Volge al termine mentre scrivo l’ottavo Festival dell’economia di Trento. Gli faccio sinceri auguri di successo anche se mi sembra che in quel campo ci sia poco da festeggiare. Gli auguro e mi auguro, soprattutto, che riesca a fare luce su un tema che, se ho ben capito, doveva campeggiare nelle relazioni e nel dibattito: l’euro, la sua salute e le sue prospettive, in generale e in particolare per quanto riguarda l’Italia. La quale, guarda caso, appare sempre più divisa anche sul che farne, ripudiarlo o tenerselo bene stretto confidando che i vantaggi risultino superiori ai costi.
Una questione, anzi un dilemma, tanto scottante e forse persino vitale quanto estremamente bisognoso, appunto, di chiarimenti Le diverse posizioni vi si fronteggiano infatti in un modo ormai familiare: esponendo, quando va bene, ciascuno le proprie ragioni ma ignorando quelle altrui. E ciò non solo nel confronto tra politici, cosa non troppo sorprendente, ma per lo più anche tra esperti. Il risultato è un dialogo tra sordi che non aiuta per nulla a cogliere anche solo i termini del problema chi non è abbastanza attrezzato per risolverlo mentalmente con mezzi propri.
Eppure anche i non attrezzati, tra i quali mi colloco, potrebbero essere chiamati a pronunciarsi, quindi a contribuire a decidere, se andassero a buon fine le proposte, ventilate da Movimento cinque stelle e Lega nord, di demandare al popolo lo scioglimento del nodo mediante referendum. Proposte a mio avviso insensate, trattandosi di questione molto più tecnica e complessa, ad esempio, di quella nucleare, dove la scelta si poneva tra convenienza economica ed anche ecologica alquanto sicura e rifiuto di un rischio al limite mortale. Proposte, d’altronde, rese minimamente plausibili, come un ricorso al pari o dispari, proprio dalla difficoltà al momento totale di venire altrimenti a capo del dilemma.
Sarebbe tuttavia grave se all’espediente referendario si finisse col ricorrere per l’incapacità di tecnici e di politici di concordare soluzioni più ragionate. E se, alla prova delle urne, finissero col prevalere tesi e argomentazioni non più valide e forti di altre ma di più facile presa a livello popolare, ossia di maggiore carica populistica e demagogica.
Il pericolo incombe non solo in Italia. L’euro e la stessa Unione europea sono sotto tiro un po’ dovunque, al punto da rendere alquanto riduttivo il termine “euroscetticismo” usato riguardo ad entrambi. Più che di scetticismo si tratta di autentica e crescente disaffezione, da una voglia di abbandonare entrambi controbilanciata solo da quella di entrarvi che persiste, a malapena affievolita in qualche caso, nell’Europa postcomunista. Nella parte occidentale del continente governi e opinioni pubbliche restano attestati in maggioranza sull’europeismo tradizionale, ma in posizioni eminentemente di difesa resa anch’essa ardua dal modo poco convincente e incoraggiante in cui le istituzioni comunitarie e gli stessi governi hanno combattuto finora la crisi finanziaria, economica e sociale.
In Italia, comunque, il pericolo è particolarmente serio dati i precedenti e le inclinazioni nazionali. Esso si profilava già durante l’anno abbondante del governo Monti, quando, oltre che dalle file dell’esile opposizione parlamentare ed extraparlamentare, anche da vari ambienti della maggioranza formalmente vasta che a suo modo lo sosteneva si levavano voci “euroscettiche” sempre più sonore. Accomunando, soprattutto benchè non esclusivamente, le frange più lontane dal centro e per loro natura più scalpitanti degli schieramenti di destra e di sinistra.
Succede anche altrove. Persino nella virtuosa Germania, accusata da non pochi di essersi arricchita a spese dei malcapitati soci e di puntare ancora una volta a dominare l’Europa servendosi dell’euro e della UE, sta affiorando un’inedita ostilità ad essi all’interno della socialdemocrazia o nei suoi pressi dopo la comparsa di un partito apertamente e programmaticamente antieuropeo alla destra della coalizione governativa. Da un lato, però, ciò tende a smontare implicitamente le suddette accuse. Dall’altro non autorizza a pensare che gli “euroscettici” nostrani si trovino in buona compagnia dato che i tedeschi di ogni colore condividono nella quasi totalità il sostegno al rigorismo finanziario e di bilancio nel loro paese, nell’eurozona e nell’Unione europea.
Da noi, invece, l’insofferenza nei confronti della moneta comune e di Bruxelles va di pari passo e quasi si identifica con l’impazienza di sbarazzarsi di un eccessivo rigore nella gestione dei conti pubblici, imposto dall’esterno o adottato per libera scelta, sostenendo che ciò sia indispensabile per uscire dalla crisi rilanciando la crescita economica. Il che, naturalmente, può essere senz’altro vero almeno in una certa misura. L’insofferenza e l’impazienza sollevano tuttavia i peggiori sospetti quando, per giustificare l’auspicato ripudio dell’euro e l’invocata riesumazione della lira si arriva ad imputare alla moneta comune l’impoverimento del paese precipitato in questi ultimi anni.
