Il Mali è uno Stato dell’Africa occidentale. Ben pochi italiani saprebbero localizzare con esattezza il Mali sulla carta geografica. Eppure il ministro Andrea Riccardi ha ripetuto più volte in queste settimane che l’Italia confina con il Mali. Una forzatura? Una metafora? Riccardi – già presidente della Comunità di Sant’Egidio, benemerita per le molte iniziative di mediazione e di pace condotte in Africa e in altre parti del mondo – è ministro dell’Integrazione e della Cooperazione internazionale. Sarebbe spontaneo aspettarsi nelle parole di Riccardi un motivo di solidarietà. Nel Mali è in atto una crisi che minaccia la stabilità e la stessa integrità dello Stato. In realtà, Riccardi aveva in mente la “sicurezza”: non del Mali, ma dell’Italia, dell’Europa, della Nato. Pensava all’alternativa militare. La crisi interna al Mali, uno dei tanti problemi che derivano dalla formazione di Stati segnati dalle peripezie della storia e per finire dalla spartizione dell’Africa fra una mezza dozzina di nazioni europee nella seconda metà dell’Ottocento, è stata trasformata d’imperio in una crisi globale. La comunità internazionale, come si dice, dovrebbe mettersi in gioco per difendere gli assetti di cui l’Occidente usufruisce per il suo benessere e in ultima analisi per i privilegi del blocco sociale che detiene il potere qui da noi e nel centro del sistema. Se ci sarà un “intervento” avallato da qualche istanza regionale o internazionale e forse dalla stessa Onu, malgrado qualche giustificazione apparentemente di buon senso, si tratterà di un’altra guerra Nord-Sud.
L’argomento corrente è che l’attività ribellistica nel Mali, come del resto con maggiore o minore intensità in tutta la regione sahelo-sudanese, riproduce la fenomenologia del terrorismo e della guerra al terrorismo indetta più di dieci anni fa da Bush junior e proseguita con metodi un po’ ritoccati da Barack Obama. I suoi riverberi possono estendersi all’Europa. Il Mali come un nuovo Afghanistan o forse, con più verosimiglianza, una nuova Somalia: tanto deserto, l’islam in crescita e poco controllo del territorio da parte delle autorità più o meno legittime. Da qui nasce l’allarme anche per l’Italia. Poco importa se l’Italia rischierà di trovarsi di fronte a una realtà che è fuori dal perimetro abituale dei nostri interessi in Africa e con cui non abbiamo nessuna vera dimestichezza. A Bamako, capitale del Mali, un nostro “vicino” stando alle parole di Andrea Riccardi, l’Italia non ha neppure un’ambasciata. Così come non ha un’ambasciata nel Burkina Faso, altro paese dell’Africa occidentale ed ex-possedimento della Francia come il Mali, il cui presidente sempre Andrea Riccardi invitò come co-protagonista del Forum per la cooperazione internazionale organizzato a Milano dal governo italiano ai primi d’ottobre. Il presidente del Burkina Faso si chiama Blaise Compaoré: posa a uomo d’ordine e a interlocutore fidato dell’Occidente ma si porta dietro la fama di aver tradito il suo compagno e “fratello” Thomas Sankara, con cui aveva compiuto un colpo di Stato diventato una “rivoluzione” per realizzare una società pura ed egualitaria. Con i suoi ideali radicaleggianti e minimalisti Sankara si inimicò la Francia e la vicina Costa d’Avorio, presieduta allora da Félix Houphouët-Boigny, massimo garante dell’“Afrique du papa”, e finì assassinato in un complotto che in molti imputano a Compaoré, suo vice e successore.
Nominalmente l’evento di ottobre si proponeva di rilanciare la cooperazione allo sviluppo dell’Italia. Ciò nonostante, Monti, intervenuto alla tribuna del Piccolo Teatro dove si svolgeva il Forum, dichiarò – in parte leggendo il testo preparatogli dai consiglieri di Palazzo Chigi o della Farnesina e in parte per farsi capire meglio sciogliendo in “bocconiano” il “politichese” dei burocrati – che l’Italia contava molto sulle relazioni con l’Africa per i ritorni che possono beneficiare la nostra economia (il famoso “sistema paese”) ma che l’Italia allo stato attuale non ha fondi da mettere a bilancio per la cooperazione.
