MARCO VITALE: QUALI IDEE VECCHIE ABBANDONARE E QUALI IDEE NUOVE SEGUIRE PER USCIRE DALLA CRISI

La crisi finanziaria americana,  e la conseguente crisi economica generale, è anche la caduta della visione ideologica  che ha dominato l’economia mondiale negli ultimi venti anni, sviluppata negli USA e diffusa nel mondo dai neoconservatori americani, dalle banche d’investimento statunitensi, dai loro portavoce presso le Università di tutto il mondo, dalle grandi società di consulenza.

Avevano detto che la deregolamentazione selvaggia dei mercati avrebbe portato produttività e benessere per tutti. Ora sappiamo che non è vero.

Avevano detto che il darwinismo sociale è il motore dello sviluppo e che la solidarietà sociale era un fattore negativo. Ora sappiamo che non è vero.

Avevano detto che le differenze economiche tra i più ricchi e i più deboli dovevano aumentare e non diminuire per creare una più vigorosa spinta allo sviluppo. Ora che queste differenze negli USA e nei paesi americaneggianti, come l’Italia, sono al massimo livello degli ultimi ottant’anni, sappiamo che non è vero.

Avevano detto che bisognava privatizzare ogni cosa, unica via per salvarci dall’inefficienza dello Stato. Ora che i governi americano e inglese e altri governi hanno dovuto massicciamente intervenire per salvare privatissime banche e assicurazioni  e l’intero mercato dal fallimento, sappiamo che non è vero.

Avevano detto che il mercato e solo il mercato doveva reggere la società senza che altri schemi tenessero insieme il tessuto sociale, che il mercato era tutto e che tutto allo stesso dovesse essere sottomesso. Ora sappiamo che non è vero.

Avevano detto che al centro del sistema, come motore dello stesso, doveva esserci il “capital gain”. Adesso sappiamo che non è vero.

Avevano detto che la globalizzazione all’americana doveva andare bene per tutti, perché era il migliore dei mondi possibili. Ora sappiamo che non è vero.

Avevano detto che gli Stati Uniti erano talmente forti non solo militarmente ma anche finanziariamente da non aver bisogno di nessuno e che sarebbero sempre andati avanti per la loro strada, unilateralmente. Adesso sappiamo che non è vero.

Come sempre, dunque, quando si verificano grandi sconquassi economici, si assiste anche  al tramonto di un’intera concezione, di un sistema di pensiero. Oggi sappiamo che non è vero. Ma, tuttavia, ci rifiutiamo di riconoscerlo. La grandissima maggioranza dell’apparato delle scienze economiche e sociali ha fatto quadrato rapidamente, ergendo un muro difensivo per difendere il sistema ed evitare fughe in avanti. Naturalmente ci sono importanti ma non numerose eccezioni (e da noi mi piace citare soprattutto Stefano Zamagni) ma l’atmosfera dominante è stata quella del “quieta non movere”. Ma, per fortuna, le cose non sono più quiete.

Ciò fu subito chiaro,  sicché sin dal 2009 potevo lanciare un allarme verso il sistema che rifiutava di leggere la profondità della crisi e la necessità di nuovi paradigmi culturali, valoriali ed anche tecnici. Il più forte partito in questa direzione fu quello che chiamai “dei minimalisti conservatori[1].

La progressione logica dei minimalisti-conservatori, al di là delle enfasi diverse, segue uno schema abbastanza uniforme, articolato su tre punti:

  • la crisi è sostanzialmente dovuta a errori di valutazione tecnica;
  • la crisi era totalmente imprevedibile;
  • quindi non c’è niente da cambiare, né nella organizzazione economico-sociale né nel pensiero; bisogna  solo aspettare che la crisi passi, magari con l’aiuto di qualche stimolo fiscale.

Questo partito, fortemente ideologico fu, da noi, ben rappresentato dal rettore della Bocconi, Guido Tabellini che, nel 2009, concluse un importante dibattito  su Il Sole 24 Ore[2] con queste memorabili e lungimiranti parole:

