Era un’estate calda, meteorologicamente ed anche per altri motivi. La situazione a Ferrara era alquanto instabile e la scelta di lasciare l’Arcispedale S. Anna criticata da tutti, genitori in prima linea. La situazione si sarebbe ulteriormente aggravata se avessero saputo che lo stipendio di un prestigioso Assistente Ordinario della Università nel 1978 era di ben L. 123.000 mensili, 1/5 dello stipendio degli anni d’oro all’Arcispedale. Fossero poi venuti a conoscere il fatto che il figlio aveva cominciato a vendere le moto collezionate negli anni precedenti avrebbero avviato le pratiche di dismissione della potestà famigliare.
La vita in Torino era decisamente diversa da quella di Ferrara, prevedibile e piena di consolanti conforts, ma le differenze positive venivano amplificate in modo tale da non dovere ammettere un errore così grossolano di scelta professionale. A lenire i limiti economici erano gli aspetti della vita di ricerca in un Istituto allora sulla cresta dell’onda internazionale.
La vita di laboratorio era assai soddisfacente: il complesso Carbonara/Cleide era una miscela vincente di cultura, tecnica e buon senso, nonostante lo stillicidio di tentativi di Mario di intervenire. C’erano poi Curtoni e i suoi trapianti, Patriccia e la Mariadunqueclara che lavoravano su HLA e trapianti. Ma l’anima centrale era Ruggero Ceppellini, semplicemente il Professore, il quale piombava in ogni occasione giorno e notte (preferibilmente la notte) per discutere di importantissimi esperimenti, per richiedere copie di lavori essenziali o per avere aiuto semplicemente per cambiare una lampadina.
Gli elementi chiave dell’amministrazione dell’Istituto erano la Signora Anna, anziana signora di raffinata educazione e di ottima presentazione, e la Signorina Garetti, raccolta dal Ceppellini a 15 anni dalla cassa del Caval’d Brôns. Solo la prima aveva fisico e look sufficienti per tenere testa al Professore.
E proprio quell’estate il Professore doveva andare in una località chiamata Aspen a fare un seminario ad invito per la ristrettissima mafia degli addetti ad HLA e basata sugli allora nuovissimi anticorpi monoclonali. Era strategia del Barone quella di farsi accompagnare da un servo multi-servizio, una scelta sviluppata nel corso degli anni con certo successo. Con altrettanto successo era stata escogitata una sottile tattica di rifiuti da parte dei potenziali prescelti, i quali sapendo in anticipo degli appuntamenti del Maestro si defilavano con rodata agilità.
Stavolta il Maestro optò per una soluzione molto più raffinata e ripiegò su una tattica che includeva addirittura concessioni ad una valutazione introspettiva dei potenziali bersagli. Innanzi tutto non comunicò a nessuno dell’impegno ad Aspen, fece una scelta per una persona ancora vergine nel campo, e quindi l’ultimo Assistente Ordinario entrato in servizio. L’operazione cominciò con azione diversiva basata su uno stupefacente invito a cena da Galli, il ristorante di fronte alle Molinette, dove venivano gestiti tutti gli affari accademici e ospedalieri negli anni ’70. Quando la cosa non rivestiva una qualche forma di interesse diretto, si optava per la ben più economica Cinzia, una trattoria di Via Madama Cristina, caratterizzata da mefitici odori fin dalla porta di entrata.
Ragione ufficiale della serata era quella di fare il bilancio dei primi mesi ufficiali a Torino e programmare il futuro scientifico dell’Istituto e di conseguenza del giovane ricercatore. La cena incominciò con una serie di valutazioni positive sull’operato del giovane Assistente, che solo dopo qualche anno capì che questa era la classica introduzione generale di operazioni in cui c’era solo da perderci. Il Professore continuò, ma al tempo stesso non nascose le sue critiche (si intenda, costruttive) basate sul fatto che il giovane ricercatore non aveva esperienze importanti all’estero, presentava ancora limiti culturali, scarse esperienze nel lavoro di tipo scientifico, elementi tutti vagamente scusabili per chi proveniva dall’Università di Ferrara, almeno di allora. Insomma, il Professore concluse che bisognava combattere questo provincialismo di base con operazioni programmate, ma che avrebbero sicuramente migliorato i risultati futuri.