Qui il falso, per chi vuol vedere, è sotto gli occhi di tutti. Nel decennio successivo all’adozione dell’euro (2001-2011) il Pil nazionale pro capite è diminuito del 3,8%. Un caso unico nell’eurozona con la sola eccezione del Portogallo, la cui recessione non è peraltro andata oltre il -0,9%. Tutti i rimanenti 15 paesi sono economicamente cresciuti: alcuni con balzi intorno al 50% (Estonia e Slovacchia) o del 25% (Slovenia), altri, i più settentrionali, con incrementi dal 9% (Belgio e Olanda) al 12-14% (Austria, Finlandia, Germania). Meno bene quelli bagnati dal Mediterraneo (Francia e Spagna sotto il 5%), tra i quali tuttavia persino la Grecia era migliorata dell’8% prima di venire prostrata dalla crisi iniziata, come nel 1929, negli Stati Uniti.
Come spiegare un simile contrasto? Con una congiura collettiva architettata da Berlino ai danni del nostro paese? Con un capovolgimento del fatidico stellone più duraturo del solito? Con una presunta incompatibilità dell’euro, denunciata da qualche parte, con un apparato produttivo dominato dalle piccole e medie imprese, che però non mancano neppure in altri paesi, spesso privi invece di grandi aziende che pure esistono anche nell’Italia ancora industrialmente inferiore solo alla Germania, nell’intera Europa, e meno forte semmai nel settore dei servizi oggi considerato ovunque il più vulnerabile dalla crisi?
Non è il caso di chiamare piuttosto in causa l’inettitudine quanto meno relativa dei governi di Roma, la loro incapacità di sfruttare quella che per altri è stata evidentemente una buona occasione per progredire? Di eliminare o almeno ridimensionare macroscopici handicap esclusivi, o complessivamente superiori a quelli altrui, quali lo smisurato debito pubblico (sia pure accumulato per lo più nei decenni precedenti), l’evasione fiscale di massa, la corruzione dilagante, la criminalità organizzata e lo sperpero di risorse alimentato anche dalla cupidigia della “casta”?
L’elenco potrebbe continuare ancora per parecchio, ricordando ad esempio una pecca più di dettaglio ma attinente all’argomento come l’utilizzazione in misura incredibilmente esigua, da sempre, dei capitali messi a disposizione dall’Unione europea per progetti di sviluppo adeguatamente congegnati. Oppure, volendo volare più alto, l’incapacità dell’intera classe politica di “rispondere agli straordinari cambiamenti geopolitici, tecnologici e geografici degli ultimi venticinque anni”, stigmatizzata in questi giorni dal governatore della Banca d’Italia, Vincenzo Visco.
A livello governativo le responsabilità vanno ovviamente ripartite pro quota, ovvero per il numero di anni (rispettivamente 8 e 2 scarsi) che hanno visto al timone nel periodo con l’euro le coalizioni di centro-destra e quelle di centro-sinistra, senza dimenticare la pesantezza di una parte dell’eredità da esse ricevuta. Questa comprendeva anche la laboriosa adozione dell’euro, generalmente ascritta fino a ieri a grande merito di governi di centro-sinistra o tecnici. Chi oggi preferisce classificarla invece come un demerito dovrebbe però ricordare che l’introduzione materiale della moneta unica, gestita da un governo Berlusconi, ebbe luogo in condizioni tali da consentire il raddoppio di gran parte dei prezzi sul mercato, mediante la conversione di mille lire in un euro anziché quasi cinquanta suoi centesimi secondo il cambio ufficiale. Il tutto per la gioia di vaste categorie di commercianti ma a danno dei consumatori e a scapito, anche qui, dei conti e della salute generale del paese.
A quanti poi sognano il ritorno alla lira come condizione per il rilancio della crescita e la salvaguardia della sovranità nazionale non vanno rammentati soltanto i deleteri effetti inflazionistici e sullo stesso indebitamento provocati in Italia dalle svalutazioni facili del passato. Anche in Germania si obietta ai nostalgici del marco che proprio la sovranità degli Stati nazionali, di qualsiasi Stato nazionale, è la prima a soffrire per derive e insolvenze come quelle generate in tutta Europa dalle sfrenate svalutazioni concorrenziali degli anni ’80.
Oggi il quadro europeo e mondiale ha subito in poco tempo trasformazioni epocali, tali da consentire che le integrazioni comunitarie vengano messe in discussione non solo nelle loro forme e per i loro requisiti contestuali ma anche per la loro convenienza tout court. L’esigenza o l’opportunità di rinunciarvi, collettivamente o singolarmente, vanno però dimostrate in modo persuasivo, tenendo comunque ben presenti le esperienze fin qui acquisite e astenendosi in ogni caso dal travisarle a piacimento. Senza dimenticare infine, come ammoniscono i pignoli tedeschi, che l’operazione sarebbe di per sé costosissima: effettuata per decreto, equivarrebbe ad espropriare di colpo milioni di cittadini.
Licio Serafini