“Come sarà ricordata questa crisi nei libri di storia economica? Come una crisi sistemica e un punto di svolta, oppure come un incidente  temporaneo (sottolineatura aggiunta) e presto (sottolineatura aggiunta) riassorbito, dovuto ad una crescita troppo rapida dell’innovazione finanziaria? Se guardiamo alle cause della crisi, e alle lezioni da trarne, la risposta è senz’altro  (sottolineatura aggiunta) la seconda. In estrema sintesi, la crisi è scoppiata per via di alcuni specifici problemi tecnici riguardanti il funzionamento e la regolamentazione dei mercati finanziari, ed è stata acuita da una serie di errori commessi durante la gestione della crisi… Vi sarà un’altra rivoluzione (come quella degli anni Trenta) nelle idee degli economisti circa i compiti della politica economica e il funzionamento di un’economia di mercato? Io penso di no. Le lezioni da trarre, per quanto importanti, sono più circoscritte. Riguardano principalmente il funzionamento di alcuni aspetti dei mercati finanziari, e in particolare la gestione del rischio, e l’assetto della regolamentazione finanziaria. Ma non vi sarà una revisione sostanziale degli obiettivi di politica economica, né dei concetti fondamentali di come funziona un’economia di mercato”.

A questo non pensiero  io contrapposi il pensiero che Luigi Einaudi dedicò alla crisi degli anni 20-30:

“Come si può pretendere che la crisi sia un incanto, e che a manovrare qualche commutatore cartaceo l’incanto svanisca? Ogni volta che, cadendo qualche edificio, si appurano i fatti, questi ci parlano di amministratori e imprenditori incompetenti, o avventati, o disonesti. Le imprese dirette da gente competente e prudente passano attraverso momenti duri ma resistono. Gran fracasso di rovine, invece, a chi fece in grande a furia di debiti, a chi progettò colossi, dominazioni, controlli e consorzi; a chi per sostenere l’edificio di carta fabbricò altra carta, e vendette carta a mezzo mondo; a chi, invece di frustare l’intelletto per inventare e applicare congegni tecnici nuovi o metodi perfetti di lavorazione e di organizzazione, riscosse plauso e profitti inventando catene di società, propine ad amministratori-comparse, rivalutazioni eleganti di enti patrimoniali. L’incanto c’è stato, e non è ancora rotto; ma è l’incanto degli scemi, dei farabutti e dei superbi. A iniettar carta, sia pure carta internazionale, in un mondo da cui gli scemi, i farabutti e i superbi non siano ancora stati cacciati via se non in parte, non si guarisce, no, la malattia; ma la si alimenta e inciprignisce. Non l’euforia della carta moneta occorre; ma il pentimento, la contrizione e la punizione dei peccatori; l’applicazione inventiva dei sopravvissuti. Fuor del catechismo di santa romana chiesa non c’è salvezza; dalla crisi non si esce se non allontanandosi dal vizio e praticando la virtù”.

E aggiunsi[3]

 

“Bisogna smetterla di ingannare la gente facendo credere che i governi abbiano la  bacchetta magica per scongiurare le conseguenze di crisi gravissime come questa. I governi potevano evitare la generazione di una crisi così grave, che è conseguenza di una visione irresponsabile dello sviluppo, della montatura di una economia di carta, del gigantismo bancario, della deregolamentazione finanziaria selvaggia (le banche sono rimaste regolamentate, ma il trucco è consistito nel portare fuori dal circuito bancario, in circuiti totalmente non regolamentati, il grosso delle operazioni finanziarie e di credito), delle conseguenti manipolazioni finanziarie. Si poteva evitare e governare tutto ciò.  Ma ora che, con la loro acquiescenza, la frittata è fatta, i governi possono solo attenuare gli effetti della crisi e cercare di compensarla impostando nuovi temi di sviluppo, ma non certo cancellarne le sue dure conseguenze.”

Questa è la crisi della degenerazione del mercato, non del mercato in sè. Evitiamo dunque di cadere in una astratta disputa astratta e ideologica su più mercato o più Stato, ma analizziamo e curiamo le cose che non hanno funzionato sia nello Stato che nel mercato. Non si tratta di guardare indietro, ma avanti. Non si tratta di invocare più Stato, ma più diritto, più regole, anzi più principi, più responsabilità diffusa, più rispetto del mercato;  si tratta di tagliare le unghie ai ladri, di mandarli in prigione, di ricostruire economie efficienti ma giuste, severe ma solidali e di avviare una globalizzazione al servizio dell’uomo, di tutto l’uomo e di tutti gli uomini e non solo dei potenti, ricchi ed irridenti che hanno contrassegnato la non felice stagione che, forse,  si sta chiudendo. Ma non nutriamo eccessive illusioni. La resistenza del sistema è fortissima