Il Professore all’improvviso chiese (era fine Luglio 1978) quali erano i piani per il week-end del giovane Assistente. Le opzioni erano semplici da enumerare, passavano dall’andare a Ferrara oppure starsene a casa a leggere e studiare. Un silenzio carico di commiserazione da parte del Barone fu sufficiente per dire che la risposta non andava bene: ”Perché non viene con me ad Aspen?” L’Assistente era sì provinciale, ma era stato indipendentemente a Chicago e New York in anni antesignani. Scambiò Aspen come uno dei sobborghi della Grande Mela e rispose affrettatamente sì tra i complimenti del Maestro, che apprezzava risposte pronte e rapide, e la sua personale accezione di ubbidienza assoluta.
Finita la cena, l’Assistente andò a casa (viveva in quel tempo con un gruppo di studenti baresi, esperti in disegno tecnico e soprattutto di preparazione dei cibi) e alla comunicazione della prossima uscita per Aspen gli amici suggerirono di portare gli sci, ricordando i recenti campionati delle Olimpiadi. Il dato fu confermato sull’Atlante Zanichelli, che mostrò che la località era sita in Colorado, ben 22 cm lineari a ovest di New York sulla pagina grande. Il dramma personale dell’Assistente fu secondo solo a quello per la Signorina Garetti, che dovette organizzare un biglietto aereo Torino – Aspen. Naturalmente il Professore avrebbe viaggiato indipendentemente e con mezzi propri da Basilea.
Regola di allora del CNR era una rigorosa valutazione dei costi, una priorità rispetto ad eventuali ma nemmeno considerati desideri del ricercatore. Non veniva favorita la via più corta ma solo la più economica, indipendentemente da durata, scali, modi e compagnie di volo.
Dopo giorni di dure contrattazioni telefoniche (il suo mezzo di lavoro non prediletto), la Signorina Garetti si presentò con un biglietto multistrato di fogli filigranati rossi e bianchi, con l’ultimo foglietto che faceva Aspen. Il viaggio incominciò in pullman a Torino fino all’aeroporto di Malpensa, quindi economico (sconto dipendenti dello Stato) Alitalia fino a Chicago con due giorni di spazio proprio. A questo seguiva un Lockheed L-1011 diretto a Denver, lasciando l’aeroporto O’Hare di Chicago, una struttura che allora non aveva pari nel mondo. Anche l’aeroporto di Denver, la “città alta un miglio”, non scherzava per nulla, era solo molto più ordinato e pulito e la popolazione sembrava costituita da studenti americani da film.
A questo punto c’era l’ultima tratta, operata dalla Aspen Airways. L’Assistente con sue valigie Samsonite rosse al seguito cominciò a cercare la Compagnia, passando tra le notissime allora fino alle giapponesi o asiatiche mai viste prima. In mezzo a questi padiglioni luccicanti e svettanti di hostess mancava la Aspen Airways.
La richiesta specifica ebbe una complicata descrizione, seguita da un fortunato disegno di una piccola mappa: alla fine la sede di partenza della Compagnia fu raggiunta in posizione decisamente defilata. Aspen Airways possedeva un solo aereo, forse l’ultimo DC3 ancora volante dopo aver partecipato al ponte di Berlino nel ’45, guidato da un pilota che si era fatto le ossa sui B-29 in Giappone. Il servizio di sicurezza era costituito da anziana signora che con cercamine WWII spazzolava il davanti e dietro dei passeggeri alla ricerca di eventuali armi. Precauzione in realtà quanto mai non necessaria, in quanto tutti i passeggeri si conoscevano di persona e rappresentavano abituali commuters che da Denver andavano a lavorare ad Aspen. Erano abituati da anni al mezzo di locomozione, per cui la partenza dell’aereo a pistoni fu accompagnato da paurosa sorpresa solamente da parte del ricercatore di Ferrara, cui il Dakota sembrò vibrare addirittura di più di un’automotrice sulla rampa del Secchia.
L’aeroporto di Aspen ha l’ampiezza di un campo da calcio, che al posto delle consuete porte ha due muri dritti costituiti dalle Rocky Mountains. La tecnica di atterraggio adottata dal DC3 fu molto semplice: il pilota si lasciò semplicemente cadere ad un lato del campo da calcio, trattenne l’aereo quando giunto a pochi metri da terra e poi incominciò una frenata per evitare il vallo roccioso che delimitava l’altro lato del campo. L’Assistente ripercorse in questi lunghissimi momenti gli istanti più belli della propria vita, proponendosi di non toccare mai più linee aeree che fossero ben note ai più.
