Per Giampaolo Pansa (“Se continua così spuntano i colonnelli, ‘Libero’ 23 settembre) le cose dello Stivale vanno così male che la prospettiva del Putsch militare si fa realistica. Pansa ha ragione. La via legale non promette più nulla. Un generale dei carabinieri paracadutisti, anche monostella; meglio, un colonnello con ancora più fegato della monostella, col carisma di farsi seguire da altri ufficiali e sergenti maggiori, vincerebbe senza colpo ferire. Più che coordinare coll’indispensabile talento tecnico azioni disperse nel territorio, renderebbe irresistibile un colpo fulmineo su pochi, pochissimi gangli del potere: compreso lo pseudo ganglo della radiotelevisione di Stato. Non parliamo di quanto efficace sarebbe puntare a salve le bocche da fuoco sulla tribuna delle somme autorità, sparando poche raffiche verso il cielo, in una parata tipo 2 Giugno, poi trasferendo autorità e loro signore a Campo Imperatore (Aquila), dove per poche settimane il maresciallo Badoglio trattenne il Duce.
A valle di 67 anni di peggiocrazia, il repulisti e la proclamazione del Nuovo Ordine susciterebbero maremoti di entusiasmo. Protesterebbero solo i novantacinquenni che fecero la Resistenza, i cinquecentomila e passa (due milioni coi parenti stretti) che vivono di soli furti della politica, le bizzoche delle primarie, i coccodrilli delle urne, i malati delle manifestazioni urbane, gli ex-pensionati d’oro ridotti a mangiare alle mense della Caritas, i consiglieri e palafrenieri del Colle, i quirinalisti uscenti, anzi usciti; più gli impoveriti dalle patrimoniali. L’uomo della strada, cioè le grandi masse, esulterebbe in piazza. Le figlie, quasi tutte liberate, si darebbero ai paracadutisti dopo averli inghirlandati di viole. Non si è mai dato un golpe riuscito che non abbia fatto esplodere la gioia del popolo, cominciando dai proletari e/o precari. Qualche mese fa la percentuale degli estimatori della Casta si aggirava sul 3-4%, comprensiva dell’Uomo del Colle e dei parenti dei politici. Altrettanto irrisorio sarebbe il segmento umano disposto ad esigere la restaurazione della legalità. A valle di Fiorito Penati e Lusi, a valle di un covo di ratti in ciascuna delle istituzioni cloacali della repubblica, la legalità è quella cosa che permise ad Al Capone, pur finito in carcere per evasione fiscale, di non rispondere dei delitti di sangue della sua gang e suoi personali. La rottura della legalità è la costante di tutti i cambi grossi, di tutti i rivolgimenti e le rivoluzioni della storia. Oggi, da noi, la legalità è il salvacondotto a favore dei saccheggiatori. La Costituzione è il titolo di proprietà che intesta lo Stivale ai peggiori tra noi.
I manuali di storia spiegano che nell’Ellade la tirannide frantumatrice della legalità fu la fase che liquidò i regimi aristocratici, cioè oligarchici, e preparò l’avvento della democrazia (la quale fu l’opposto della nostra partitocrazia). Pisistrato ricevette dai cittadini la forza armata con cui si fece tiranno di Atene, e governò (considerato tutto) meglio di Solone. Se oggi due-tre miliardi di poveri del Terzo Mondo hanno qualcosa da mangiare, più qualche misura di Welfare, lo devono alla rottura delle comiche Costituzioni postcoloniali operata nei decenni dai militari detentori delle armi. Senza la minaccia della violenza, mai lo Stivale si libererà dei suoi cinquantamila Proci, o meglio capoladri.
Il vasto appoggio delle masse lavoratrici, ma non solo, è il tratto qualificante e normale dei regimi militari, oppure nati militari e poi divenuti autoritari-amici del popolo. Sorgono e si mantengono in quanto rispondono alle esigenze dei molti; e in quanto, non essendo costretti ai compromessi, ai riti e alle convenzioni del costituzionalismo, sono in grado di imporre volta per volta le soluzioni, giuste o sbagliate che siano, rispondenti alle attese popolari; perciò nell’immediato il consenso di massa si conferma e può accrescersi. Le maggioranze sociologiche non sono tenute al rigore e alla lungimiranza degli statisti alla Quintino Sella, specie di quelli cui i patrimoni ereditati consentono di pensare ai posteri affamando i viventi. Dunque, saggi o demagogici che siano, i regimi forti conservano l’appoggio maggioritario.
I legittimisti di casa nostra non facciano affidamento su una brevità dell’ipotetica gestione militare. Il potere nasserista cominciò esattamente 60 anni fa: per vari adattamenti, evoluzioni e, oggi, contrazioni, perdura. Il Terzo Mondo deve a un alto numero di regimi militari, oppure politici ma basati sull’imposizione armata, sorti dopo la decolonizzazione, se persino le società più primitive si sono alquanto modernizzate, con ordinamenti in qualche misura ispirati al Welfare: assistenza medica primordiale, pensioni (per noi) di fame, più scuole.
Concludendo quanto alla risposta collettiva a un Putsch militare: Iberia docet. Le dittature instaurate dall’esercito ai danni dei politicanti liberali in Spagna (1923) e in Portogallo (1926) furono abbastanza lunghe: quasi sette anni la prima, quasi semisecolare la seconda, evolutasi nel 1933 nell’Estado Novo di Salazar (che aveva esordito come famoso economista alla Mario Monti). Quest’ultima finì, nel 1974, per un altro pronunciamento militare; e a primo capo di Stato della presente fase democratica fu eletto un generale (R.Eanes).
Quanto alla Spagna, nessuno storico nega l’eccezionale appoggio che il Paese dette per circa sei anni alla Dictadura bonaria e amica del popolo del generale filosocialista Miguel Primo de Rivera. Appartenente a un casato che vantava numerosi generali di inclinazioni progressiste, fu il più provvido e amato dei governanti spagnoli nei secoli XIX e XX.
Venisse il golpe, ormai più desiderato che temuto dai più tra gli italiani, non sarebbero le sparute cellule clandestine del sinistrismo similpartigiano, meno che mai le conventicole liberal-borghesi, ad abbattere il regime delle spalline elicotteristiche. Semmai il perbenismo nordeuropeo e, più ancora, il potere finanziario e le agenzie di rating. Nel 1930 andò così al generale Primo de Rivera, benemerito sbaragliatore dei ‘politicastros’.
A.M.Calderazzi