MARCO VITALE E ALBERTO MAZZUCCA: I NOSTRI SOLDI AL PUBBLICO, AI SINDACATI, ALLA CHIESA

Mentre una grossa fetta del Paese stringe la cinghia, le Caste continuano a costare cifre spropositate: il capo della polizia italiana è pagato il doppio del presidente degli Stati Uniti, il nostro Ragioniere generale dello Stato guadagna quasi quattro volte il presidente della Federal Reserve USA, il direttore del nostro Monopolio di Stato (ma non erano stati aboliti i Monopoli di Stato?) guadagna quasi tre volte quello che guadagna il presidente della Corte Suprema americana. E poi una sproporzionata quantità di soldi pubblici – quindi dei contribuenti italiani – sperperati in tangenti, per l’acquisto di case personali, per investimenti in Tanzania. Soldi che non possiamo più permetterci di buttare via. Così accendiamo i riflettori sui nostri soldi per i partiti, per la Chiesa, per il sindacato.

di Marco Vitale e Alberto Mazzuca
da AllarmeMilano-SperanzaMilano 

Come si confrontano i compensi pagati ai dirigenti dell’amministrazione pubblica in Italia con quelli americani? Allego un prospettino che li evidenza. Come si può notare, il capo della polizia italiana guadagna (cioè, è pagato) il doppio del presidente degli Stati Uniti. Anche i molti direttori generali dell’lNPS prendono più di Obama…

I compensi della Pubblica Amministrazione

Abbiamo deciso di andare più a fondo sul come e sul dove finiscono i nostri soldi. Perché, diciamola tutta, noi di Allarme Milano Speranza Milano ci sentiamo presi in giro dai nostri politici. Il Parlamento ripassa la palla al Governo sulla norma che fissa a 300 mila euro lo stipendio dei superburocrati di Stato; il presidente del Senato, Renato Schifani, fa il furbetto in quanto taglia i benefit degli ex presidenti di quella che è la seconda carica istituzionale del Paese ma assicura che i loro (e suoi) privilegi potranno essere comunque goduti per dieci anni; la quantità sproporzionata di soldi che i partiti ricevono sotto forma di rimborsi elettorali e che sono invece utilizzati per investimenti in Tanzania e in Norvegia o per comprare lussuose case personali come se questi soldi fossero loro e non invece dei contribuenti italiani. E ancora: i ritardi incomprensibili nella lotta alla corruzione, i ritardi nella riduzione del numero dei parlamentari, nella riforma dei loro vitalizi, nel taglio delle Province e via di questo passo. Si potrebbe continuare a lungo in questo Paese delle meraviglie.

Ci siamo così concentrati su tre aspetti. I nostri soldi ai partiti, i nostri soldi per la Chiesa, i nostri soldi per il sindacato.


I NOSTRI SOLDI AI PARTITI

Elio Veltri e Francesco Paola hanno recentemente pubblicato un libro importante intitolato: ”I soldi dei partiti; tutta la verità sul finanziamento alla politica in Italia” (ed. Marsilio, 2012, pagg. 239, euro 16). L’unica cosa sbagliata in questo libro è il titolo. Infatti non si tratta di “Soldi dei partiti” ma di soldi nostri ai partiti.

Il referendum abrogativo del 1993 fu chiaro. Gli italiani pensavano che i partiti, quali libere associazioni private, non devono essere finanziati con il gettito fiscale, ma devono finanziarsi fondamentalmente attraverso liberi contributi dei loro associati o sostenitori (art. 49 della Costituzione: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente ai partiti, per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”). Ma la volontà degli italiani fu aggirata con l’”escamotage” del rimborso delle spese elettorali. Ed oggi le oligarchie partitiche italiane (tutte) vengono alimentate da un’enorme massa di denaro pubblico controllato e gestito da poche persone se non dirottato in Tanzania o per usi privati, senza il minimo controllo.

Ma è necessario chiarire subito una questione fondamentale. La mancanza di controlli adeguati, l’assenza di ogni ombra di quel “metodo democratico”, che è pur elemento essenziale dell’articolo 49 della Costituzione, è cosa certamente grave, ma non è il cuore del problema. Il cuore del problema è che questa massa di denaro, bene o male amministrata che sia, è assolutamente spropositata rispetto al ruolo, alla natura, al contributo dei partiti. Essa è in contrasto plateale con l’art. 49 della Costituzione. Le oligarchie partitiche italiane si alimentano di un finanziamento pubblico ai partiti italiani che è il più elevato d’Europa. È un lusso che il Paese non può più permettersi. Questo sistema è tanto più pericoloso perché dovrebbe incrementare la partecipazione democratica, mentre in realtà ottiene l’effetto opposto.