Il Sudan, come dalla locuzione araba che nella versione completa (sudan al-bilad) significa “terra dei neri” è nota la regione che si estende immediatamente a sud del Sahara, è stato la sede dei primi imperi africani di cui il mondo esterno sia venuto a conoscenza tramite gli scrittori e geografi arabi. Nel Sudan, dove prevale la savana con vegetazione bassa e terre relativamente fertili, sono possibili ampi insediamenti umani, si pratica l’agricoltura e si fanno sentire i lasciti del mondo arabo, cui si devono la religione del Profeta e una concezione dello Stato. Uno degli Stati sudanici fiorito fra il XII e il XIV secolo si chiamava appunto Mali. Il suo sovrano era così ricco che le spese e generose elargizioni sue e del seguito nel corso del pellegrinaggio rituale alla Mecca provocarono un’inflazione al Cairo. Il commercio trans-sahariano, retto principalmente sullo scambio fra il sale degli arabi e l’oro degli africani (“commercio muto” perché le due parti aggiungevano sale o oro finché si trovava un accordo a gesti), promosse lo sviluppo di città come Timbuctu, Gao e Djenné, tutte comprese nei confini del Mali moderno, che sono entrate nella leggenda della memorialistica di viaggio. Le moschee di sabbia che risalgono a una decina di secoli fa – e che non hanno ovviamente la resistenza degli edifici in pietra o marmo del potere e del culto nell’area mediterranea – sono state continuamente rimaneggiate con devozione e sapienza permettendo loro di sopravvivere al tempo. Da quando le rotte dei traffici con l’Africa si sono spostate dal Mediterraneo all’Atlantico, le regioni interne a contatto con il deserto hanno conosciuto un inarrestabile declino a vantaggio delle zone costiere. Le città da favola sono state via via invase dalla sabbia. Nelle cronache di oggi hanno perso ogni grandezza e sono presentate come borghi polverosi. Minacciate dall’iconoclastia dei ribelli, che contestano l’ortodossia della loro architettura, potrebbero di qui a poco essere prese di mira dai carri armati dello scassato esercito del Mali o dai missili e aerei senza pilota americani che potrebbero partire da una base lontana, persino dall’Italia.
La geopolitica di origine coloniale che in questa regione dell’Africa vide la Francia come capofila ha portato alla costituzione, dal Senegal al Nilo, di Stati compositi a cavallo fra l’universo arabo-islamico e l’Africa nera. L’amministrazione francese ha favorito le élites nere, più malleabili e più facili da convertire al cristianesimo rispetto alle popolazioni arabizzanti di fede musulmana del nord. È così che i governi al momento dell’indipendenza avevano il loro fulcro nel sud, anche nell’estremo sud, come in Mali (ex-Sudan francese), di Stati che si prolungano poi in enormi distese desertiche o semidesertiche dentro il Sahara. L’Inghilterra nel Sudan vero e proprio ha perseguito un obiettivo opposto, appoggiandosi al nucleo arabo-islamico del nord per non scontentare troppo l’Egitto, ma ha egualmente preparato una scissione virtuale formando a sud un’élite anglofona e in parte cristianizzata da monaci siriani nei primi secoli dopo Cristo e più tardi, a partire dal XIX secolo, da missionari europei (fra cui si distinse per zelo religioso e attenzione alla cultura locale il nostro Comboni).
Il Sahara è il regno dei tuareg e più in generale delle popolazioni berbere che si dedicano al commercio lecito e illecito lungo le antiche linee carovaniere. Gli Stati costituiti, con la città e l’agricoltura come propri segni distintivi, non amano i modi di vita dei nomadi. Le frontiere sono una garanzia per gli uni e un impedimento per gli altri. Pressoché ovunque si sono succedute forme di irrequietezza, resistenza ai processi di sedentarizzazione e vere e proprie guerre (non necessariamente a fini secessionistici). In Mali governo e tuareg anni fa hanno stipulato un accordo di pace in piena regola, che non ha impedito tuttavia la ripresa della belligeranza perché le terre dei nomadi sono rimaste lontane dagli occhi e dal cuore del potere centrale.
È su questo sfondo che va visto lo scontro che preoccupa la diplomazia internazionale. I termini del conflitto rimontano indietro nel tempo. Ma è ormai evidente la contaminazione frutto da una parte dei movimenti jihadisti che riecheggiano al-Qaida e dall’altra della strategia americana per contenere l’islamismo politico. Il Sahel è una zona di confine fra due mondi nel senso ambivalente di ogni confine. La tradizione africana concepisce il confine come una terra di transito e comunicazione piuttosto che come una barriera. Ma la war on terror non ammette zone grigie. Lo Stato, per alcuni versi guardato con diffidenza da chi vorrebbe soprattutto mercato e flusso di capitali e prodotti, ridiventa prezioso per le funzioni di polizia che dovrebbe svolgere. Mai gli Stati saheliani hanno avuto confini così rigidi come oggi, sotto la tutela delle reti di vigilanza e comunicazione approntate dalle politiche di contrasto di al-Qaida e più in generale delle bande criminali o a sfondo politico-ideologico che praticano il contrabbando e si autofinanziano con le estorsioni e i sequestri di turisti o cooperanti occidentali (il cosiddetto walking money). La “militarizzazione” dello spazio è un ostacolo che i clan berberi vedono come una minaccia esistenziale anche a prescindere dalle logiche che appartengono alla mobilitazione islamica. Il presidio esasperato autoproduce in tutto o in parte i fenomeni che vorrebbe scongiurare e li perpetua. Non è un caso che nessun governo africano abbia voluto prestare il proprio territorio agli Stati Uniti come base ufficiale del loro Comando unificato per l’Africa (Africom), temendo evidentemente di diventare un bersaglio. Ma Gibuti a est e il Mali a ovest forniscono agli americani più di una facility e le conseguenze si vedono. Il Mali è diventato la madre o il padre di tutte le turbolenze e di tutte le interferenze. Le sue istituzioni, fragili malgrado un percorso di democratizzazione coronato da successo, sono esplose.
