Mai come nel giorno che FIAT ha confermato l’abbandono del programma Fabbrica Italia risulterà la piena verità della profezia di Serge Latouche sulla decrescita. Una predicazione, la sua, ben più saggia che quella di Pietro l’Eremita per far partire la Prima Crociata. Più le manifatture chiudono, di norma per non riaprire, e più le tesi del filosofo francese risultano fondate. La fine dello sviluppo non è intuizione di Latouche, ma sua è la genialità di descrivere ‘felice’ la decrescita. Sua è, in parte, la coerenza di additare la frugalità come la via della salvezza. Il Nostro mette persino a punto il concetto, promettente proprio perché estroso, di ‘abbondanza frugale’. Dimostra che occorre rifiutare il discorso dello ‘sviluppo sostenibile’. A prima vista, dice, l’espressione suona bene, ma è contraddittoria: in Occidente lo sviluppo è sempre meno realizzabile, ed è bene sia così; ma là dove sembra ancora vigere aggiunge disvalori e problemi.
A parte l’originalità di aggettivazioni che è solo di Latouche, le tesi di cui sopra sono state ripetutamente enunciate da alcuni di Internauta, tra cui chi scrive: che ha piuttosto insistito sulla meno attraente formula ‘accettare il ritorno alla povertà’, povertà anche proposta come ‘vita semplice’, fatta delle millenarie ristrettezze delle maggioranze sociologiche del pianeta intero. Mettendo l’enfasi sulla impossibilità di prolungare lo sviluppo, il nostro discorso è meno ardito di quello di Latouche, che è l’indesiderabilità del benessere.
Quanto a me, mi concentro sullo sforzo di dimostrare A) l’eticità di chiudere le imprese che esistono per produrre perdite, dunque l’assurdità e l’immoralità -nelle circostanze d’oggi- di ogni tipo di salvataggio. B) Qualsiasi ‘politica industriale’, oggi che la globalizzazione vince (anche perché è una Dea di giustizia: meno siamo ricchi noi, meno sono miseri i paesi arretrati), significa solo sovratassare per sostenere produzioni che hanno perso il mercato, oppure lo perderanno a breve perchè sarà dei produttori d’oltremare. C) L’imperativo generale non è più difendere i redditi di lavoro, ma scoprire i modi per vivere senza lavoro. La collettività deve certamente prendere a suo carico la sopravvivenza basica delle famiglie, a un livello all’incirca pari alla metà del salario del lavoratore del livello inferiore; l’altra metà devono metterla le famiglie, cambiando modi di vita quanto basta. I ceti superiori dovranno perdere i patrimoni al di sopra della media generale, ma lo stile ‘sottoborghese’ di abitare e di consumare che i proletari avevano conquistato in Occidente non è più sostenibile. I modi per reinventare la vita a redditi dimezzati esistono: Latouche, non certamente ma probabilmente, ha ragione ad annunciare che la nuova vita sarà ‘felice’. Dovrà spiegarsi meglio, e probabilmente lo farà.
Il pensatore bretone coglie nel segno quando invoca di ‘far uscire dalla testa il martello economico’ e di ‘decolonizzare l’immaginario occidentale soggiogato dall’economicismo sviluppista’. Quando si scaglia contro il nostro ‘imperialismo culturale sul pianeta’. In fasi passate collocava il suo impegno in un campo ‘marxista non leninista’. Oggi appare trascurare la pregiudiziale marxista, utile quanto una lampadina fulminata. Orienta l’analisi e, più ancora l’inventiva, sul ‘pari de la décroissance’, su come ‘sortir de la société de consommation’. Imaginosamente intitola un libro ‘La planète des naufragés: essai sur l’après-développement’. Va sottolineata ancora l’efficacia delle formule: il doposviluppo, il pianeta dei nàufraghi, persino il brillante ossimoro dell’abbondanza frugale.
La logica di Latouche non ha bisogno di difese, e nemmeno di molte chiose. I governi europei professano fede nello sviluppo perché sono ‘postdemocrazie dominate dai media e dalla finanza’. Il liberismo sociale non ha senso. Il debito di paesi come l’Italia non sarà onorato. Il capitalismo così com’è rischia di finire, ‘a vantaggio di una forma di fascismo dei ceti alti’ (ma, chiediamo noi, perché no dei ceti bassi, alla José Antonio Primo de Rivera?). Meglio la bancarotta, e poi ripartire da zero.
A parte l’esorbitanza, forse, di quest’ultima tesi, l’ardimento del lavoro di Latouche è inoppugnabile. Dando per dimostrata l’ineluttabilità della decrescita, egli dovrebbe procedere oltre e descrivere come ci organizzeremo nel concreto quotidiano per vivere senza lavoro. Vivere che sarà arduo, non impossibile.
Antonio Massimo Calderazzi