Le valigie vennero portate in un banchetto simile a quello di una cocomeraia, ma distribuiti con gentilezza e il tipico buon umore wasp sprizzante dalle popolazioni della costa Ovest. Gli accordi con il Professore erano stati chiari fin dal principio: Lui in persona sarebbe venuto a prenderlo all’aeroporto di Aspen e – cosa più importante – avrebbe portato con sé l’anticipo in contanti che il CNR di allora forniva alle sue persone in missione.
Il Professore naturalmente non c’era, ma il fiducioso Assistente aveva l’indirizzo del suo hotel, ove contava di trovarlo e soprattutto di trovare l’aiuto finanziario in anni pre-carta di credito.
Fortunatamente la città di Aspen è molto ricettiva e fu trovato un hotel dall’aria dimessa e quindi sicuramente economica. Fu tentato un contatto telefonico con l’Italia per avere notizie del Professore, ma nessuno sapeva dove era.
Il Meeting incominciava 3 giorni dopo, per cui ci fu il tempo di visitare Aspen, simile a Cortina e che aveva tutto per colpire i ricchi turisti californiani, compreso un teatro dell’opera. I giovani poi sceglievano il rugby invece del popolare football americano.
La cassa del povero Ricercatore italiano cominciava ad assottigliarsi pericolosamente e il Barone non arrivava con i promessi sostegni finanziari. Si fece vivo solo il giorno prima dall’inizio dell’incontro, dopo avere viaggiato in prima classe (a spese Roche) assieme a Philip Levin (a spese Johnson & Johnson ) e a Ben Pernis (a spese della Columbia). La cassa dello champagne consumato nel lungo volo era stata democraticamente condivisa dai grandi Professori.
Il Professore stazionava in un lussuoso hotel, ma aveva assolutamente bisogno di un aiuto per la sua presentazione. Parlando tra i fumi dell’alcool, dai compagni di viaggio aveva avuto nuove idee e ora voleva colpire l’attenzione di una platea costituita dal meglio delle Università che andavano per la maggiore.
L’idea era quella di fare un cromosoma 6 umano, con una esplosione che raccoglieva i geni allora noti per l’HLA. Il giovane Assistente propose di disegnare un cromosoma gigante che occupasse gli 8 metri della lavagna (rigorosamente verde) della mega sala conferenze. L’idea fu subito accettata. Furono scovate numerose confezioni di gessi colorati, mentre le linee rette del cromosoma vennero ottenute usando come riga l’asta della bandiera americana, senza conoscere la sacralità dell’oggetto. Le linee curve furono invece disegnate sfruttando il fondo di cestini. Dopo oltre 5 ore di lavoro ininterrotto, apparve un cromosoma 6 e una regione HLA molto avanzata e che conteneva qualche dato inedito.
Il Professore approvò compiaciuto e decise che l’Assistente (ridotto ad una maschera multicolore dalla polvere di gesso) meritasse un premio. Fu condotto (si sperava a spese Roche) in un ristorante di classe e messo di fronte alla scelta fra abalone e giant Alaska shrimp. Il punto interrogativo che visibilmente apparve sulla fronte del provinciale visitatore denunciò la sua chiara inesperienza nel campo. Per il Professore non era altro che la conferma di quanto gli aveva anticipato nel precedente incontro da Galli, ma si limitò ad affondare il coltello solo un po’, sufficiente tuttavia a ricordare l’esattezza delle sue previsioni. Suggerì di lanciarsi sul gambero, costituito da mostri marini con chele di dimensioni industriali. Secondo punto interrogativo: come si aggredisce un “cosa” del genere. “Tutto io devo insegnarle!” sbottò al limite della pazienza il Barone, che indicò pinze ex-chirurgiche adottate allo scopo, da usare assieme ad imbarazzante bavaglino. Superato l’empasse iniziale, il resto della cena fu affrontato allegramente. Alla fine, il Professore sbottò con un candido “Malavasi, paghi lei”, scusandosi per non avere ancora avuto tempo di cambiare i travellers’ cheques. Il mattino stesso avrebbe provveduto al rimborso.
