del suo capolavoro, L’Esprit des Loix.
Francesco Algarotti rivendicava che “dopo la comune barbarie d’Europa, gli italiani apriron gli occhi prima delle altre nazioni. Quando gli altri dormivano ancora, noi eravamo desti. Le altre nazioni dominano ora, noi dominammo un tempo”. Se quella di Algarotti fosse una ‘legge’ storica -osserviamo noi- non sarebbe verosimile che gli italiani si destassero di nuovo, e inventassero e sperimentassero nuove forme del vivere associato?
Però nei secoli XVII e XVIII, per gli altri europei così intensi, gli italiani “nutrivano un profondo desiderio di quiete e di conservazione. Contavano sull’astuzia, la manovra, le altre armi dei deboli e degli oppressi”. Il cardinale Alberoni aggiungeva: “L’effeminatezza della nostra nazione è arrivata a un’infingardaggine troppo sporca, a essere oggi l’abbominazione di tutte le nazioni”.
Allora, che Italia troverebbero i dotti visitatori di tre secoli fa? Straricca certamente, a confronto con quella che conobbero. Riempire la pancia tutti i giorni era l’anelito dei popolani d’allora. Possedere due seconde case con altrettante superflue cantinette è l’anelito dei lavoratori d’oggi. I vizi antichi sono rimasti. Al posto delle corti principesche che opprimevano lo Stivale -la peggiore era quella del papa-re, al Quirinale- abbiamo i partiti usurpatori e ladri, i poteri forti, le prevaricazioni della feudalità manageriale e quelle del sindacalismo, le combutte e gli amalgami tra ipercapitalismo e edonismo/consumismo. Abbiamo un gioco politico scellerato, oltre a tutto sopraffatto dagli interessi personali di un magnate vizioso, un gioco condizionato senza speranza dal ricordo delle malazioni e del settarismo della sinistra di un tempo. A valle della condanna definitiva di Berlusconi al carcere c’è chi prevede una sua vittoria elettorale: tali sono il disgusto e la diffidenza che persistono nei confronti di tutte le varianti della sinistra. Tutto, persino Berlusconi, piuttosto che il sinistrismo e i suoi derivati.
La doppiezza, il cinismo, le cento turpitudini dell’Italia machiavellica, curialesca, lazzarona, incline a servire tutti i padroni, sono sempre tra noi. Il papa non è più il peggiore dei principi secolari; al contrario è teoricamente possibile che Bergoglio si faccia bonificatore di una nazione così a portata di mano, invece che della sola Curia romana e degli altri acquitrini della Chiesa:
Ma il Borbone regna ancora. Non più da Capodimonte ma dal Quirinale, una reggia costosa quale Obama non può permettersi. Se la permette un ex-notabile stalinista fattosi gestore della partitocrazia, del continuismo, della proprietà, della sottomissione a Washington. Dal momento della caduta del governo Berlusconi, il Borbone ha ingaggiato un tecnocrate di chiara fama, col mandato di scongiurare la bancarotta dello Stato (o meglio, del regime che se ne impossessò nel 1945). Evitata, o forse allontanata, l’insolvenza coll’appesantimento fiscale di massa, si profilò la possibilità che la gestione dei tecnici risultasse stabilmente preferibile a quella dei cleptopolitici professionisti. Ergo il Borbone tolse al tecnocrate l’appoggio della partitocrazia da lui presieduta, e reinsediò quest’ultima.
Settant’anni dopo la caduta di Mussolini, la rigenerazione etica promessa dai suoi successori è un miraggio altrettanto lontano quanto la palingenesi invocata nei secoli da alcuni spiriti eletti. A livello morale, lo Stivale resta quello che muoveva a compassione, o a ludibrio, i viaggiatori del Re Sole e del secolo dei Lumi.
Milano, un tempo capitale morale, è decaduta a showroom della moda pederasta e della turbofinanza. Ha trascinato nel declino la Lombardia, ormai centoventottesima in Europa per competitività (la puntata sul denaro e sul lusso non ha pagato). Quasi ogni giorno nello Stivale un’impresa tenta di trasferirsi all’estero, di solito impedita dai carabinieri o dalla sopraffazione fisica delle maestranze. La Corte costituzionale proibisce di operare piccoli prelievi su pensioni 60 volte superiori a quelle minime, e ciò nel nome dei ‘diritti acquisiti’, una manomorta medievale che andrebbe cancellata ma è un pilastro del sistema Italia. Le retribuzioni dei vertici della burocrazia sono altrettanto scandalose quanto quelle dell’alto management privato. Oltre al primato della corruzione abbiamo quello delle spese di rappresentanza e di vanagloria (il Quirinale! la diplomazia da operetta!). Le spese militari e il vassallaggio agli USA si perpetuano sotto il governo di ex-comunisti come D’Alema e Napolitano, o di loro soci come Prodi e Letta. In breve, non c’è nequizia che venga risparmiata alla parkinsoniana d’Europa.
Nulla mai cambierà senza un fatto tellurico pari al sorgere di un Profeta che fece di alcune tribù beduine un nuovo impero e una nuova civiltà. Magari sarà un Profeta collettivo, forse annunciato da una successione di precursori. I visitatori elitari prendano tempo prima di tornare in Italia.
l’Ussita