La partecipazione democratica si realizza quando gli associati di un movimento lo sostengono con le loro idee e con i loro contributi. L’attuale sistema, invece, tende ad escludere gli associati sia come contributori che come gestori che come controllori. Non alimenta lo spirito e le buone pratiche democratiche, ma diffonde nella politica lo spirito e le cattive pratiche mafiose. È poi necessario eliminare dall’inizio un altro imbroglio. Qualcuno dice: il finanziamento pubblico è necessario altrimenti solo i ricchi faranno politica. Il ventennio Berlusconiano è davanti agli occhi di tutti a dimostrare il contrario.

Stiamo, forse, fuoriuscendo da un tremendo ventennio, dominato da un ricchissimo signore che nel corso dello stesso ha comprato tutti i consensi di cui aveva bisogno e che ha trasformato il Parlamento in ufficio quasi privato. Ed il finanziamento pubblico non è stato certamente un argine contro questa degenerazione. Perché a questo strapotere del denaro si risponde con la forza delle idee, con il coraggio, con la moralità, con l’impegno e il contributo di migliaia e milioni di associati che bisogna saper mobilitare, e non andando ad incassare soldi pubblici da investire in Tanzania o in palazzi privati.

La democrazia è una cosa seria e se vogliamo ricostruirla dobbiamo ancora una volta ribellarci ai metodi mafiosi ed affaristici delle oligarchie partitiche. Dobbiamo lanciare un nuovo referendum abrogativo dei rimborsi elettorali e sostenere una proposta di legge di iniziativa popolare che imponga ai partiti quel “metodo democratico” che chiede l’art.49 della Costituzione. Dobbiamo riprendere il discorso dal 1958, quando il Senatore Luigi Sturzo propose il testo del disegno di legge n. 124 contenente: “disposizioni riguardanti i partiti politici e i candidati alle elezioni politiche e amministrative”, che pubblichiamo a parte, nella rubrica “l’album”.

Ma di quanti soldi stiamo parlando. Elio Veltri – Francesco Paola, con una accurata ricerca, forniscono le seguenti stime:

Contributi ai gruppi parlamentari
di Camera e Senato, dal 1994 al 2010                      1.5 miliardi di euro

Contributi ai giornali di partito
(esclusi quelli a radio e televisioni di partito
e quelli ai giornali politici e culturali)
dal 1990 al 2009                                                             850 milioni di euro

Contributi ai partiti e rimborsi
elettorali dal 1974 al 2012                                            5.9 miliardi di euro

E quello che preoccupa è il trend. I rimborsi elettorali dal 1999 al 2008 sono aumentati del 1110%. Così come preoccupa l’impropria definizione di rimborsi elettorali. Le spese di Rifondazione Comunista, per la campagna elettorale dell’aprile 2006, ad esempio erano state di 1 milione e 636 mila euro, mentre i contributi, in base ai voti ottenuti, furono di 6 milioni e 982 mila euro all’anno per i cinque anni della legislatura 2006-2011. In totale 34 milioni 932 mila euro. Quindi 100 euro investiti da Rifondazione nel 2006 hanno reso 2135 euro. Invece nel 2008 la Lega Nord ha registrato spese elettorali accertate dalla Corte dei Conti di 2 milioni e 940 mila euro. A fronte di questa spesa il Carroccio ha incassato da Roma ladrona 8 milioni e 277 mila euro all’anno per cinque anni. Dunque 100 euro investiti dalla Lega nella campagna elettorale del 2008 sono diventati 1408 euro. Naturalmente per i partiti maggiori gli effetti sono maggiori e sono certo che Berlusconi non ha rimesso una lira con il PDL che nel 2008 a fronte di una spesa di 54 milioni ha registrato un incasso di 206; ciò vale del resto per il PD, che registra una spesa di 18 milioni e un incasso di 180 milioni di euro.

Ma chi vuole andare a fondo di questa gravissima minaccia in atto contro la democrazia italiana, troverà nel libro di Veltri – Paola ricchi spunti e insegnamenti. A noi basta, in questa sede, lanciare un grande grido d’allarme.

Marco Vitale
I NOSTRI SOLDI PER LA CHIESA

Non è per niente facile stimare quanti dei nostri soldi vengono, in via diretta od indiretta, versati alla Chiesa cattolica. Un buon lavoro di ricostruzione l’ha fatto Stefano Livadiotti (“I senza Dio, L’Inchiesta sul Vaticano”, Bompiani, 2011), dal quale traggo le cifre che utilizzerò. Ma è evidente che anche questa ricostruzione è incompleta.