E proprio quel mattino successivo iniziava il Meeting. All’entrata il big Professor fu accolto con gli onori degni del suo rango, che in parte ricaddero anche sull’accompagnatore Assistente, orgogliosamente dotato del primo badge della sua vita, in cui veniva addirittura identificato come membro del prestigioso Basel Institute for Immunology. La restituzione dell’importo della cena e la consegna dell’anticipo fu rimandata al pomeriggio, perché si stava avvicinando il tempo del suo speech e non poteva stare a perdere tempo con banalità disturbanti la concentrazione.
La sua conferenza fu fatta sotto il mega cromosoma 6, che attirò gli applausi della platea e fu completata dai risultati che Massimo Trucco e Gianni Garotta avevano preparato in Svizzera usando gli anticorpi monoclonali, il frutto dell’intelligente piano che Ceppellini aveva disegnato con Cesar Milstein in persona.
Lo speaker successivo fu Jack L. Strominger del Dana Farber di Harvard, grandissimo biochimico che portò lo studio dei prodotti HLA ai più fini livelli della tecnologia di allora. Relazione lunga, ma molto dettagliata e contenente dati mai prima comunicati. Durante la presentazione, il Professore scivolò agilmente dal suo posto nonostante la ingessatura residuo di incidente sportivo a Cervinia. Sibilò un imperioso “Malavasi, mi segua” e si diresse verso la stanza dove troneggiava un Kodak Carousel che proiettava le diapositive. Il Professore pose l’inconsapevole bystander a fare da palo di fronte alla stanza di proiezione automatica, mentre lui estraeva dal caricatore circolare le diapositive subito dopo la loro proiezione, guardandole con cura su un mini schermo interno. L’Assistente chiese timidamente al Professore che cosa stava facendo, ma fu subito zittito. Dopo un tempo interminabile scandito da un’ansia montante nell’Assistente che non capiva la situazione, il Professore uscì con aria soddisfatta dalla stanzetta e disse che ormai non aveva più voglia di perdere tempo ad Aspen e voleva ritornare a Basilea, dove lì sì che si lavorava. Chiedeva al giovane Assistente solo di accompagnarlo in taxi all’aeroporto, in quanto aveva delle comunicazioni da fargli importanti per la sua carriera.
I 20 minuti del tragitto per l’aeroporto furono impegnati in realtà a fare progetti su quello che lui avrebbe fatto, con vaghe possibilità di partecipazione anche da parte del giovane Assistente. All’arrivo lanciò un altro autoritario “Malavasi, paghi lei!”, tranquillizzandolo però con la promessa di raddoppiare da Basilea tutti questi anticipi.
Nonostante la perdita finanziaria secca, l’Assistente tirò un sospiro di sollievo pensando a come avrebbe potuto assaporare in pace i contenuti dell’importante Meeting. Fece un ultimo investimento con il taxi di ritorno alla Aspen Summer School, pronto ad affrontare sereno la comunità scientifica con i piccoli schizzi di gloria lasciatigli dalla conferenza del grande Maestro. Madornale errore di valutazione. Strominger era persona tracagnotta e di braccio tozzo e peloso. Era sulla porta della sala dei congressi, ove attendeva l’inconsapevole con un imperioso “You!”, indicando con l’indice il badge con l’affiliazione del Basel. Il tono era tutt’altro che amichevole: le giugulari del Prof. Strominger, ancorché della fine Harvard, erano gonfie e il suo inglese non propriamente bostoniano. L’anglo-ferrarese recepiva solo frammenti della crescente e irosa parlata: si riusciva tuttavia a capire che il Prof. Ceppellini aveva non solo guardato senza permesso le diapositive dello speaker, ma apparentemente ne aveva fatto incetta.
Le reazioni degli individui sono spesso poco prevedibili, tanto più in situazioni mai prima affrontate. L’Assistente fece ricorso al meglio dell’inglese di cui disponeva, spiegò che il Professore era partito, era già all’aeroporto. La salvezza venne nel ritrovare nel proprio archivio mnemonico il termine “paging”, un artificio che consente di lanciare messaggi negli altoparlanti di luoghi pubblici per contattare persone. Strominger fu lievemente placato da questa possibilità e il partente Prof. Ceppellini rintracciato ormai a Denver. La conversazione tra i due colleghi fu un esempio di mielosa accademia, con i vari “dear Jack” e “dear Ruggiero” intercalati da spiegazioni. Il Prof. Ceppellini si congratulò per la qualità dei risultati dell’illustre collega bostoniano e ammise di non avere saputo resistere alla tentazione (peraltro tipica dello scienziato) di guardare i dettagli di quanto aveva visto proiettare. Non escluse che l’eccitazione di fronte ai risultati da una parte e la ristrettezza della buia sala di proiezione avessero potuto fare cadere qualche diapositiva. Qualche slide poteva essere addirittura scivolata nella briefcase, ma purtroppo aveva già checked il bagaglio per la Svizzera e avrebbe spedito da lì non appena arrivato. Strominger tentò di ribadire il concetto che le diapositive mancanti all’appello erano 52, ma sfortuna volle che fossero nella borsa già in cammino per Basilea con il suo aereo.