C’è un test divertente di quanto sto dicendo. In un incontro di studiosi, tra i quali alcuni americani, mi è capitato di leggere le profonde parole di un grande economista liberale, Luigi Einaudi. Sono parole lette da Einaudi nell’aprile 1945 nella Relazione del Governatore della Banca d’Italia per l’esercizio 1943. Einaudi disse: “Le banche non sono fatte per pagare stipendi ai loro impiegati o per chiudere il loro bilancio con un saldo utile; ma devono raggiungere questi giusti fini soltanto col servire nel miglior modo possibile il pubblico”. Quando lessi queste parole uno studioso americano presente commentò francamente: “Se qualcuno avesse pronunciato queste parole in America, quattro anni fa, avrebbe avuto buone possibilità di venire ricoverato in un ospedale psichiatrico”. Oggi questo, forse, non succederebbe più, e in ciò consiste il cambiamento e anche la speranza.

Questa resistenza intellettuale della maggioranza degli economisti e dei governi a riconoscere la vera natura della crisi e la sua profondità, fu da me paragonata all’atteggiamento dei medici o governanti milanesi ai tempi della peste descritta dal Manzoni che, nonostante gli allarmi lanciate dagli incaricati  Tadino e Settala, si rifiutarono a lungo di riconoscere l’esistenza della peste:

“Come non paragonare le acrobazie intellettuali e verbali dei medici milanesi che, a nessun costo, volevano parlare di peste e citavano “febbri maligne” e “febbri pestilenti” pur di non usare la parola: “peste”  (”miserabile rufferia di parole, e che pur faceva gran danno”, dice il Manzoni), con il pervicace e prolungato rifiuto da parte dei nostri economisti di usare la parola “recessione” e con la tesi, a lungo sostenuta, che la crisi finanziaria non avrebbe toccato l’economia reale (distinzione già di per sé, sempre e comunque, demenziale)?

Come non paragonare le prime misure prese dai governi e soprattutto gli ultimi atti del presidente Bush e del suo malefico ministro del Tesoro, Paulson, aventi natura più di esorcismi che di rimedi, con la pressione pubblica e popolare che forzò il riluttante arcivescovo Federigo a dare l’assenso alla grande processione, con esposizione delle spoglie di San Carlo, l’11 giugno 1630, che, incrementando le occasioni di contagio a causa della gran folla, fece esplodere il numero dei morti per peste? E qui, invece di  attribuire l’effetto alla causa vera, si scatenò la caccia agli untori.

Come non paragonare l’improvvisa euforia che sta prendendo molti, che festeggiano la presunta fine della crisi prima che si realizzino le correzioni di sistema necessarie per avviare un nuovo ciclo di sviluppo sostenibile, con la felice e serena convinzione di Don Ferrante che “in rerum naturam” la peste non può esistere, perché non è sostanza né spirituale né materiale e che la vera ragione del contagio è la fatale congiunzione di Saturno e Giove: perciò non ci sono cautele da prendere ma occorre solo aspettare che la congiunzione passi (vedi i nostri minimalisti–conservatori e/o nihilisti), sicché Don Ferrante morì di peste sereno e felice? 

La progressione è descritta dal Manzoni, con grande efficacia, con queste parole:

“In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo[4]. Poi, febbri pestilenziali: l’idea s’ammette per isbieco in un aggettivo[5]. Poi, non vera peste; vale a dire peste sì, ma in un certo senso,  non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome[6]. Finalmente, peste senza dubbio e senza contrasto: ma già ci s’è attaccata un’altra idea, l’idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l’idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro”.

Con l’idea del venefizio e del malefizio si innesta nella successione la fase tragica degli untori e della caccia all’untore, che finisce per apparire plausibile anche a una mente limpida e acuta come quella del medico Tadino e, persino, si insinua nella mente dell’arcivescovo Federigo. E qui dobbiamo stare bene attenti, per non cadere anche noi in questa spirale. Se abbiamo usato, e ancora useremo, parole severe verso la congrega degli economisti e dei banchieri, perché ciò è indispensabile, dobbiamo guardarci dal veder in loro la causa unica della crisi. Sarebbe una insensata caccia all’untore. Parimenti se abbiamo usato parole di severità verso certi interventi dei governi o verso i loro ritardi e le loro omissioni, dobbiamo guardarci dall’attribuire loro tutte le responsabilità della crisi o del protrarsi della stessa. Sarebbe anche questa un’insensata caccia all’untore.