In questi giorni il governo Monti ha cercato, pressato dalle autorità di Bruxelles, di limitare l’esenzione dall’ICI reclamata da 20 anni dalla Chiesa e stimata, per quanto riguarda gli immobili commerciali (attività turistiche, assistenziali, didattiche, operative, sanitarie) in un mancato introito di 700 milioni di euro all’anno. Dopo un intervento della Corte di Cassazione, nel 2004, che aveva dato ragione ai sindaci che, per gli immobili adibiti ad attività commerciali, pretendevano il pagamento dell’ICI, fu il Governo Prodi–Bersani a decretare, nel 2005, l’esenzione per gli immobili destinati ad attività “non esclusivamente commerciali”. Questo mostro giuridico ha, di fatto, convalidato l’esenzione a favore del Vaticano ed ha aperto un infinito contenzioso, che è sfociato nel compromesso Monti, che sembra un passo avanti ma che è prudente vedere come va realmente a finire.

Ma il grosso dei nostri soldi alla Chiesa si realizza attraverso l’8 per mille dell’IRPEF, introdotta nel 1984. Oggi l’8 per mille vale 1 miliardo e 118 milioni, pari a 31.478 euro per ogni sacerdote. Ma ai sacerdoti la CEI versa direttamente solo 10.541 euro. Un 7,6 % va come aiuto ai Paesi del terzo mondo. Il resto mantiene l’apparato di potere del Vaticano. In passato vigeva la congrua, in base alla quale lo Stato pagava una somma per ogni sacerdote. Un sistema chiaro e lineare. Mentre l’8 per mille è oscuro nella determinazione e nell’impiego. Inoltre una serie di autentici trucchi fa si che alla Chiesa competa una quota molto più elevata rispetto al consenso effettivamente ricevuto.

Ad esempio, nel 2004, la Chiesa cattolica è stata scelta solo dal 34,56% dei contribuenti italiani, ma i metodi di calcolo hanno finito per attribuire alla stessa l’87,25 delle indicazioni formulate. Il meccanismo è poi tale per cui il contributo può salire (trainato da PIL e da pressione fiscale) anche quando il numero dei consensi diminuisce (come avvenne nel 2007 presumibilmente per la atroce questione pedofilia). La quota destinata ai sacerdoti invece o diminuisce (come è avvenuto tra il 2009 e il 2011) o sale molto più lentamente. Sicché il differenziale acquisito dalla Chiesa è salito dai 65 milioni iniziali ai 758 milioni di euro per il 2011 (con un incremento del 1066 per cento). La revisione concordataria prevede una possibile revisione dell’aliquota, che dovrebbe avere luogo ogni tre anni. Ma questa proceduta non è mai stata attivata.

Oltre alle esenzioni ICI (oggi forse diminuite) e alle generosissime modalità di calcolo dell’8 per mille, lo Stato assume direttamente il costo dei 26.326 insegnanti di religione (un costo di poco inferiore all’8 per mille), di fatto scelti dalla Chiesa. A questi grandi filoni vanno aggiunti molti altri rivoli minori ma, nell’insieme, molto rilevanti, come: contributi all’editoria gazzette parrocchiali, elargizioni di enti locali ed enti vari (esempio: due milioni e mezzo elargiti da Protezione Civile per il raduno di Loreto dell’Azione Cattolica). Poi vi sono i corrispettivi per i servizi resi, dai matrimoni ai funerali, che non dovrebbero essere impartiti a pagamento ma che, in realtà, hanno delle vere e proprie tariffe, pagate in nero. Ed infine vi sono tutti i prelievi impropri spremuti da organizzazioni come la Compagnia delle Opere, il braccio economico di Comunione e Liberazione (come ha ben documentato Ferruccio Pinotti nel suo: “La Lobby di Dio”).

Aveva, dunque, ragione il cardinal Marcinkus, spregiudicato prelato affarista, che disse: “La Chiesa non si dirige con le avemarie”. Ma in una fase storica, in cui tutti gli italiani sono chiamati a rimettere ordine, sobrietà, trasparenza nel loro agire quotidiano, anche la Chiesa deve cambiare e smetterla di vedere lo Stato come qualcosa da mungere e basta.

Marco Vitale
I NOSTRI SOLDI PER IL SINDACATO

Il potere finanziario dei sindacati rappresenta uno dei segreti meglio custoditi.

Era così alla fine degli anni Settanta quando, giovane giornalista de Il Giornale di Montanelli (quello serio, non la gazzetta umoristica di questi ultimi vent’anni anni al servizio di un corruttore), iniziai a scrivere del bisogno in questo Paese di trasparenza nei conti del sindacato. Di tutto il sindacato, quello che allora veniva chiamato “la Triplice”. Come risposta fui “bollato” – da esponenti socialisti e comunisti che poi hanno fatto il salto della quaglia schierandosi sotto le ali protettive di Berlusconi – con un termine allora usato in modo dispregiativo: fascista.