In realtà il Professore aveva fatto una scelta ulteriormente depistante: decise all’istante che sarebbe andato dal suo grande amico Luigi Luca Cavalli-Sforza a Stanford. I due si conoscevano dal 1945, quando erano neolaureati in Medicina. Includendo Umberto Veronesi, avevano formato un trio ed aperto un ambulatorio medico. Con i soldi ottenuti dalle famiglie, avevano fatto un investimento comune fu l’acquisizione di una bicicletta, assegnata a chi aveva il caso più urgente e grave.
Il Professore chiamò l’Assistente all’hotel e gli diede istruzioni per modificare totalmente il suo viaggio di ritorno: non si doveva tornare banalmente a casa, ma sfruttare il fatto di essere al centro del mondo per conoscere il mondo. Prima tappa sarebbe stata Denver, dove doveva visitare un suo importante amico che stava producendo anticorpi monoclonali anti-HLA. Istruzioni più precise sarebbero seguite in quanto il Professore doveva fare cose importanti all’Università di Stanford, costituite da un seminario, in cui le 52 diapositive furono ampiamente sfruttate e la loro paternità solo fumosamente attribuita.
L’Istituto del National Health Center era notissimo già da allora per le sue ricerche avanzate in immunologia e in istocompatibilità. L’Assistente giunse all’Istituto con le sue Samsonite rosse, senza conoscere nessuno e soprattutto sapere che cosa fare. Il Prof. Beck lo accolse con calore (la telefonata del Professore apriva allora tutte le porte) e fu subito inviato in Laboratorio per parlare con le persone che si occupavano del progetto di anticorpi monoclonali. Annaspò non poco ad interagire in lingue estere con i post-doc più aggressivi e preparati sul campo, ma trovò qualche forma di compromesso accettabile. Venne posteggiato nella Student House: non c’erano problemi di costi, in quanto da Basilea sarebbero giunti finanziamenti per affrontare le nuove ed impreviste spese sufficienti per il periodo da trascorrere in Colorado.
Tre giorni dopo il Professore chiamò nuovamente, si informò distrattamente dei progressi del lavoro e decise che probabilmente il Laboratorio di Denver non era la miglior scelta, di gran lunga superiore sarebbe stata quella di muoversi su New York. Lì c’era un Laboratorio all’avanguardia che stava validando una ipotesi di lavoro tanto cara al Professore, cioè che i geni di istocompatibilità fossero sullo stesso cromosoma e vicini a quelli delle immunoglobuline.
L’Assistente trasmise con grande imbarazzo al Direttore del Laboratorio l’ordine del Professore, di cui peraltro non si sapeva più dove fosse. Dr. Beck sorrise con comprensione paterna, data la grande familiarità che aveva con Ceppellini.
Le istruzioni ricevute erano chiare: dirigersi subito a New York e contattare Marcello Siniscalco allo Sloan-Kettering, il quale si sarebbe occupato di tutto. Oggi tutto ciò è parte delle abitudini del jet set scientifico, mentre allora ogni spostamento era sorgente di ansia, in particolare quando non c’era certezza su dove andavi e chi incontravi. L’origine provinciale era una ulteriore aggravante.
L’arrivo a New York fu semplice, compreso raggiungere lo Sloan-Kettering posta al centro di Manhattan. Lì fu accolto con grande calore partenopeo dal Prof. Siniscalco, stella della genetica internazionale, esperienza a Napoli, poi in Olanda ed infine a New York. In più, il Prof. Siniscalco era persona di grande charme personale, aveva moglie tedesca di bell’aspetto, già assistente del Direttore d’Orchestra Zubin Mehta.La loro casa era un punto di riferimento per la comunità scientifica italiana della grande metropoli.
