GIUSEPPE PRESTIA: POSSIAMO DIRCI VERAMENTE “SVILUPPATI”?

ALCUNE CONSIDERAZIONI SULL’EUROPA  ALLA LUCE DELLA RECENTE CRISI ECONOMICA

Da ormai troppo tempo il nostro paese e con esso altri stati dell’Unione Europea si dibattono nella cosiddetta “crisi”. In Italia, in particolare, si è venuto a creare un circolo vizioso per cui l’eccessiva imposizione fiscale, superiore al 50%, ha da un lato compresso i consumi, inducendo al fallimento migliaia di imprese, e dall’altra impoverito vasti strati della popolazione, che rasentano la miseria o quasi. A tale situazione si aggiunge la paralisi totale della classe dirigente, aggravata dall’esito incerto delle elezioni del febbraio 2013.

Di fronte a questo quadro desolante, viene da chiedersi come sia stato possibile giungere ad un simile disastro e soprattutto come se ne possa uscire. Per quanto riguarda l’Italia non v’è dubbio che molte colpe ricadano sull’inerzia della classe politica, ma bisogna aggiungere che tale inerzia riflette inevitabilmente le contraddizioni insite nella società italiana e gli interessi corporativi di molte categorie che intendono preservare le loro posizioni di privilegio a discapito del benessere comune. Il discorso è troppo complesso per essere sviluppato in questa sede. Qui mi vorrei limitare ad alcune brevi considerazioni in campo economico.

E’ bene innanzitutto chiarire che la crisi che sta attraversando l’Italia e più in generale l’Eurozona, ha assunto connotati del tutto peculiari rispetto a quella manifestatasi nel 2007 dapprima negli Stati Uniti e poi in altre nazioni del mondo. Il problema europeo deriva direttamente dal fatto che l’unione economica e monetaria, per intenderci l’adozione dell’euro, non è stata seguita da una corrispondente unione politica. I meccanismi decisionali, a livello politico, sono rimasti troppo frammentati e farraginosi e gli interessi dei singoli stati finiscono per prevalere sull’interesse generale.

Nella letteratura economica molti lavori hanno chiarito i meccanismi che sono alla base della recessione dell’Eurozona. In particolare l’economista belga Paul De Grauwe, in una serie di studi pubblicati a partire dal 2011[1], ha messo in luce la fragilità delle istituzioni su cui si regge l’unione monetaria e ha dimostrato che le misure di austerità adottate soprattutto nei paesi dell’Europa meridionale, tra cui il nostro, sono state prese sull’onda del panico e dei timori manifestatisi sui mercati, che hanno gonfiato artificialmente lo spread, non certo perché vi fosse un reale pericolo di default. La goffa gestione dei problemi economici a livello europeo ha poi ulteriormente peggiorato la situazione.

Da tutto ciò si ricava un’altra considerazione: l’approccio prevalente in sede europea (ma il discorso riguarda più in generale l’economia mondiale) è prettamente “economicistico”. Nelle interminabili trattative che si succedono a Bruxelles ogni qual volta ci si trova di fronte ad un’emergenza, ciò che conta sono il PIL, il deficit, lo spread, il rapporto debito/PIL e così via dicendo. Il vero punto centrale, cioè il destino e il benessere dei milioni di cittadini che subiscono le misure di austerità imposte dalla cosiddetta troika (FMI, BCE e UE), non viene neanche sfiorato. L’obiettivo primario è avere i conti a posto. Non importa se per raggiungere questo risultato viene compromessa la dignità della persona umana. Tra l’altro occorre osservare che l’approccio “economicistico” finisce per condurre a risultati insoddisfacenti non solo dal punto di vista del benessere dell’uomo ma anche sul fronte più prettamente economico – finanziario. A cosa potrà mai servire avere i bilanci a posto, se poi ci si ritrova con gran parte della popolazione immiserita?

Il che ci porta al fulcro del problema: il fatto incontestabile che emerge dalla situazione attuale è che non è più l’uomo ad essere al centro della scienza economica, ma gli interessi egoistici dei mercati finanziari. L’economia deve essere al servizio dell’uomo. Se non si recupera questa dimensione non vi potrà essere via d’uscita dalla crisi e soprattutto non vi potrà essere vero sviluppo.