Ed è così ancora oggi, la trasparenza è un optional. Perché delle allegre finanze dei sindacati italiani – ovvero Cgil, Cisl e Uil, quelli che Stefano Livadiotti, un giornalista con cui ho lavorato all’Espresso, ha definito “l’altra Casta” in un libro del 2008 edito da Bompiani – si sa ben poco. Si calcola che i sindacalisti in servizio permanente effettivo siano circa venti mila (ma i delegati sindacali in Italia sono 700 mila, sei volte più dei carabinieri) e che, di conseguenza, Cgil, Cisl e Uil siano tra le prime dieci imprese private italiane. Con l’esenzione dal dover applicare il famoso art. 18, quello che obbliga il datore di lavoro solo per giusta causa ma che paradossalmente non si applica ai sindacati in base ad una legge del 1990. E con fatturati da multinazionale in quanto, ad esempio, si calcola che allorché il 23 marzo 2002 la Cgil di Guglielmo Epifani portò tre milioni di persone in corteo a Roma in difesa dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori, la confederazione abbia dovuto spendere più di 50 milioni di euro tra spese per il treno o il pullman e il cestino da viaggio che costa attorno ai trenta euro per ogni manifestante.

Fatturati sconosciuti in quanto i sindacati non hanno l’obbligo di un bilancio consolidato. E quindi non sono nemmeno soggetti al controllo della Corte dei Conti pur ricevendo anche soldi pubblici. Di conseguenza tutti fanno finta di non sapere niente – forse anche quelli che Massimo D’Alema definisce in privato “i tre porcellini”, ovvero i tre leader a capo di forzieri così pieni di quattrini – dal momento che ogni realtà territoriale o di categoria fa i suoi conti ma tutto si ferma poi lì. Quindi la Camusso, Bonanni e Angeletti possono dire: non sappiamo. E perché è difficile fare i conti in tasca alle confederazioni sindacali? Perché i soldi arrivano nelle casse attraverso tante strade diverse: i contributi degli iscritti, l’attività dei Caf e dei patronati con il loro trattamento fiscale, il patrimonio immobiliare, i distacchi di pubblici dipendenti (circa tremila persone, con il vantaggio che vengono pagate dall’amministrazione di provenienza), l’attività di formazione (un miliardo e mezzo l’anno dall’Europa oltre a 700 milioni di stanziamenti dello Stato italiano), la raccolta del 5 per mille, i movimenti dei consumatori collegati (Federconsumatori, Adoc, Adiconsum), il business degli immigrati, eccetera. Tutte miniere di un grande e ricco business.

La maggior risorsa economica dei sindacati sono i contributi pagati ogni anno degli iscritti, anche se non si sa nemmeno con esattezza quanto siano veramente gli iscritti. Diciamo comunque un miliardo di euro, in quanto questa è la cifra che aziende ed enti previdenziali versano ogni anno a Cgil, Cisl, Uil trattenendola da stipendi e pensioni degli iscritti. Insomma, il sindacato incassa questa montagna di quattrini senza fare nemmeno la fatica di raccoglierla. E per quanto nel 1995 il 56% degli italiani abbia detto di sì al referendum di Marco Pannella per l’abrogazione dell’obbligo alla trattenuta automatica dalle buste paga, tutto è poi rimasto come prima grazie a qualche furbata.

I patronati (assistono i pensionati nelle varie vicende previdenziali) e i CAF (assistono di solito i lavoratori nella dichiarazione dei redditi) sono due miniere d’oro (esentasse) in quanto queste assistenze non sono gratuite, lo Stato paga per questi servizi. Secondo le stime di Giuliano Cazzola, deputato del Pdl ma ex sindacalista della Cgil, si tratta di circa 200 milioni di euro per i CAF e di 350 milioni all’anno per i patronati, avendo i sindacati il monopolio delle pratiche con gli enti previdenziali. Tutto al riparo da tasse e controlli.

Il patrimonio immobiliare è sterminato. Una grossa fetta è quella dei beni dei sindacati fascisti ed ereditata con una legge del 1977 senza pagare una lira. Ma senza un bilancio consolidato è quasi impossibile capire quale sia il valore reale degli immobili. La Cgil dichiara di avere sparse per tutto il Paese circa tremila sedi, tutte di proprietà delle strutture territoriali o di categoria. La Cisl vanta un numero ancora maggiore di immobili, quasi cinquemila e quasi tutti di proprietà. La Uil ne ha molti di meno ma è anche l’unico sindacato che ha cercato di fare un po’ d’ordine concentrandoli in una società per azioni. Ma quello che sorprende è che su questo incredibile patrimonio immobiliare il sindacato non versa nemmeno un euro di ICI nelle casse dei Comuni grazie ad una legge del 30 dicembre 1992. Già, 30 dicembre…

E allora: si è tanto parlato (e criticato) della Chiesa che non paga l’ICI. E del sindacato? Silenzio. Ma se cominciassimo invece a fare un po’ di trasparenza proprio qui?

Alberto Mazzuca