La seconda sorpresa fu quella di trovare in quella sede il Prof. Ceppellini. Il Professore disse che forse New York era più adatta per le esigenze educazionali per un provinciale e cominciò subito ad anticipargli il suo desiderio che Torino partecipasse alla ricerca condotta al Mount Sinai Hospital, in cui si cercava la tanto vagheggiata associazione HLA ed immunoglobuline.
E l’istruzione cominciò subito. Fu presentato al Prof. Kurt Hirschhorn che dirigeva la Genetica Umana ed era persona altamente stimata assieme alla moglie Rochelle, altra importante genetista medica. L’incontro si svolse alla Cornell University, struttura diversa dallo Sloan-Kettering ma distante solo un centinaio di metri.
Giovane allieva di Rochelle Hirschhorn era allora Maria New, che con Ceppellini avrebbe trovato la prima malattia, il cui gene responsabile era posto all’interno della regione HLA.
L’incontro con i Siniscalco fu piacevole e rincuorante, in quanto Marcello aveva una affettività del tutto normale, anzi superiore. Questo significò invito a cene gradevoli (e soprattutto gratuite), piccoli anticipi finanziari in attesa che arrivassero i soldi dalla Svizzera e un incontro con la comunità scientifica che si trovava nella Grande Mela.
In quei giorni l’Assistente fu ospitato nella casa dei figli dei Siniscalco, temporaneamente in Europa per le vacanze estive. Il Professore alloggiava nella Guest House della Rockefeller University, elitaria università posta a 200 metri dal blocco che conteneva Sloan-Kettering e Cornell. A cena il Professore decise che importante tappa dell’educazione sarebbe stato l’incontro con il Prof. Henry Kunkel, il megaricercatore che aveva scoperto la struttura delle immunoglobuline. Il Prof. Ceppellini ammise benevolmente che ben comprendeva il desiderio del giovane Assistente di Torino di tirare fiato e di fare mezza giornata di relax: per questo aveva insistito per il privilegio di un incontro col Maestro in ore civili, in questo caso le 5:30 del mattino.
Il mattino successivo alle 5, l’insonne Prof. Ceppellini e il semi-addormentato Assistente si recarono all’incontro col Maestro, che peraltro aveva già avuto un incontro di lavoro: l’esperienza fu quella di una persona eccezionale, al di sopra di tutti gli standard prima affrontati e con una grande lucidità nella visione della ricerca medica. Alla fine del colloquio, rapido spostamento alla Cornell ed incontro con Maria New, già al lavoro. Decisamente un mondo diverso dai ritmi confortevoli di Ferrara e quelli sonnacchiosi di Torino.
Ormai il Professore aveva deciso: c’era un bellissimo progetto portato avanti da una giovane ricercatrice della Mount Sinai Medical School, che sosteneva l’ipotesi che i geni della istocompatibilità e quelli delle immunoglobuline erano localizzati in posizioni vicine sul cromosoma 6. Avrebbe trovato lui personalmente una sistemazione ove stare con tutti i conforts e provveduto ad una compensazione extra per pagare le spese nella grande città. Il giorno successivo, il Professore guidò l’inesperto provinciale all’Annenberg Building della Mount Sinai Medical School, una costruzione nuovissima posta tra la 5 Strada e Medison Avenue, top della ricerca e nel posto più di moda per gli occhi di un provinciale. Il giovane ricercatore era in realtà una ricercatrice sudafricana, Moira Smith, già avanti con gli anni, e che aveva dati che andavano contro le osservazioni di Carlo Croce, allora bambino prodigio di Hilary Koprowski del Wistar Institute di Philadelphia. Moira Smith non era certo una che facesse vibrare per carica di entusiasmo: tuttavia il Professore disse che si trattava di uno dei più avanzati progetti, il Laboratorio era oggettivamente molto bello e quindi la proposta fu accettata. Inoltre ci sarebbe stato il rimborso di tutte le spese anticipate per la missione in Colorado.
Il giovane ricercatore fu posto provvisoriamente nella casa della Young Men Hebrew Association (YMHA), la controparte della wasp e cristiana YMCA. La struttura era nota per avere una delle più belle sale da concerto per musica classica, una piscina al 7 piano, ma le stanze facevano apparire lo Spielberg una suite e tutto era guidato dalle regole della religione dominante.