Il 10 dicembre scorso l’esercito di Bamako ha battuto un colpo. In prima linea c’è l’ambizioso capitano Amadou Haya Sanogo. Il 22 marzo aveva deposto il presidente Amadou Tamani Touré, il padre della rivoluzione democratica che si era indebolito dopo aver cercato di brigare un terzo mandato riformando la Costituzione. Inseguito alle pressioni ricevute dagli stessi protettori del Mali, il capitano aveva accettato di cedere il potere ai civili. La transizione non ha funzionato alla perfezione. Il capo del governo uscito dall’accordo con i militari, Cheikh Modibo Diarra, un astrofisico della Nasa ed ex-presidente di Microsoft Africa, si è dimostrato troppo ingombrante per le pretese di Sanogo, che chiaramente al comando vuole solo uomini di sua stretta fiducia. Il colpo del 10 dicembre non sarebbe peraltro da intendere come un Putsch ma come un semplice avvicendamento al vertice: fuori l’indigesto Diarra e dentro Diango Cissoko. L’Unione europea avrebbe preso per buona la versione di Sanogo.
Lo scopo dell’irruzione dei militari sulla scena già in marzo era di rendere più efficace – ma anche di “nazionalizzare” – la lotta contro la rivolta separatista dei tuareg nel nord del Mali, che hanno finito per essere inglobati, volenti o nolenti, nel big game del terrorismo e dell’antiterrorismo. La guerra si è intensificata ed è stato proclamato uno Stato indipendente, detto Azawad, pari a quasi tre quarti del paese, in cui si mischiano tendenze separatiste e spinte fondamentaliste. I militari lamentavano appunto l’incapacità del governo di venire a capo dell’insorgenza. All’atto pratico, il capitano Sanogo ha incontrato tuttavia le stesse difficoltà e per di più si sta dimostrando tutt’altro che contento di lasciare la leadership alle forze “neo-coloniali”.
Considerando l’impotenza del Mali, in effetti, si è messa in moto una sia pure confusa iniziativa che combina attori regionali e grandi potenze. L’organizzazione regionale per l’Africa occidentale (Ecowas o Cedeao nei due acronimi inglese e francese) ha approvato un intervento militare con truppe che dovrebbero essere fornite anzitutto da Nigeria, Niger e Togo. L’Ecowas è di per sé un’organizzazione economica ma ha già messo alla prova la sua vocazione militare in Liberia e Sierra Leone. È la Nigeriaa dettare i temi e i tempi. La fragilità del sistema regionale è un’incognita per tutti. Dal nord premono in varia misura gli Stati che si affacciano sul Sahel: la Libiaesportando i quadri dismessi della Legione costituita a suo tempo da Gheddafi, la Mauritaniacon la sua cronica instabilità e i confini porosi, l’Algeria con una politica spregiudicata che non si sa dove sia di freno e dove di fomentazione delle ribellioni a fini di controllo per preservare la pace all’interno. L’Algeria è il solo Stato a possedere una strumentazione militare efficace ma è troppo gelosa della sua indipendenza per essere bene accetta agli Stati Uniti come partner a distanza e contraccambia Washington con la medesima moneta. La stessa Unione africana potrebbe chiedere garanzie sulla “costituzionalità” del sistema politico vigente a Bamako prima di assecondare un intervento.
La Francia e gli Stati Uniti, per una volta in sintonia e non in competizione come spesso accade in Africa, sono pronti a fornire assistenza tecnica, armi e addestramento. L’obiettivo sarebbe di ripristinare la sovranità del Mali sull’Azawad. Ci si chiede però quale sovranità e quale Stato viste le condizioni in cui versa il Mali. L’Italia è disponibile per qualche forma di sostegno. I comandi e le corporazioni militari hanno trovato un portavoce interessato nel ministro della Difesa del governo Monti, un ammiraglio che aveva un posto di rilievo alla Nato. C’è chi sta pensando a come reimpiegare in altri teatri di guerra le truppe italiane e le esperienze che saranno ritirate dall’Afghanistan?
