MARIO MONTI RIAVREBBE UN SENSO SOLO CONTRO IL SISTEMA

Fino a qualche mese fa si poteva pensare che lo statista più fallito della storia contemporanea d’Europa fosse stato, nella Spagna degli anni Trenta, Manuel Azagna. Non aveva fondato da solo la Seconda Repubblica iberica -la Prima, del 1873, era morta due anni dopo- però arrivò a impersonarla (così come Francisco Franco riuscì in pochi giorni  a farsi egemone della ribellione militare). L’ascesa di Azagna, un saggista con pochi lettori e il leader di un piccolo partito, era stata meteorica. Nemmeno tre mesi dopo essere diventato capo del governo si fece eleggere presidente della Repubblica. Da quel momento, 10 maggio 1936, e per tutta la Guerra civile Manuel Azagna fu una non-presenza. Nel suo campo fecero tutto gli altri: Largo Caballero, Negrin, Dolores Ibarruri, per ultimo Togliatti e altri emissari moscoviti. Alla morte della Repubblica riparò in Francia a piedi, confuso nel mare dei fuggiaschi.

Era pensabile che nessuno avrebbe battuto in negatività il governante che alla vigilia della tragedia aveva così riassunto la terribile vicenda della sua nazione: “La classe lavoratrice spagnola è materiale grezzo per un artista”. E, appena nata la Repubblica: “Brucino tutte le chiese di Spagna piuttosto che si rompa la testa a un repubblicano”.

Ma venendo a noi,  che pensare di Mario Monti? All’avvio della sua azione era apparso il Superuomo, capace di deviare la storia, l’artefice di un’alternativa epocale: i signori del know how al posto dei politici truffaldini. Oggi l’ex-Gran Visir della dottrina e della conduzione, lo statista di rango continentale, risulta miniaturizzato. Ridotto a misura poco più che lillipuziana. Un Luigi Facta (tentò di fermare la Marcia su Roma) di novant’anni dopo. In teoria, un giorno potrà  rivelarsi la grande riserva della nazione (così de Gaulle designava Pompidou), persino dell’Europa. Al presente è come non esistesse. Precipitato dai cieli come Lucifero.

Mario Monti si è letteralmente cancellato per aver creduto che il dilemma italiano avesse solo due corni: bancarotta o salvezza, nella continuità  istituzionale. Invece si offriva una terza strada, la forzatura della legalità nel superiore interesse del Paese. Il Mario Monti del 2011 era da solo un Comité de Salut public, come nel 1793 rivoluzionario. Era il Demiurgo, l’uomo che senza pieni poteri non aveva senso. Insediato a palazzo Chigi dal calcolo volpino di chi temeva, oltre al disastro alla greca, un 25 luglio della partitocrazia, Mario Monti avrebbe dovuto trovare la tempra dei tempi eccezionali: disobbedire alle regole d’ingaggio; superare le limitazioni del potere esecutivo; governare, non riferire alle Camere. In caso di improvvisa sciagura nazionale non avrebbe trascurato le prassi e le regole, non avrebbe sospeso il parlamento e altre istituzioni di manomorta?

La Carta costituzionale avrebbe vietato, ma la cosa non doveva contare. Summum jus summa iniuria. Nell’ora del pericolo le tavole della legge si accantonano. Quando ricorreva al Dictator, la Roma dei Quiriti sospendeva tutte le magistrature. E sono pari a quelli di un sovrano, in caso di necessità, i poteri del presidente USA (alcuni Padri Fondatori lo avrebbero voluto Re, un re da secolo XVIII).

Monti il legalitario credette di poter governare, nella sostanza, contro i partiti padroni delle istituzioni e dei meccanismi, cioè del regime, col sostegno di essi partiti. L’equivoco è durato pochi mesi, dopo di che la cosa pubblica è stata riconsegnata in toto ai suoi devastatori, essi sì fuorilegge e potenziali imputati di Norimberga.

Un aggravamento estremo dell’economia potrà forse richiamare in servizio il generale sconfitto. Ma dovrà rifiutare, se il mandato non sarà opposto a quello che lo condannò alla disfatta.

Antonio Massimo Calderazzi