Dobbiamo piuttosto rivolgere l’attenzione al contesto, all’ambiente nel quale la crisi è stata concepita, è stata a lungo in gestazione ed è poi, alla fine, scoppiata. Dobbiamo guardare a noi stessi come compartecipi di approcci culturali, morali e comportamentali erronei e che dobbiamo correggere”.

Ora dobbiamo guardare avanti con la serenità e la fortezza che scaturisce dalla speranza cristiana, dalla disciplina alla verità (“sia il vostro dire sì quando è sì e no quando è no. Tutto il resto viene dal maligno”), dal disinteresse, dall’amore per l’uomo, tutto l’uomo e tutti gli uomini . Il protrarsi della crisi è tale da giustificare la mia proposta di accantonare la parola crisi (che evoca un processo acuto e breve e che è totalmente usurata) per sostituirla con: processo di trasformazione. Noi siamo, infatti, nel mezzo di un grande processo di trasformazione del quale conosciamo cosa ci lasciamo alle spalle, ma non sappiamo in quale nuova terra approderemo. Ciò dipenderà, in gran parte, da ciò che faremo e da ciò che non faremo, dalle nostre azioni ed omissioni. Il protrarsi di questo processo sta aprendo gli occhi a molti e si sentono, finalmente, voci autorevoli che animano con nuove proposte il deserto intellettuale ancora dominante, che cercano di rispondere un positivo ai gravi avvertimenti di chi non vuole chiudere gli occhi, come Edgar Morin che, nel novembre 2011, scriveva: “Come sonnambuli, camminiamo verso la catastrofe” o come il governatore della Banca d’Inghilterra, Sir Meriyn King che, nell’ottobre 2011, ammoniva: “Siamo di fronte al rischio di un crollo del sistema economico mondiale”; come Stiglitz che nel 2010 diceva: “Stiamo preparando altre crisi altrettanto violente di quella che stiamo attraversando. Crisi che distruggeranno milioni di posti di lavoro nel mondo. Ma, in questi due anni, ci siamo limitati a spostare le poltrone sul ponte del Titone”. In questo panorama un rilievo particolare merita Pierre Larrouturou che, nel 2012, ha pubblicato un denso libretto dal titolo: “C’est plus grave que ce qu’on vous dit… Mais on peut s’en sortir”[7] e che ha fondato un gruppo di pressione, chiamato Roosvelt 2012, insieme a Edgar Morin, Michel Rocard e numerosi altri studiosi ed operatori che si prefigge di combattere il fatalismo e lanciare un New Deal europeo. Una delle loro tesi, da me pienamente condivisa è l’importanza cruciale dell’Europa. Il contributo di pensiero di questo studioso e di questo gruppo è estremamente importante.  Non posso qui riassumerlo, ma mi soffermerò sul punto centrale del loro pensiero, che esprimo con le loro stesse parole: “E’ ora di agire e di reagire. Di esigere ciò che è giusto per noi e per i nostri figli. La giustizia sociale non è un lusso al quale rinunciare in tempi di crisi. Ricostruire la giustizia sociale è il solo modo di uscire dalla crisi. I sonnambuli che governano l’Europa ora devono svegliarsi. Subito.”

Nerlla stessa direzione si muove il recente “Global Democracy Manifesto” lanciato da Attili, Bauman, Chousky, Marrameo, Iglesias, Saviane, Esposito. E Clinton, nel bellissimo discorso tenuto alla Convenzione democratica a sostegno del debolissimo Obama (un fantasma sorretto da un lato dalla moglie e dall’altro da Clinton) ha detto: “

We Democrats – we think the country works better with a strong middle class, with real opportunities for poor folks to work their way into it, with a relentless focus on the future, with business and government actually working together to promote growth and broadly share prosperity. You see, we believe that “we’re all in this together” is a far better philosophy than “you’re on your own”. It is. Now, there’s a reason for this. It turns out that advancing equal opportunity and economic empowerment is both morally right and good economics. Why? Because poverty, discrimination and ignorance restrict growth. When you stifle human potential, when you don’t invest in new ideas, it doesn’t just cut off the people who are affected; it hurts us all. We know that investments in education and infrastructure and scientific and technological research increase growth. They increase good jobs, and they create new wealth for all the rest of us”.

