La tragedia del sovrasviluppo e la rivincita delle comuni

Hermenegildo Cruz Leon ha 49 anni, due folkloristici baffi scuri sotto il sombrero di fibra di palma, che usa per ripararsi da sole e luna indifferentemente. Non ha completato il primo ciclo di istruzione elementare, e non ha mai lasciato il suo paese. Coltiva pomodori, mais e fagioli.  E’ presidente del Consiglio di Vigilanza della microbica comunità di San Pedro Nexicho. Quaranta case alla fine del nulla: una strada recentemente asfaltata, tra i monti della Sierra Juarez, Oaxaca, Messico. Assieme agli altri del comitato dei beni comunali, è stato mio primo maestro di spagnolo. E di comunalità. Una forma di organizzazione sociale, ma anche un modello di vita. In cui  l’altro, il vicino e compagno, la natura, e le generazioni future hanno uguali diritti e doveri. Un modello di vita che la nostra Europa ha perso con la rivoluzione industriale, se mai l’ha abbracciato. In questa forma di organizzazione sociale, la terra è di proprietà comunale, o, per dirla con le loro parole, “tutto è di tutti e di nessuno”. E per ribadire il concetto, all’entrata della comunità di Ixtlan de Juarez, capoluogo della regione, un cartellone scandisce a chiare lettere “in questa comunità la terra è di proprietà collettiva, è proibita la compravendita”.

Nel 1968 il biologo Harding sviluppò la sua teoria riguardo alla proprietà collettiva, teoria  giustamente chiamata “la tragedia dei comuni” secondo la quale qualsiasi tentativo di collettività sarebbe destinato a fallirle a causa della cupidigia intrinseca nella natura umana: ciascuno infatti avrebbe incentivo a sfruttare al massimo la risorsa in comune, generando così un livello totale di consumo insostenibile, e tale da esaurire in breve la risorsa stessa.

Le lezioni di vita che ho ricevuto, e gli esempi da me collezionati mi portano a credere esattamente il contrario. Nella comunità Benito Juarez, gli abitanti hanno deciso di privarsi dell’acqua corrente nelle case per ritornare alla fonte in strada, notando che in questa maniera se ne razionalizzava di più l’uso: la fatica del trasporto ne aumentava il valore intrinseco.  “Se vediamo che stiamo tagliando troppi alberi, per uso personale o per venderli, e ciò sta compromettendo il bosco, per un certo periodo proibiamo ai comuneros nuovi tagli – mi spiega paziente Don Hermeneglido – restringiamo le nostre necessità per preservare il nostro territorio”. Di ecologia neanche a parlarne, é un trastullo per intellettuali, i comuneros per lo più ridono quando ne parlo. Il loro è buon senso, è conoscenza e rispetto della terra in cui son cresciuti e da cui ricavano tutto il necessario per la loro vita. La Sierra Norte è una terra fertile, in cui cresce di tutto. Le comunità, nonostante il bassissimo pil, vantano un’ottima qualità di vita. La povertà assoluta è minima, così come minima è la disegualianza. L’organizzazione comunale assicura che ciò che si guadagna collettivamente sia pure collettivamente redistribuito. Non é comunismo. Esistono e sono possibili differenze. Mentre non esiste un’economia centralizzata, né uno stato proprietario di processi produtivi: in queste comunità, nulla cade dall’alto.

L’antropologo Jaime Martinez Luna, della comunità di Guelatao de Juarez (la stessa in cui nacque, più di due secoli fa, il veneratissimo presidente Benito Juarez) é stato il primo, e tutt’ora il piu’ influente teorico della comunalità. A lui si deve una delle piu’ complete analisi della struttura e organizzazione comunitaria. Secondo la sintesi di Jaime Luna, le comunità si basano su quattro pilastri: l’assemblea, i cargos, il tequio, e le fiestas.

L’assemblea è l’organo legislativo-esecutivo della comunità. In essa si applica l’esercizio della democrazia diretta, o partecipativa. Ciascun comunero ha il diritto/dovere di partecipare e opinare. Qualsiasi decisione riguardante la comunità deve passare per l’assemblea dei comuneros. Nel corso della mia permanenza, ho avuto l’onore di partecipare ad una di esse. Ciò che più mi ha impressionato è stata l’infinita pazienza e il rispetto con cui tutti e quarantadue i comuneros, alla fine di una giornata di lavoro, per lo più nei campi, ascoltavano e riflettevano sui vari argomenti all’ordine del giorno. Io, da spettatrice, alla fine della prima ora ero esausta, al termine della seconda avrei ringhiato contro chiunque fosse di opinione contraria alla mia, e ho passato la terza e ultima ora lottando per tenere gli occhi aperti.

Non penso di aver mai assistito ad un esempio migliore di civiltà. Collettiva, per giunta.

Un cargo è un incarico pubblico, che il comunero è chiamato a svolgere, a servizio della comunità, e nella maggior parte dei casi completamente privo di retribuzione. Rispettando e assolvendo al proprio cargo correttamente, il comunero non né guadagna in benessere personale, né familiare, ma bensì in prestigio e rispetto. Ironico se comparato col dibattito attuale riguardo agli stipendi parlamentari. L’assegnazione dei vari cargos è progressiva: ciascun comunero inizia da giovane, col più umile (l’incarico di topil, una sorta di tuttofare), e a seconda della serietà e della responsabilità dimostrata, va avanzando di “grado”, sino alla presidenza municipale. Normalmente un anno di servizio e’ alternato ad un anno di riposo. In caso di emigrazione, il comunero che desidera conservare i propri diritti (e il proprio prestigio) all’interno della comunità, pagherà un supplente affinché svolga l’incarico in sua vece. Incredibile ma vero, la maggior parte degli emigranti mantiene legami fortissimi con la propria comunità, continuando spesso a pagare ciò che gli spetta per cargos, tequios e fiestas.

