LA SARDEGNA RINUNCI ALLA RESURREZIONE DELLE INDUSTRIE

Chi aspira ai voti dei sardi, è logico inveisca contro la ‘desertificazione industriale’ e sbraiti che l’isola ha ‘diritto’ al denaro del contribuente perché miniere e manifatture risorgano. Ma è un inveire e sbraitare senza speranza. Non una delle attività decedute o morenti dovrà ricevere ulteriori investimenti caritatevoli.

Meritano modesti aiuti pubblici solo quelle piccole manifatture che siano giustificate da una genuina domanda locale o di nicchia; che cioè grazie a speciali circostanze riescano a battere la concorrenza nazionale e dell’intero globo. Tra tali speciali circostanze non può mancare l’accettazione di salari, profitti e diritti sindacali più bassi; e così pure la disponibilità di incentivi a carico dei soli contribuenti sardi. Mancando i fattori speciali, le manifatture locali vanno lasciate chiudere. Erano sorte quasi tutte artificialmente, poi erano state a lungo mantenute dai sussidi. I sussidi non dovranno riprendere: non tanto perché contribuirono ad ingigantire un debito pubblico oggi forse indomabile, quanto perché crearono e puntellarono industrie senza mercato, false.

Con la concorrenza globale una Sardegna industriale è una contraddizione in termini. Non è scritto da nessuna parte che tutti i territori della Terra creino o conservino un settore manufatturiero: a meno che sia voluto da un patriottismo locale eroico, per motivazioni non economiche e con risorse proprie. Però i fini di redistribuzione della ricchezza nel territorio si conseguono meglio diversamente.

Invece l’Italia, nonché l’Europa nelle sue componenti prospere, hanno il dovere di aiutare la Sardegna a soccorrere i suoi disoccupati: non con salari, stipendi e dividendi impossibili, ma con sussidi minimi di sopravvivenza. Sembra che a una parte dei senza lavoro dell’isola non arrivino nemmeno gli assegni previsti dalla ‘mobilità’ o altre provvidenze di fascia bassa. Qui come ovunque è tassativo garantire che a nessuna famiglia, specie se con figli, manchino le poche centinaia di euro mensili indispensabili per campare; e pazienza se la certezza del soccorso incoraggerà all’ozio una minoranza di indolenti. Né la Sardegna né alcuna altra parte del contesto europeo -italiano in ogni caso- dovrà rassegnarsi alla tragedia della fame.

Detto questo, segmenti non irrisori della popolazione sarda dovranno tornare al settore primario: all’agricoltura ovunque ne sia possibile l’intensificazione, e all’allevamento, soprattutto ma non solo ovino. Quest’ultimo  è giusto sia promosso al massimo delle possibilità. Non sappiamo se possano migliorare le prospettive di mercato per la lana e le pelli. E’ certo che la caseificazione, già importante, va rilanciata in grande. Il  pecorino sardo è uno dei formaggi più importanti in assoluto; quello molto stagionato può superare il migliore parmigiano. Probabilmente la pastorizia merita più aiuti che la stabulazione. Il lavoro  pastorale esige abnegazione, anche se oggi i disagi possono essere sensibilmente attenuati (un camper può essere più confortevole, certo più amabile, di certi alloggi operai). E non è necessario additare altri aspetti della qualità del vivere sui pascoli alti che incombono su due mari.

Restano le grandi promesse del turismo, ben oltre le località costiere e del diporto costoso. E’ eccezionalmente alto il valore del patrimonio naturalistico. Ma la sua valorizzazione esige l’abbattimento di molti edifici pseudo-industriali. L’invenzione di un settore manufatturiero è stata una sventura doppia: ogni capannone, oltre a creare illusioni, ha cancellato il turismo.

L’attenuante è che un tempo il turismo di massa non esisteva. Esistevano il miraggio del carbone, le lusinghe dell’alluminio e le elargizioni romane a cambiali.

Demetrio