Dunque la giustizia sociale ritorna per molti al centro della concezione dello sviluppo. E come non ritornare qui al pensiero di Maritain (in “L’uomo e lo Stato”) quando afferma che : “da un lato la ragione primordiale per cui gli uomini, uniti in una società politica, hanno bisogno dello Stato è l’ordine della giustizia. D’altro la giustizia sociale costituisce il bene decisivo per le società moderne. Di conseguenza, il dovere primordiale dello Stato moderno è di mettere in atto la giustizia sociale. In pratica, è inevitabile che questo dovere primario venga assolto facendo leva oltre il normale sul potere dello Stato nella misura stessa in cui quest’ultimo è costretto a compensare le deficienze di una società le cui strutture di base sono fuori strada nei confronti della giustizia. Tale deficienze sono la causa prima del disordine. E perciò tutte le obiezione teoriche o le rivendicazioni particolari, per giustificate che possano essere nei loro ambiti specifici, saranno inevitabilmente considerate cose secondarie di fronte alla necessità vitale – non soltanto materiale ma anche morale – di soddisfare i bisogni e i diritti a lungo trascurati della persona umana negli strati più profondi e più estesi della società”.    

Quindi tante delle”idee nuove” altro non sono che idee antiche, idee perenni da ricuperare, aggiornare, rimettere al centro, contrastando la concezione demenziale che ho riassunto nel mio “incipit” e che è ancora dominante. Per queste ragioni la DSC ha ricuperato un nuovo peso, un nuovo ruolo, un nuovo significato. Ma dobbiamo collegarla ad altri filoni di pensiero che pongono al centro l’uomo, il rispetto della dignità dell’uomo, la giustizia sociale. Dobbiamo ricollegarla all’economia sociale di mercato con la quale ha profonde consonanze, con il liberalismo sociale di cui parla Quadrio Curzio, con l’economia civile di cui parla Stefano Zamagni, con la grandissima tradizione dell’illuminismo lombardo per il quale sviluppo economico e “incivilimento” erano la stessa cosa. Questi incroci e collegamenti sono fondamentali perché si tratta di filoni di pensiero che si rafforzano reciprocamente ed assumono, insieme, quella forza necessaria per contrastare il fortissimo “establishment” degli interessi e dell’immobilismo intellettuale  e morale.

L’economia sociale di mercato non è, come molti pensano, una specie di socialistume  o di statalismo mascherato. È una rigorosa dottrina liberale che pretende un mercato efficiente e non truccato. Ma che, al contempo, sa che il mercato non esaurisce tutta la rete delle relazioni umane e sociali, che il mercato deve stare dentro il suo campo di gioco e non prevaricare, che ci sono cose che, come disse Paolo Giovanni II, non si possono né comprare, né vendere. L’economia sociale di mercato rigetta, come male sommo, l’assistenzialismo, ma sa che senza solidarietà e sussidiarietà niente può funzionare bene e durevolmente, ed è proprio qui uno dei grandi incroci con la DSC.

E’ caduta l’economia di carta, cioè quei valori e consumi non frutto del lavoro, dell’impresa, della produttività, della creatività ed impegno dell’uomo, del risparmio, degli investimenti, ma pompati nel sistema dai manipolatori e funamboli del credito, con la complicità e compiacenza dei politici, delle banche centrali, dei regolatori (un fallimento completo), dei santoni dell’economia, dei malfattori in guanti bianchi.  Questi valori erano apparenti, basati sul debito, privi di un attivo sottostante valido e fecondo, proprio come i derivati fasulli. Erano parte del più gigantesco schema Ponzi di tutti i tempi, rispetto al quale la truffa del “povero” Madoff, l’unico che ha pagato, è da asilo di infanzia. E la forza del sistema è stata tale da innestare sulla caduta  la più grande operazione di marketing di successo di tutti i tempo: far credere che il fallimento sia dovuto allo stato sociale, mentre è dovuto alle degenerazioni finanziarie di chi, ora, rimprovera agli stati quei debiti dagli stessi assunti per salvarli  e tenerli al potere, senza condizioni.  La costruzione era simile a quei palazzi che si facevano da ragazzi (non so se i ragazzi di oggi fanno ancora giochi così semplici) con le carte da gioco. Talora, i più abili riuscivano a costruire palazzi persino di tre piani, ma poi bastava una piccola scossa e tutto il castello di carte crollava. L’ho chiamata economia di carta, ma potevo anche chiamarla economia di panna montata. Se è ben fatta e servita molto fresca, la panna montata è molto buona. L’economia di panna montata è stata molto ben servita e tutti o quasi, salvo pochi grilli parlanti, come sempre antipatici e fastidiosi, l’hanno molto gradita. Ma se la si lascia per un po’  al caldo sulla tavola, la panna montata si smonta, si appesantisce, rilascia un liquido non gradevole e diventa rapidamente acida e cattiva. Dobbiamo dirci, onestamente e francamente, che tutti, o quasi, siamo compartecipi ed abbiamo approfittato di questa economia di carta o di panna montata.

