INTRODUZIONE
IL SENSO DELLA VITA
Questo libro racconta la storia di un gruppo di giovani – i ragazzi di Muggiò – che presero posizione contro il fascismo e i tedeschi, durante la Seconda guerra mondiale, assumendosi responsabilità che comportavano grossi rischi. Sulla base di una scelta maturata in un contesto carico di tensioni ma fuori, almeno in una prima fase, degli itinerari che hanno trovato largo posto nella pubblicistica ufficiale. Ragazzi normali, con desideri, interessi, impulsi vitali normali che insieme decisero di impegnarsi dalla parte della libertà e della giustizia, ideali che conoscevano solo in negativo, come rifiuto del fascismo e delle sue logiche. Un libro che ho potuto scrivere grazie a due medici, uomini di scienza, di cultura e di grande umanità. Il professor Vittorio Pricolo mi salvò la vita il 24 aprile 1945 con un intervento chirurgico difficile reso necessario da una brutta ferita all’addome. Quindici anni dopo, il professor Vittorio Staudacher mi liberò da un’ occlusione intestinale provocata da una stenosi formatasi al . livello del duodeno, là dove Pricolo aveva suturato uno dei tanti buchi che la pallottola, nella sua pazza corsa, aveva disseminato nello stomaco e nell’intestino. Le crisi a cui andavo periodicamente soggetto, e che si facevano di anno in anno più gravi, erano state attribuite ad aderenze. Anche gli esami radiologici accurati che avevo fatto sia all’Istituto del cancro sia al Policlinico di Milano avevano escluso la necessità di affidarsi ai ferri del chirurgo. Nel gennaio del 1960 Vittorio Staudacher decise per l’intervento, ritenendolo non solo possibile ma anche necessario. Pena la vita. Se sono ancora qui a testimoniare un’ esperienza di oltre mezzo secolo fa lo devo anche a lui. Cinquant’anni dopo Vittorio Pricolo mi rivelò che quella notte non era riuscito a prendere sonno. ‘«Avevo paura di avere lasciato qualche buco aperto» mi confessò. Pricolo quel 24 di aprile 1945 era di guardia. Toccò a lui mettere le mani nel mio addome, passandone al vaglio ogni centimetro. Una grande fatica, accompagnata dalla paura che alla fine risultasse inutile. Anche se non me lo confessò mai esplicitamente.
Ricordo però che, dopo una decina di giorni, quando oramai ero fuori pericolo, mi disse con tono distaccato, quasi non si riferisse a me: «Se ne salva uno su mille».
Ero fra quei pochi fortunati che riuscivano a cavarsela. Quando andai a trovarlo a Codogno, dove si era ritirato alla fine della sua carriera professionale, mi accolse in piedi sulla porta di casa, una villetta a un centinaio di, metri dalla stazione ferroviaria. Magro, segnato dalla malattia, faceva fatica a camminare, sorretto dalla moglie. Una paresi l’aveva bloccato alcuni anni prima, togliendogli, lui così vigoroso, la voglia di continuare.
Si ricordava benissimo dell’intervento su quel ragazzo che avevano portato mezzo secolo prima in un pomeriggio di aprile in ospedale, più di là che di qua. Aveva riletto, quando gli avevo annunciato la mia visita, la cartella clinica. «Sì, di tutte le operazioni importanti che ho eseguito mi sono tenuto una copia» mi disse. Parlava volentieri. Velocemente.
Era sorpreso che mi fossi ricordato di lui dopo tanto tempo. «Professore non l’ho mai dimenticata. Se sono qui è merito suo». Sorrise, dimostrando di essermi grato per quelle parole. Riviveva la sua giovinezza.
Nel salottino di casa, mi raccontava del suo impegno professionale a Milano, quindi a Pescara come primario, ancora a Milano e, infine, a Codogno. Non era stato facile rintracciarlo.
Nell’ elenco dell’Ordine dei medici di Milano non c’era più. Qualcuno mi consigliò di rivolgermi all’Istituto nazionale che gestisce la previdenza dei medici in pensione. Lì fecero qualche resistenza. Sì, avevano in carico Vittorio Pricolo ma non erano autorizzati a fornirmi l’indirizzo. Li pregai di farlo, spiegando le ragioni della mia ricerca. Erano passati cinquant’anni. Anch’io oramai ero entrato in quell’età che non concede più molto. L’età dei bilanci e dei conti con se stessi. Vittorio Pricolo, giovane medico abruzzese che mi aveva tirato fuori dall’abisso, rappresentava per me un conto in sospeso. M’ero portato dentro la sua figura china su di me.
