BERSANI STUDI DA DEPRETIS E GIOLITTI: CON RENZI POTREBBE FARCELA

In sé Pierluigi Bersani non è che il Proco buono. Uno dei pochi vassalli di Itaca che avrebbero potuto essere risparmiati dall’implacabile arco di Odisseo. Bersani è, tra i capibanda della nostra camorra partitica, forse quello che ha le mani e l’anima meno sporche. Appartiene al Mob di Chicago, ma è un fatto che ha vinto bene le primarie ed ora è premier in pectore, fa visite di presentazione alle cancellerie, compila liste di ministri. Gli ha giovato esser figlio del Benzinaio di Bettola, comune piacentino che ha la fortuna d’essere scambiato per la giurisdizione di don Camillo & Peppone, la prediletta tra le piccole patrie italiane. Anzi, se ci saprà fare, lui next premier fonderà in sé, casalingo centauro metà uomo metà cavallo, i cromosomi e i Dna dell’arciprete che fu cappellano d’artiglieria e dell’unico gerarca simpatico di provenienza Pci.

Persino con questi atouts il successore di Monti rischia grosso. Rischia di risultare nient’altro che uno dei tanti pari grado di Rumor e Forlani. A Monti questo è già capitato, per aver deciso di rispettare le regole dell’oligarchia e il mandato del Colle. In più Bersani non ha dietro di sé un partito di potere vero, quale era la Dc di Rumor e Forlani. Ma se il rischio è grande, grandi sono anche le opportunità. Potrebbe andargli meglio del previsto. Di seguito elenchiamo le cose che gli occorrono per fare il gran salto, da comprimario a mattatore.

1. Liquidare Vendola, of course. Lo indennizzi facendolo ambasciatore all’inutile Onu, oppure ad Ottawa onde avvicinare al luogo natio il convivente il cui nome ci sfugge. Potrebbe anche, con la minaccia di un’uscita dell’Italia dal Palazzo di Vetro, ottenere per l’Esodato da Terlizzi la copertina di ‘Time’ o di ‘Vanity Fair’. Sempre facendo la voce grossa, potrebbe fargli assegnare il Nobel per l’affabulazione lirica o, a scelta, per il massimalismo da macchietta.

2. Destinare Matteo Renzi a n° 2 del governo, oltre che Mario Monti al Quirinale. Così le vittorie elettorali sarebbero schiaccianti e il Pd si ergerebbe a partito di quasi tutti gli italiani: non degli astenuti, delle schede bianche e nulle, dei grillini, dei padani, delle amazzoni pdl e di un po’ di lunatici.

3. Realizzare le promesse e mezze promesse mancate da Mario Monti: equità dei sacrifici, tagli brutali ai costi della politica, cancellazione di una Camera e delle province, dimezzamento dei compensi ad alti burocrati e a boiardi, dismissione di beni pubblici, eccetera. In più, rottamazione dei vecchi gerarchi e volti nuovi. La crescita, Monti non l’ha mai veramente promessa; per Bersani-Renzi non è tassativa, né del resto è realizzabile attraverso ‘politiche industriali’ o ‘di sviluppo’.

4. Una volta che il compimento dell’agenda Monti abbia rafforzato il nuovo corso, lanciare e imporre l’agenda Bersani-Renzi: passaggio a uno Stato social-liberale, o liberal-sociale, le cui priorità siano un certo livellamento delle condizioni e la graduale evoluzione del sistema in senso tendenzialmente collettivistico. I contenuti popolari dell’agenda Bersani-Renzi otterranno un vasto consenso, coll’inoperante opposizione delle columns di Piero Ostellino, delle invettive di Oscar Giannino e di altri nostalgici del liberismo. Dovranno seguire la patrimoniale e le immediate rettifiche della politica estera: ritiro di tutte le operazioni militari, uscita dalla Nato, miniaturizzazione dei bilanci della difesa. Obbligatoria la chiusura e vendita del Quirinale coi suoi arazzi e le dipendenze estive.

Direte: sono discorsi semiseri. Tuttavia ammetterete che, combinando i vari fattori -l’agenda Monti, le novità di Renzi, l’affidabilità del figlio del Benzinaio, la bonomia di don Peppone, le direttive di Bruxelles, le esigenze dei mercati- i futuribili qui esposti si fanno verosimili. Storicizzando, diciamo che a Bersani, se farà i compiti a casa, potrebbe arridere la fortuna che andò ad Agostino Depretis e a Giovanni Giolitti. Le loro furono le strade maestre della politica italiana tra l’Unità e il fascismo.

Mazziniano in gioventù e pro-dittatore in Sicilia nel 1860, Depretis dominò la scena tra il 1875 (discorso di Stradella) e  la morte nell’87. Presidente del Consiglio per undici anni, è deprecato come l’inventore del Trasformismo. Ma il Trasformismo non fu solo inciucio e connubio. Fu anche fine del monopolio della Destra agrario-preindustriale, confluenza di tradizioni, gestione condominiale della realtà di un regno appena unificato. Di Giolitti, il maggiore governante italiano tra gli anni di Cavour-Garibaldi e quelli di Mussolini, tutti sanno tutto. Va solo ricordato a Bersani, quando le prime difficoltà lo deprimeranno, che l’avvio del trentennio giolittiano non fu fortunato (scandalo della Banca Romana, fuga del Nostro in Germania). Successivamente Giolitti torreggiò come ‘dittatore parlamentare’ e artefice della trasformazione del liberalismo, da notabilato dei ceti alti a grande forza centrista, conduttore naturale della nazione. La sola dura sconfitta dell’Uomo da Mondovì fu il non essere riuscito a scongiurare l’intervento del 1915.

Nonostante gli anatemi di rito alla Salvemini, il trasformismo e il giolittismo restano riferimenti obbligati per la prossima fase. Il Partito democratico deve trasformarsi, e insieme al Pd deve trasformarsi lo Stivale. Depretis e Giolitti non erano pensatori, ma statisti del concreto. Nemmeno Bersani e Renzi sono pensatori; statisti del concreto possono diventarlo (Teodorico, Carlo Magno e il sassone Ottone il Grande non sapevano né leggere né scrivere). Non è chi non veda le affinità delle circostanze politiche tra i tempi Depretis-Giolitti e i nostri. Non è evidente il potenziale sincretico tra il vinattiere di Stradella il deputato di Dronero e ‘quei Due’?

Porfirio