Ciò detto e recitato un salutare e liberatorio confiteor è necessario però mettere ordine nella scala delle responsabilità. L’economia di carta, infatti, non piove dal cielo. E’ stata pensata, voluta, teorizzata, costruita, pezzo dopo pezzo, da gruppi dirigenti, soprattutto finanziari ma non solo, che si sono arricchiti a dismisura rubando i soldi dei risparmiatori e che, per quanto possiamo capire ad oggi, rimarranno ricchi, impuniti ed irridenti. L’economia di carta ha avuto i suoi progettisti, i suoi sacerdoti, i suoi cantori, i suoi divulgatori; ha avuto i suoi premi Nobel, tanti, troppi, premi Nobel.

Ma se è caduta l’economia di carta e si è sgonfiata l’economia di panna montata, non è certo caduta l’economia, cioè la capacità dell’homo faber di produrre, migliorare, creare, risparmiare per  una vita ed un futuro migliori. Questa ha solo avuto un forte e salutare rallentamento. Né è caduta la finanza, strumento preziosissimo e chiave di volta dello sviluppo. E’ caduto l’abuso della finanza. La componente di carta e di panna montata non esiste più e va sostituita con nuovi sviluppi di economia vera appoggiata da una finanza sostenibile. Ciò richiederà tempo e sforzi intensi per dar vita ad un’economia finanziariamente, ambientalmente, antropologicamente sostenibile.  Un compito di lungo respiro ed esaltante, che mi fa dire: che bello essere giovani in questi tempi che offrono la possibilità di collaborare alla costruzione di un nuovo mondo e di una nuova economia, molto più civile! Ma dobbiamo accettare serenamente che se l’economia di carta  o di panna montata si è sgonfiata, ciò è un bene e non un male e dobbiamo conseguentemente adattare la nostra vita, i nostri consumi, le nostre abitudini alla nuova realtà. Ecco perché gli agevolisti che vogliono mantenere in vita il passato con la respirazione bocca a bocca sono un grande pericolo. Quello che conta è ricreare lavoro per tutti, anche per quelli che facevano lavori inutili che, inconsciamente, montavano la panna montata. Basta alzare la testa e guardare in giro per vedere quali e quanti sono i bisogni veri ed insoddisfatti dell’uomo, per capire che non c’è un problema reale a perseguire questi obiettivi, ma solo problemi frutto della nostra distorsione e perversione, che dobbiamo correggere.

Dunque le soluzioni non mancano, la direzione di marcia incomincia ad apparire meno oscura, la terra promessa affiora, lontano, tra le nebbie. La speranza cristiana soffia nelle nostre vele. Ma per approdare dobbiamo prima fare una vera e propria conversione. E la DSC può molto aiutarci in questo, soprattutto se sapremo tenere  distinto questo grande pensiero (che non è certo arretrato di 200 anni, come ha detto, nella sua ultima intervista, il cardinale Martini, peraltro parlando di altri temi, ma è anzi all’avanguardia, è il futuro, proprio perché è basata su principi e obiettivi non contingenti), tenerlo distinto, dicevo, dai comportamenti concreti dell’apparto di vertice della Chiesa che, come anche le recenti vicende IOR dimostrano, necessitano, come tutti e, forse, più di tutti, di una seria conversione.

 

Marco Vitale
Intervento al secondo convegno sulla dottrina sociale della Chiesa a Verona
 

 


[1] Marco Vitale, Passaggio al futuro, Egea 2010, Pag. 20

[2] Ora raccolto nel volume, “Lezioni per il futuro. Le idee per battere la crisi”, ed. Il Sole 24 Ore, 2009

[3] Marco Vitale, op. cit. pag. 26

 

[4]  Da noi a lungo è stata rifiutata la parola “crisi”, per parlare, invece, di “rallentamento”.

[5]Da noi  si incominciò a parlare di “minor crescita”.

[6] Da noi finalmente si parla di “crisi”, ma solo finanziaria, che quindi lascerà indenne l’economia reale. A Milano, precisa il Manzoni, si parlava di non vera peste perché non tutti morivano.

[7] Tradotto in italiano con il titolo: “Svegliatevi. Perché l’austerità non può essere la risposta alla crisi. 15 soluzioni da applicare con urgenza”. Ed. Piemme, 2012