Il ricercatore sistemò le proprie Samsonite e gli abiti, tra cui una bella collezione di Lacoste, residuo di antiche floridità economiche ferraresi. La parte finanziaria era drammatica, ma papà Antenore provvide con un piccolo sostegno dall’Italia.
Si trattava ora di fare un piano dettagliato di sopravvivenza, basato anche su un’attenta valutazione dei costi: il cibo era la prima istanza, ma ciò che si trovava nella YMHA aveva nomi oscuri e presentazioni di modestissimo appeal. Optò allora per gli enormi supermercati, dove potevi trovare di tutto ed anche imitazioni di cibo italiano, fatte per la robusta comunità italo-americana con altrettanto robusti stomaci. Si limitò ad acquistare una buona scorta di cibi consumabili nel loculo, che non necessitassero di cottura e che avessero anche un po’ di sapori di casa. Le baguettes formato USA furono l’accompagnamento per preparazioni di panini a base di salame, coppa e prosciutto, buoni succedanei di odori/sapori familiari.
L’inesperto ricercatore aveva trascurato una serie di piccoli ma vitali dettagli. Uno era la Security, termine allora non di moda in Europa, indicante che quelle strutture che avevano uno o più poliziotti privati che controllavano le ID, un surrogato in plastica che faceva testo più di un documento di identità. Il passaporto non aveva alcun valore. I signori della Security dellaYMHC avevano in testa un berretto da poliziotto ma sotto portavano un curioso zuccotto, indicante che appartenevano alla Comunità ebraica di New York, allora la più forte anche in termini numerici.
La Security aveva un compito di assicurare che gli entranti avessero il diritto di entrare (vedi ID) e che venissero rispettate le regole della Comunità Ebraica. Una delle più importanti era che il cibo doveva essere approvato e certificato dal rabbino. La Security con zuccotto lanciò una sospettosa occhiata ai sacchettoni di cibo, che lanciavano messaggi olfattori ben precisi sul loro contenuto. “Is this stuff kosher?” chiese con fare burbero, accento di Brooklyn e sospetto dipinto in volto, l’addetto alla sicurezza. L’inglese era quello che era, il provinciale pensò si trattasse del nome di un cibo locale e tenne a precisare con regionale orgoglio che invece si trattava di salame, coppa e prosciutto. Erano anni che in una struttura della Comunità non si vedeva un affronto del genere e il Security man chiese aiuto al suo collega, travolto dalla ripugnanza e dalla sorpresa.
Ancora una volta, l’inesperto visitatore non capì bene cosa stava accadendo ma la prudenza campagnola suggerì una poco dignitosa ritirata con il sacco degli affettati, consumati nel Central Park. Decisamente la YMHA presentava difficoltà adattative per gente della Bassa.
Intanto, il Prof. Siniscalco cominciava a presentargli tutti i giovani ricercatori italiani presenti nella città e che costituivano una rete solida di mutuo soccorso in un ambiente poco incline a sfumature mediterranee. Uno dei primi ad essere conosciuto fu Roberto Sitia, che con la moglie Iaia formavano la coppia più bella e raffinata della comunità. Ottimo inglese, esperienze precedenti, sicurezze familiari formavano il cocktail vincente per un ricercatore all’estero. In più, Sitia aveva un ottimo background fornito dall’Università di Genova.
Bob (Sitia era per tutti Bob) capì che era di fronte a un caso un po’ difficile e prese a sua volta il subappalto della educazione del nuovo visitatore. La prima tappa fu l’uso della “cafeteria”, il punto nodale dello Sloan-Kettering, ove i post-doc e gli junior scientist si scambiavano (poco) i risultati ed impressioni e cercavano invece di strappare confidenze e dati degli altri. L’elemento più difficile erano le interazioni con gli addetti alla mensa. L’addetto tipo era in genere costituito da persona dell’altra robusta comunità, quella nera, molto spesso coinvolta in lavori più umili, oltre a questo non è che brillasse per la qualità dell’inglese, decisamente poco comprensibile anche ai locali. Sitia era già passato attraverso queste, per lui, sciocchezze e ordinò un qualche cosa totalmente incomprensibile al visitatore. Questo fu preso da piccolo attacco di panico per la coda premente e per la incapacità di individuare qualcosa di civile. Abbozzò un timido “the same” che gli garantì un “hamburger, rare, to go”. Nessuno a Ferrara o in altre scuole di inglese aveva mai accennato a questi tre minacciosi termini indicanti, un hamburger al dente da portare via. Il tutto fornito da adeguato lancio da professionista di baseball, con conseguente colata di schifosi succhi e accompagnato da Coca Cola (localmente ed esclusivamente Coke) con quantità industriali di ghiacci di dubbie origine e pulizia. Nulla poteva fare una differenza maggiormente percepibile dagli incontri allo “Spuntino Campagnolo”, salame affettato in obliquo, copia di pane all’olio e vinello bianco spumante e adeguatamente ghiacciato.