Il tequio é una giornata di lavoro collettiva, al servizio della comunità, obbligatoria per tutti i comuneros. Inutile dirlo, anch’essa a titolo totalmente gratuito. Normalmente i tequio si decidono nell’assemblea, e servono a realizzare piccole opere di mantenimento del bene comune (pulizia dei serbatoi di acqua, ristrutturazione del cammino, riparazione del sistema di tubature…). Al comunero che si sottrae ingiustificatamente al tequio, spetta una multa o una notte nella carcel (una celletta minuscola occasionalmente destinata a chi disturba la quiete pubblica).

Compiere i propri doveri dà luogo a diritti (come quello di utilizzare le risorse naturali della comunità, l’accesso all’acqua, e il diritto di voto all’interno dell’assemblea), per sé e per la propria famiglia. Nelle comunità non esistono diritti congeniti: ciascun diritto é guadagnato, é condizionale al lavoro e al merito del cittadino. In aggiunta, la pressione sociale in queste piccole comunità (la maggior parte al di sotto dei 3000 abitanti) é molto forte: il controllo degli uni sugli altri si rivela spesso più efficace (e in alcuni casi oppressivo) di qualsiasi minaccia di punizione. Nel complesso, questi incentivi son abbastanza forti da assicurare che ciascun cittadino rispetti gli incarichi e le leggi collettive.

Last but not least, le fiestas. Momento in cui la comunità si ritrova, si svaga, si gode i frutti del proprio lavoro. La festa vera e propria ha luogo una volta per anno, e dura almeno tre giorni. In quest’occasione si organizzano balli, tornei sportivi per i giovani, messe e processioni, eventi ludici di vario genere, spesso a premi. Le comunità vicine partecipano e cooperano, con fiori, birra o alimenti, si porta avanti la microdiplomazia. A tutti é offerto, per tutta la durata della festa, da mangiare e soprattutto da bere (distillati e fermentati di agave), e da dormire per chi ne avesse bisogno. Le fiestas son anche un momento di redistribuzione indiretta del benessere: a finanziarla sono coloro che nell’anno corrente dispongono di più lana, denaro. Nel caso in cui non vi siano grandi disparità, é tutto il pueblo a collaborare.

Ma torniamo alla tragedia dei comuni. Il biologo Gustavo Ramirez Santiago, della comunità di Ixtlan, vanta trent’anni di esperienza nel campo, percorrendo in lungo e largo le comunità della Sierra, oltre ad aver prodotto lo studio più completo della flora e fauna della regione. Secondo i dati da lui raccolti, dunque, l’80% delle zone ad alta biodiversità del Messico sono di proprietà collettiva. In altre parole, la proprietà comunale ha, in Messico, il controllo della biodiversità. E del 50% delle risorse idriche. E per fortuna, aggiungerei io. Come se non bastasse, le comunità della Sierra Juarez offrono un esempio vincente di gestione collettiva di impresa produttiva. Imprese che secondo la teoria economica vigente, basata su una concezione dell’uomo avido, utilitarista e soprattutto mai sazio, non sarebbero mai dovute esistere. E in effetti, in accordo con tale teoria, i boschi di quasi tutta la Sierra Norte erano stati concessi in gestione, per un periodo di quaranta anni, ad una impresa canadese che produceva carta. Quando negli anni 90 le comunità, a partire da Ixtlan de Juarez, han ripreso il controllo del loro territorio, e iniziato a gestire sole i propri boschi, in pochi hanno scommesso sulla loro effettiva capacità di farcela. A torto.

Le comunità della sierra norte esistono da cinque secoli. E si autogestiscono piú o meno da sempre secondo gli stessi principi, miscela vincente di cosmovisione precolombina (naturolatra e collettivista) e istituzioni coloniali (il municipio, per esempio). Essendo rimaste sino agli anni 50 quasi inaccessibili e marginalizzate, sono riuscite forse per questo a conservare la propria autonomia, a dispetto dell’attrattivo esercitato dalla loro richezza naturale. I municipi ” liberi e sovrani” controllano direttamente una delle zone meglio conservate del Messico (pur senza essere stata mai dichiarata un parco naturale), e chissa’ del pianeta.

I più anziani nelle comunità son preoccupati. Sanno che qualcosa sta cambiando nel pianeta. Per molti il riscaldamento globale e’ un concetto confuso e pomposo, l’alterazione del ciclo dell’acqua e dell’intensità delle precipitazioni, invece, un fenomeno concreto e preoccupante. Piove quando non dovrebbe, e viceversa, “non si capisce più niente: quando dobbiamo piantare il mais?”. Il sapere locale possiede molto più buonsenso di molti scienziati del mondo super-industrializzato, disposti a negare l’evidenza per il bene del progresso. Il progresso, ovvero la crescita economica: mostro sacro della nostra società moderna, specie quando vestito della maschera della sostenibilità.

Se solo potessimo cogliere qualche briciola di questa saggezza, noi del mondo “sovrasviluppato” (come ci definiscono da questo lato dell’atlantico).. noi senza communes e senza governo. Ripenso alle nostre case piene zeppe di troppo, al nostro sentirci poveri anche quando non ci manca niente, alla perenne insoddisfazione di chi ha perso il contatto con la terra e la capacita’ di godere di una giornata di sole, o peggio, del tempo per farlo. Potremo re-imparare?

Saremmo davvero capaci di essere felici con poco?

Marianna Bianca Galantucci