Quest’ultimo infatti non riguarda solo i cosiddetti paesi “arretrati”, ma anche noi che ci autocollochiamo nel mondo “sviluppato”. Anzi forse è vero il contrario e cioè che siamo noi appartenenti ai paesi “avanzati” ad essere veramente “sottosviluppati”. La nostra visione è ormai troppo distorta, rivolta esclusivamente al guadagno e al profitto a qualunque costo, e non abbiamo l’umiltà di riconoscere che certi valori che abbiamo smarrito sono invece ancora vivi e presenti in quello che chiamiamo Terzo o Quarto Mondo.

In effetti basterebbe davvero poco per rendersene conto, sarebbe sufficiente affacciarsi dall’altra parte del Mediterraneo, in Africa. Nella cultura di questo continente, uno degli elementi più importanti è costituito dal ruolo centrale che è accordato ai valori relazionali, alla coesione sociale e ai beni non materiali. Per gli africani il successo individuale o l’esito di un’azione sono subordinati al loro contenuto in termini di legame sociale, ciò che conta sono le relazioni tra le persone.  Anche la considerazione della ricchezza è molto diversa da quella che abbiamo noi. La ricchezza, infatti, ha come scopo l’arricchimento sociale. Essa è utile nella misura in cui può essere condivisa con il gruppo. Majid Rahnema in proposito scrive: “La povertà sarebbe così un modo di vita, una condizione essenzialmente fondata sui principi di semplicità, di frugalità e di considerazione per i propri prossimi.[…] Rappresenterebbe un’etica e una volontà di vivere insieme, secondo dei criteri culturalmente definiti, di giustizia, di solidarietà e di coesione sociale, che sono qualità necessarie a ogni forma culturalmente concepita per affrontare la necessità. La miseria rappresenterebbe al contrario tutta un’altra condizione. Essa esprimerebbe la caduta in un mondo senza riferimenti dove il soggetto si sente improvvisamente spossessato di tutte le sue forze vitali, individuali e sociali, che gli sono necessarie per prendere in mano il suo destino”[2].

A noi europei simili concetti non sono sconosciuti. La filosofia cristiana, ad esempio, ne parla a più riprese. Il filosofo francese Jacques Maritain (1882-1973) scriveva “ciò che sarebbe conforme alla natura e che dobbiamo chiedere nell’ordine sociale alle nuove forme di civiltà, è che la povertà di ciascuno (non penuria, né miseria, ma sufficienza e libertà, rinunzia allo spirito di ricchezza, gioia dei gigli del campo); è che una certa povertà privata, crei l’abbondanza comune, la sovrabbondanza, il lusso, la gloria per tutti”[3]. Paolo VI, nell’enciclica Populorum Progressio (1967), affermava: “nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario”[4] e riprendendo le idee sviluppate da Maritain aggiungeva: “lo sviluppo non si riduce alla semplice crescita economica. Per essere autentico sviluppo, deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo e di tutto l’uomo”[5]. L’economista domenicano Louis-Joseph Lebret (1897-1966) dal canto suo sosteneva con forza: “noi non accettiamo di separare l’economico dall’umano, lo sviluppo dalla civiltà dove si inserisce. Ciò che conta per noi è l’uomo, ogni uomo, ogni gruppo d’uomini, fino a comprendere l’umanità intera”[6].

Quella che si osserva oggi nell’Unione Europea è una situazione ben diversa. Lungi dal perseguire politiche che portino ad uno sviluppo nel senso “umanistico” di cui si diceva prima, le istituzioni europee stanno progressivamente scavando un fossato tra un gruppo di paesi detti virtuosi (la Germania e i paesi del Nord Europa), le cui condizioni economiche sono migliori, e quelli in difficoltà dell’Europa mediterranea (ma non solo), che invece non riescono a risollevarsi e che sono costretti ad adottare provvedimenti con altissimi costi sociali. In altre parole non esiste solidarietà tra i membri dell’Unione e vengono così messe in discussione le radici stesse di essa. Non era certo questo il modello di Europa che avevano concepito i padri fondatori della CEE nel ’57.

Se le cose stanno così, non possiamo ovviamente fregiarci del titolo di “sviluppati”. Nell’UE le disuguaglianze economiche e sociali diventano sempre più marcate e ci si allontana progressivamente dal tracciato dello sviluppo autentico. Non si comprende che attraverso il sacrificio (per altro limitato) di alcuni si otterrebbe il benessere di tutti. Il persistente rifiuto da parte della Germania di adottare gli eurobond, i limitati poteri e le esitazioni della BCE e le contraddizioni di carattere politico stanno alimentando il circolo vizioso della recessione. Come hanno scritto Paul De Grauwe e Yumei Ji “la storia dell’Eurozona è anche una storia di crisi del debito annunciate (…). I paesi che sono colpiti da una crisi di liquidità sono costretti ad applicare stringenti misure di austerità che li fanno entrare a forza nella recessione, riducendo così l’efficacia dei programmi di austerità”[7].