La vicenda del Mali ha una portata che trascende la fattispecie singola. È tutta l’Africa compresa fra il Mediterraneo e la fascia sahelo-sudanese a essere progressivamente coinvolta, e quasi assorbita, nelle vicende del mondo arabo-islamico. Da una parte la minaccia del terrorismo, dall’altra gli apparati della war on terror. Non avrebbe molto senso distinguere fra un prima o un dopo, Ci sono ovviamente più di una correlazione e molte reciprocità. È come se l’Africa fosse tornata a quando, nell’Ottocento, il jihadismo politico contendeva all’Europa l’esclusiva dei processi di centralizzazione dello Stato e in prospettiva della modernizzazione. L’azione diplomatica e strategica si dispiega attorno alle crisi che via via scoppiano ma alla base c’è un riassetto che riguarda con gradi diversi la struttura, l’infrastruttura e la sovrastruttura. Anche l’idea di riorientare la cooperazione dell’Italia dal Corno al Sahel appare velleitaria proprio per la complessità dei problemi e delle poste in palio.
Risucchiata nell’Arabistan (non manca nemmeno il petrolio), l’Africa deve fare i conti con il Neo-Impero del Duemila. Gli Stati africani dopo l’indipendenza hanno fatto ampiamente uso delle risorse “esterne” per la loro politica a livello internazionale, a cominciare dai contenitori d’impronta coloniale come il Commonwealth e la Comunitàfrancofona, dimostratisi di gran lunga preferibili per molto tempo agli accordi bilaterali o multilaterali proposti dagli Stati Uniti. Hanno subito i condizionamenti della guerra fredda e in parte l’hanno sfruttata per i loro progetti nazionali. Oggi sono dentro un calderone globale che distorce ogni logica di nation-building o di good govenance dando la precedenza a cause che li scavalcano o li strumentalizzano: la sicurezza di Israele, la bomba di Teheran, le ricchezze del Golfo e naturalmente il revivalismo islamico.
Al di là del merito degli episodi, l’Africa ha mal sopportato il modo in cui la Nato e la Francia in particolare hanno condotto nel 2011 le operazioni in Libia e Costa d’Avorio. Proprio mentre l’Unione africana sembrava aver trovato un’intesa sulla necessità di assicurare soluzioni africane alle crisi africane le crisi in Africa hanno cessato di essere africane e assumono pericolosamente contorni globali. Il governo italiano rischia di lasciarsi trascinare nella ricerca di una pseudo-stabilizzazione con poca o nessuna attenzione per i casi specifici. Romano Prodi è stato nominato rappresentante speciale del segretario generale delle Nazioni Unite per il Sahel: la sua designazione, sicuramente caldeggiata da Riccardi e dal già citato Compaoré, probabilmente accolto con deferenza in Italia anche per questo, ha scontentato altri candidati, fra cui esponenti dell’Algeria e del Ghana e l’ex-presidente dell’Union africana, Jean Ping. Ma Prodi è stato nel complesso accettato con favore in Africa e avrebbe confermato la sua fama di “uomo di pace” procrastinando ogni decisione sull’eventuale operazione militare.
Ci si può chiedere con quale credibilità la Nigeria, tormentata all’interno da una crisi non tanto diversa a parte le proporzioni da quella che imperversa nel Mali, esporti la guerra in un paese vicino invece di risolvere o cercare di risolvere i problemi interni. La Nigeriain effetti compete con il Sud Africa per l’egemonia in Africa. Mentre il Sud Africa è attaccato nel complesso a principi di autonomia come potenza “emergente” del Sud prendendo le distanze dalle strategie occidentaliste, la Nigeriaha tutto l’interesse ad accreditarsi come un buon alleato degli Stati Uniti e della Nato. Anche la gigantesca rendita petrolifera in Nigeria è impegnata in grande quantità per munirsi di armi e expertise militare. Tutte le occasioni per esibite l’hard power sono buone. Per questola Cina in Nigeria è poco presente e se mai è attivala Russia, che offre aiuti militari.
Nelle due crisi maggiori del 2011, Libia e Costa d’Avorio, la Nigeria aveva battuto il Sud Africa per due a zero ma le imprese delittuose di Boko Haram e le domeniche di sangue nelle chiese nigeriane hanno convinto i più a rompere gli indugi affidandosi al Sud Africa quando si è trattato di scegliere il nuovo presidente dell’Unione africana. L’elezione della candidata del Sud Africa, addirittura una ex-moglie del presidente Jacob Zuma, è un segnale importante. Il mancato rinnovo del mandato al presidente uscente, il gabonese Ping, può suonare come una sconfitta dei paesi francofoni ma è stata prima di tutto una sconfessione della Nigeria che l’ha appoggiato strenuamente per bloccare la vittoria di Nkosazana Dlamini-Zuma alla testa della Commissione di Addis Abeba.
Gian Paolo Calchi Novati