PAESE RICCO E POVERO PAESE

C’è ancora qualcuno che cerchi disperatamente una buona notizia, qualcosa che possa allietare la fine d’anno e il nuovo inizio? Eppure c’è, sotto gli occhi di tutti, grossa come una casa, e neppure freschissima. Già in settembre l’”Economist” ci aveva informato che siamo ricchi, addirittura i più ricchi di tutti. Emergeva da una tabella ricavata dalle fonti più autorevoli che ci attribuiva un patrimonio familiare complessivo superiore, in percento del PIL, a quelli di Gran Bretagna, Francia, Giappone, Stati Uniti e Germania (quest’ultima umiliata da uno spread a rovescio di oltre 150 punti) nell’ordine. Niente male, per la vecchia “grande proletaria” di un secolo fa, ancora piuttosto stracciona nell’era fascista, protagonista di un miracolo economico dopo la seconda guerra mondiale ma ricacciata indietro di brutto dalla crisi generale tuttora in corso, che l’ha colpita più duramente di qualsiasi altro paese più avanzato dell’Occidente.

Una vera bomba, insomma, a malapena ridimensionata da un rapporto della Banca d’Italia a metà dicembre che ci retrocede al terzo posto, dopo (per pochissimo) Gran Bretagna e Francia ma sempre davanti a tutti gli altri. Se dobbiamo invece credere a “Die Zeit”, che quasi contemporaneamente ci ha dedicato un paginone con i nostri dati economici essenziali, saremmo soltanto settimi al mondo con un patrimonio medio pro capite di quasi 43 mila euro. Ma anche così, crediamo, c’è di che sgranare gli occhi. Lo stesso settimanale tedesco non nasconde la sua sorpresa e cerca infatti di spiegare il vistoso contrasto con la maggiore parte dei suddetti dati e i tanti altri aspetti meno o per nulla gaudiosi della nostra realtà nazionale. I quali, oltre a tutto, non sono mutati di molto rispetto a sei anni fa, quando la ricchezza smise di aumentare e cominciò invece una discesa di oltre undici punti.

Spicca notoriamente tra essi un debito pubblico tra i più alti del mondo nonché fonte recentissima, per chi non crede alle trappole e ai complotti, di gravissimi guai e tormenti. E tuttavia non si può dire che il relativo dato sia tale da svuotare di significato classifiche che dovrebbero confortarci. L’indebitamento pubblico complessivo  risulta di poco inferiore ad un quarto del patrimonio familiare, ma la quota dei corrispondenti titoli di credito detenuti da enti e privati connazionali supera la metà del totale ed è anche nettamente più elevata dell’analoga quota dei debiti esteri altrui, con la sola eccezione del Giappone tra i paesi grosso modo confrontabili.

Quanto ai debiti delle sole famiglie, quelli italiani si considerano relativamente leggeri in quanto inferiori, rispetto al reddito disponibile, di quasi un terzo a quelli francesi e tedeschi, di poco meno della metà a quelli americani e giapponesi e di tre quinti a quelli britannici. La pesantezza del debito nazionale nel suo insieme è d’altronde alleviata dalla modestia del deficit del bilancio statale che deve sostenerla e che soprattutto nel 2012 è stato ridotto ad un livello superiore solo a quello della Germania nonchè destinato ad azzerarsi prossimamente se non vi saranno mutamenti di rotta governativa e il contesto internazionale favorirà l’operazione.

La ricchezza, insomma, assoluta o relativa che sia, esiste, per cui anche dell’Italia si può parlare, come si faceva tradizionalmente per la Francia, di uno Stato povero in un paese ricco. Ma è poi davvero povero lo Stato italiano? Se lo è, chi lo amministra può sicuramente darne la colpa ad un’evasione fiscale di massa, da primato europeo se non mondiale. Gli evasori, tuttavia, possono a loro volta scaricare responsabilità dirette e indirette su gestori della cosa pubblica incapaci di estirpare o almeno ridimensionare una corruzione altrettanto radicata e diffusa e una criminalità più o meno organizzata, che gravano anch’esse sull’erario, oltre al resto. E, soprattutto, raramente capaci di usare in modo equo, oculato ed efficace i proventi del fisco quando non dediti nel loro insieme, come nella fase attuale, allo sperpero sistematico del denaro loro affidato, all’arricchimento personale e di gruppo o addirittura al ladrocinio individuale e collettivo.

Nonostante tutto, il paese ha saputo comunque accumulare nel corso dei decenni una ricchezza della quale soltanto adesso si tende a paventare la precarietà, non senza validi motivi, proprio nel momento in cui viene coralmente rivelata o riconosciuta e documentata, mentre persino la potente e prospera Germania comincia a dubitare della propria. In attesa però di vedere meglio come si vorrà o potrà reagire a simili timori, va registrato e sottolineato sin d’ora un dato che già offusca largamente un quadro che altrimenti potrebbe apparire un po’ rasserenato se non proprio luminoso.