Un’immagine che avevo messo a fuoco dopo, piano piano, durante i lunghi giorni trascorsi in ospedale, in attesa che la ferita si rimarginasse, affogato dentro i giornali che ogni mattina ricoprivano il mio letto, espressione di quella riconquistata libertà che non avevo potuto vivere come avevo sognato, nel pieno delle forze, in un’esplosione di sentimenti.
Stavo lì a leggermi gli articoli di tutti i giornali che tornavano a riempire le edicole e che qualcuno mi portava con le ultime notizie. Tutti quei giornali erano per me la libertà, diversi e, nello stesso tempo, uguali per l’entusiasmo che esprimevano. Differenze forse c’erano ma io non le colsi, ubriaco com’ ero di quell’ aria nuova che si respirava e che condividevo con chi mi veniva a trovare.
Di Pricolo avevo poi perso le tracce. O, meglio, non le avevo mai cercate, travolto dalle vicende della vita che ci impedisce, nella sua vorticosa corsa, di tenere tutti i fili della sua trama. Anche di quelli che l’hanno segnata in profondità. Adesso che era lì e mi parlava da una poltrona di casa sua, fragile, indifeso, umiliato dalla malattia, il mio silenzio durato mezzo secolo mi pesava come una colpa. Ne avvertivo l’ingiustizia. Quest’uomo, che mi ricordava momenti della sua vicenda umana con una lucidità che contrastava con la fragilità del suo corpo e che, quasi in un bisbiglio, forse per non farsi sentire dai suoi, mi aveva dichiarato, veloce, che forse sarebbe stato meglio fosse morto, dava alla mia visita il significato di una confessione. Ero arrivato tardi. Gli anni avevano piegato il giovane medico che mi aveva strappato alla morte in una sala operatoria di un ospedale della periferia milanese, a Città Studi. Se quel giovane medico non fosse stato di guardia, se un altro fosse stato al suo posto chissà come sarebbe finita quella giornata di aprile. Forse sarei morto e a ricordare quell’ episodio adesso ci sarebbe, probabilmente, una targa alla memoria, stinta dal tempo, testimonianza di un avvenimento lontano che nessuno ricorda più, salvo che nelle giornate dedicate alla Liberazione, quando ritornano, per qualche momento, le vite spezzate di tanti giovani che hanno chiuso la loro esistenza d’improvviso, vittime della crudeltà altrui e, spesso, della loro generosità e inesperienza. Nel mio caso, se avessi avuto una preparazione alle armi meno superficiale, forse me la sarei cavata, sparando prima del tedesco. Forse. O forse no. Sì, la preparazione all’uso delle armi aiuta ma, soprattutto, aiuta l’abitudine alla morte che la guerra finisce per inculcarti, annullando sentimenti, rispetto della vita, considerazione degli altri. È difficile superare di colpo tutto questo.
Nell’universale carneficina di una guerra si può uccidere, senza odio, senza una ragione specifica che non sia l’istinto di conservazione. Anche in battaglia, chi spara, da una parte e dall’altra, lo fa con relativa facilità perché il nemico si presenta spoglio di ogni caratteristica umana.
Senza volto e con la sua storia celata dietro la divisa. Se spari, miri alla divisa e non all’uomo. L’uomo non c’è mai o quasi mai. Se si presentasse con tutta la sua storia e con la ragnatela dei rapporti che ne giustificano l’esistenza – i genitori, i figli, gli amici, i piccoli e i grandi desideri, i colori, i profumi, i sentimenti che ne fanno un essere umano – credo che sarebbe impossibile, quasi per tutti, uccidere.
Solo la divisa e quello che rappresenta consentono di farlo, annullando quel patrimonio universale di valori che un uomo esprime e attraverso il quale gli altri, per vicissitudini e storie, spesso si riconoscono. Il tedesco che mi aveva sparato lo aveva fatto di fronte alla minaccia della mia pistola. Quando si è trovato di fronte a me, con le mie braccia alzate in segno di difesa, non ha fatto fuoco.
Il secondo colpo avrebbe potuto finirmi subito, ma non è partito.
Il ragazzo che stava supino sul marciapiede riacquistava, improvvisamente, la dimensione umana che l’atto di guerra – la canna della mia pistola puntata – aveva cancellato? Non lo so. Me lo sono chiesto tante volte senza riuscire a dare una risposta. Questo tedesco che mi aveva risparmiato restava nella mia memoria senza volto. Impressi mi sono rimasti solo la divisa, il cinturone, la sua pistola e, all’ occhiello della giacca, il nastrino di chi aveva fatto la campagna di Russia. Chissà dov’è finito e se questo episodio, sicuramente importante per me ma forse insignificante per chi, come lui, aveva trascorso la sua giovinezza su tanti fronti di guerra, lo ha accompagnato durante gli anni di pace. Ammesso che se la sia cavata e sia tornato a riannodare i fili che la condizione di non-uomo, affogato dentro una divisa, aveva strappato.
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