Tanti disoccupati, tante aziende fallite, una disperazione che produce suicidi, da un lato. Da un altro lato una sterminata fungaia di capannoni, in parte vuoti, che hanno consumato territorio e sconciato le contrade di quello che fu il Bel Paese: Cominciando dal Veneto e dal Friuli di pianura e di collina, comprensori dove potendo non si va più., dolorosi da attraversare se costretti. In queste condizioni è inevitabile ragionare: una parte dei capannoni, condannati dalla globalizzazione a non riaprire persino in caso di ripresa, andrebbero demoliti per mitigare l’aggressione all’ambiente e al turismo. Altri capannoni forse riapriranno. Altri ancora vanno ristrutturati radicalmente invece che abbattuti: per non distruggere a cuor leggero la loro residua utilità. In questa sede non possiamo fare numeri, e non sapranno farlo presto gli economisti, i sociologi, gli ingegneri. Possiamo additare alcune ipotesi di riuso.
Molti disoccupati definitivi non potranno non perdere la casa (anche perché al tempo dell’euforia molte case erano state volute esageratamente grandi, proibitive oggi da pagare, mantenere, riscaldare, salvare dai pignoramenti. Ebbene, ove ricorrano le condizioni, senza dubbio ardue, un tot di questi capannoni sarebbero idonei ad essere convertiti in aggregati di abitazioni per chi ha perso il reddito. Anche gli architetti più modesti sanno come ristrutturare e abbellire edifici sorti come fabbriche, centri logistici, magazzini specializzati. Gli esempi sono molti e sotto gli occhi di tutti.Filande, cartiere, mulini e pastifici industriali che sono diventati edifici residenziali, uffici, atelier di moda. I giovani architetti sono tanti, hanno idee: sono in grado di offrire le soluzioni perché le famiglie che perdono la casa tradizionale, quella per cui non si può più pagare il mutuo o l’affitto o le spese, ottengano alloggi meno tradizionali e meno costosi. La formula più razionale è probabilmente il co-housing: aggregazioni abitative dove gli alloggi individuali siano ridotti alle dimensioni minime imposte dai bisogni di base, mentre ampi spazi comuni complementino le ridotte funzioni del alloggi individuali. Quindi grandi bagni, lavanderie, ambienti di lavoro e di studio, aree di soggiorno tipo terrazze e atrii da utilizzare insieme, come nelle hall degli alberghi e delle grandi comunità; oppure da utilizzare a rotazione ove esigano privacy.: Sono disponibili ogni tipo di componenti prefabbricati e coibentati che rendano la riconversione più o meno spartana di delle strutture industriali/commerciali. Nelle hall degli alberghi e della grandi comunità gli individui e i gruppi trovano le condizioni per convivere. Il co-housing non vuole innumerevoli soggiorni e tinelli, ma uno solo di dimensioni adeguate.
I disoccupati e gli imprenditori sfortunati non hanno i mezzi per le ristrutturazioni e il co-housing. Qui la collettività interverrebbe in una prospettiva di razionalità: non salvataggi di imprese fallite e morenti, bensì dare una casa (e, come vedremo, una modesta occasione di lavoro, magari in cooperativa) alle vittime della crisi e della sfortuna. Quando possibile le persone pagherebbero un affitto, oppure comprerebbero a condizioni di favore. L’investimento pubblico sarebbe produttivo e non puramente assistenziale. Se i complessi di co-housing offrissero anche spazi per attività lavorative, per esempi laboratori o botteghe, persone o cooperative vi avvierebbero attività, giovandosi tra l’altro della vicinanza casa-bottega, così contrastando la resa all’inattività e all’indigenza. Un metalmeccanico può imparare a farsi idraulico o riparatore. Nelle condizioni opportune si incoraggerebbe la nascita di cooperative tra membri del co-housing.
Non sarebbero molti i capannoni e le fabbrichette idonei alla ristrutturazione, ma questo non dovrebbe scoraggiare bensì favorire esperimenti al tempo stesso di solidarietà (un alloggio a chi l’ha perduto) e di bonifica ambientale (ridurre il numero di offensivi capannoni, relitti di naufragio).
A.M.C.