La ricchezza, infatti, non soltanto è male gestita e utilizzata a livello collettivo, al punto da rendere fin troppo frequenti ma spesso giustificate le denunce di infrastrutture, servizi amministrativi e giudiziari, sanitari e scolastici, ecc. “da terzo mondo”. Di tutto ciò, insomma, che insieme alla qualità della rappresentanza politica poteva autorizzare il generale de Gaulle ad affermare, contraddicendo Indro Montanelli, che l’Italia non era un paese povero ma un povero paese. La ricchezza nazionale è anche assai male distribuita, al punto da rendere scarsamente o per nulla significativa la relativa media pro capite. Poco meno della metà dei patrimoni familiari è da tempo in mano al 10% più facoltoso della popolazione, mentre la sua metà meno abbiente ne detiene meno del 10%.

Nel primo caso la quota è venuta crescendo dopo il 2008, ossia negli anni della crisi, mentre nel secondo è diminuita, conformemente ad una tendenza ben diffusa in tutto l’Occidente e che in Italia si è fatta in realtà sentire un po’ meno che altrove. Ancora più squilibrata anche nel raffronto internazionale è la ripartizione dei redditi, malgrado una leggera riduzione tra il 1995 e il 2008. Il coefficiente Gini che misura il loro grado di disuguaglianza ci vede superati in Europa solo dal Portogallo e alla pari con la Gran Bretagna. Nel mondo stanno peggio gli Stati Uniti o paesi più poveri e arretrati come il Messico, per non parlare, ironia della sorte, delle grandi potenze ex comuniste, Russia e Cina.

E’ fin troppo facile prevedere che se non si correrà ai ripari in fretta e con risoluta volontà di cambiare strada sotto una moltitudine di aspetti la ricchezza si scioglierà come neve al sole e anche prima di completarsi la sua liquefazione continuerà a colpire soprattutto le masse già più indigenti. Aggravando, nel frattempo, anche un’altra forma di sperequazione: quella geografica, esemplificata tanto per citare una cifra dal fatto che tre quarti delle esportazioni nazionali provengono dalle sole regioni settentrionali. Quelle centro-meridionali stanno specializzandosi nell’export di rifiuti, a spese proprie o meglio di tutti i contribuenti, non senza la complicità delle mafie. Le quali, espandendosi, non mancano peraltro di trovare al nord non poca ospitalità.

Dopo un lungo periodo di sostanziale stagnazione l’Italia è stata, tra i paesi membri del G7, quello con la crescita del PIL più vicina allo zero anche nel 2011, sopravanzata solo dal Giappone vittima però del disastro di Fukushima, ed è l’unica a chiudere il 2012 in marcata recessione accompagnata forse, ma a distanza, dalla Gran Bretagna.

Esistono alternative credibili alla crescita ininterrotta e a tutti i costi? In linea teorica probabilmente sì. In concreto, la loro eventuale adozione non potrà certo avvenire su due piedi, sarà sicuramente laboriosissima se non dolorosissima e in ogni caso richiederà la profusione di creatività, sacrifici e compromessi per consentire l’instaurazione di inedite forme di vita e di convivenza interne e internazionali. Non tutti i paesi riusciranno nell’impresa con la stessa rapidità e lo stesso successo. Mentre in Germania il dibattito sull’opzione della crescita zero è già in fase avanzata, nell’Italia che stenta a sbarazzarsi del problema Berlusconi  non se ne trova quasi traccia.

Nel frattempo si vanno creando un po’ dovunque, nel mondo generalmente considerato più sviluppato e più progredito, ma in modo particolare in Italia, situazioni economico-sociali sempre più simili a quelle che Carlo Marx vaticinava come premessa per il salto ineluttabile dal sistema capitalista a quello comunista. Più che dal fiasco delle esperienze russa, cinese ed altre le profezie, se non le analisi, marxiste sono state smentite finora dalle contromisure che il capitalismo ha saputo porre in atto nei confronti sia delle sfide avversarie sia dei propri stessi punti deboli. Può darsi che ce la faccia anche dopo la crisi recente e tuttora non superata, della quale si continua a discutere se sia più o meno grave di quella del 1929-1932.

Il suo esito resta comunque incerto, mentre è pressocchè certo che dall’Italia non ci si potrà aspettare un grande contributo all’apertura di nuove vie su scala planetaria, o quanto meno regionale. Eppure solo un quarto degli italiani dichiarano di  apprezzare il capitalismo (e i francesi ancor meno, per la verità, sempre secondo un sondaggio del 2010) e qualcuno all’estrema sinistra ricomincia a parlare di rivoluzione sia pure “civile”. Inutile dire che in questo caso una smentita sarebbe altrettanto sorprendente e ancor più gradita della scoperta della ricchezza.

Franco Soglian