Altra conoscenza fu Patrizia Ammirati, ricercatrice romana del gruppo Aiuti, giunta con una bella collezione di foulard di Hermes e sete europee. Era giunta nel Laboratorio di Bob Evans, gemmato da Boston de Schlossman e che guidava l’unità di Cell Sorter allora la chicca tecnologicamente più avanzata dello Sloan-Kettering. Persona molto demanding, aveva iniziato un duro trattamento con Patrizia, che dopo qualche mese ebbe qualche sbandamento reattivo. La situazione si agrravò quando la povera a una nuova richiesta di lavorò sbottò con un “basta!”, scambiato dal bizzoso Evans come “bastard”. Solo il potenziale di mediazione di Siniscalco riuscì a sanare la lacerazione, che avrebbe significato ritorno immediato a Roma.
Altra persona di interesse fu Paolo Antonelli, che lavorava da Dupont, ricercatore danese della prima generazione HLA. La caratteristica più interessante dell’Antonelli era in realtà quella di essere fidanzato con Giny Dymbort, allora tecnica del Laboratorio di Evans e che costituiva uno dei primi ponti con la comunità americana reale. Inoltre Giny era carina di per sé, dotata di grande humour ebraico alla Woody Allen e viveva nel building dello Sloan-Kettering alla 78° Est, subito acquisito come centro di cene civili preparate in casa. Il giovane Assistente cominciò a sentirsi circondato da un ambiente amichevole e cominciò ad aprirsi, raccontando anche le sue vicissitudini di inizio carriera. Il racconto “Malavasi, paghi lei!” divenne un must relazionale e l’interpretazione si ampliava ogni volta. E ogni volta cresceva la comunità ascoltante, nessuno si stupiva in quanto alcuni avevano storie di gran lunga più pesanti e complesse ed altri addirittura dolorose. A questi gruppi partecipava anche il giovane Augusto Cosulich, delle omonime linee Cosulich, grande famiglia di armatori triestino-genovesi, che avevano in New York una base molto importante di trasporti. Augusto e la bellissima moglie e il più piccolo abitavano non i loculi tipo YMHA, nemmeno gli studio degli altri giovani ricercatori, ma vivevano in un appartamento vero e ricco di conforts. Lo stesso facevano gli appartenenti all’altra comunità di Manhattan, costituita da gente che lavorava nelle banche italiane. Questi vivevano in appartamenti veri, avevano stipendi significativi e prestavano attenzione anche a quello che avveniva nella città. L’inesperto Ricercatore aveva notato che esistevano delle differenze logaritmiche fra quartieri posti a Est, le Avenues centrali. Altre aree erano invece drammaticamente degradate e addirittura era difficile e pericoloso entrarci. Ed esempio, andare a trovare Paolo Tonda alla Columbia Medica era avventura da ricordare andandoci con la metro, appena più facile ma non certo confortevole arrivare alla Columbia di Lettere, posta alla 116 Ovest.
I bancari invece guardavano con occhio interessato proprio queste aree più degradate dove comprovarono numerosi appartamenti a due (duplex) o tre (triplex) piani per qualche migliaio di dollari, rivenduti negli anni successivi per molti milioni di dollari.
Il lavoro Mount Sinai iniziò subito: infatti, il Professore partito improvvisamente per l’Italia e Basilea spingeva moltissimo perché la competizione nel campo era alta. Il Laboratorio di Moira Smith era bello e ricco, inserito nell’Unità di Medical Genetics al 16° piano, da cui si godeva una vista mozzafiato sul water reservoir del Central Park. Certo, la visione era un po’ più aulica che non il semplice Po su cui si affacciava l’Istituto di Genetica Medica e la divisione di Medical Genetics era al centro di interazioni con tutti. Robert J. Desnick era assatanato cultore di una visione metabolica della genetica e della possibilità di correggere terapeuticamente difetti con trattamenti di enzimi purificati. (continua…)
Fabio Malavasi