Il grande economista italiano Federico Caffè (1914-87) scriveva che la politica economica dovrebbe svolgere come compito essenziale quello di essere una guida per l’azione[8]. Ebbene è ora che nell’ambito dell’Europa ci si indirizzi verso un’azione che ponga le esigenze dell’uomo al centro dei propri interventi. Sempre Paolo VI nella Populorum Progressio diceva “ogni programma, elaborato per aumentare la produzione, non ha in definitiva altra ragione d’essere che il servizio della persona. La sua funzione è di ridurre le disuguaglianze, combattere le discriminazioni, liberare l’uomo dalle sue servitù, renderlo capace di divenire lui stesso attore responsabile del suo miglioramento materiale, del suo progresso morale, dello svolgimento pieno del suo destino spirituale”[9]. Simili concetti si ritrovano anche negli scritti dell’economista anglo-australiano Colin Clark (1905-89) [10], esplicitamente richiamato nell’enciclica di Paolo VI, oppure in quelli di Francesco Vito (1902-68) che, come ricorda Luigi Pasinetti, “pensava che l’economia non potesse fare a meno dell’etica, nel senso che per fare bene il mestiere dell’economista bisognasse – prima di occuparsi dei mezzi – occuparsi (e con cura) dei fini”[11] e questi avevano come punto di riferimento l’uomo. E’ quindi chiaro che occorre agire in tale direzione se si vuole spezzare il circolo vizioso della recessione. Non esistono alternative.

Se verrà mantenuta l’attuale impostazione, i governi dei paesi più in difficoltà saranno costretti a distrarre una sempre maggiore quantità di ricchezza dalla popolazione a favore di un utopico riassetto di bilancio, innescando la spirale del sottosviluppo.  Al contrario l’UE dovrebbe adottare meccanismi in grado di bloccare i potenziali rischi e timori di default, assegnando un ruolo più incisivo alla BCE, quale prestatore di ultima istanza, e spronando nello stesso tempo gli stati con maggiori problemi a intervenire efficacemente per rimuovere gli ostacoli interni che impediscono un reale progresso economico e sociale. Allora potremo dire di essere più vicini alla soluzione della crisi.

Giuseppe Prestia


[1] Paul De Grauwe, The governance of a fragile Eurozone, CEPS working document n. 346, CEPS, Bruxelles, 2011,  http://www.ceps.eu/book/governance-fragile-eurozone; Id., The ECB as a Lender of Last Resort, VoxEU, 2011; Paul De Grauwe, Yumei Ji, “Self-fulfilling crises in the Eurozone: An empirical test”, in Journal of International Money and Finance, 34, 2013, pp. 15-36; Paul De Grauwe, Yumei Ji, More evicence that financial markets imposed excessive austerity in the eurozone, CEPS Commentary, 5 february 2013, CEPS, Bruxelles.

[2] Majid Rahnema, “La povertà”, articolo pubblicato il 12 giugno 2007 disponibile sul sito http://www.ishtarvr.org/leggi_articolo_ultimo.php?id=24 consultato il 20 aprile 2010.

[3] Jacques Maritain, Umanesimo integrale, Borla, Roma, 2009, p. 220 (ed. originale Humanisme intégral, Fernand Aubier, Paris, 1936).

[4] Paolo VI, Populorum progressio, n. 23, Ed. Paoline, Milano, 2009, p. 18.

[5] Paolo VI, cit., n. 14, p. 12.

[6] Louis- Jospeh Lebret, Dynamique concréte du développement, Economie et Humanisme, Les Editions Ouvrières, Paris, 1961, p. 28.

[7]  P. De Grauwe, Yumei Ji, “Self-fulfilling crises in the Eurozone: An empirical test”, cit., p.33.

[8] Federico Caffè, Lezioni di politica economica, Bollati Boringhieri, Torino, 1978.

[9]  Paolo VI, cit., n. 34, p. 24.

[10] Colin Clark, The conditions of economic progress, St. Martin’s Press, London – New York, 1960

[11]  Luigi Pasinetti, “Una teoria per un’economia al servizio dell’uomo”, in Daniela Parisi, Claudia Rotondi (a cura di), Francesco Vito: attualità di un economista politico, Vita e Pensiero, Milano, 2003, p. 229.