Come giudicare il Settennato che va finendo? Per aver deposto il colpevole del berlusconismo, la nostra riconoscenza verso Giorgio sia eterna. Parecchio meno eterna per aver conferito mandato a Mario Monti di salvare l’assetto partitocratico, invece di abbatterlo. Nella somma algebrica la riconoscenza prevale: il berlusconismo era un vulnus grave. E’ indiscutibile che la scelta della persona di Monti sia stata la migliore in assoluto, per il solo fatto che non appartiene alla Casta dei politici quasi tutti ladri. Peraltro la missione affidata a Monti avrebbe dovuto essere più impegnativa: non solo scongiurare la bancarotta, non solo recuperare per il Paese il sia pur modesto rispetto di un tempo, ma anche sanare la patologia di un sistema politico apparentemente progressivo, in realtà perpetuatore degli equilibri tradizionali. Settant’anni dopo la fine del fascismo l’Italia resta ostaggio della conservazione: conservazione dei privilegi della nascita e della ricchezza, delle usurpazioni dei sindacati, delle lobbies, dei partiti. Le male categorie, i disvalori e i vizi restano uguali. Venendo da un capo dello Stato contraddistinto dal passato comunista, il mandato a Monti avrebbe potuto essere più orientato alla giustizia sociale. D’altra parte, che attenderci da uno che assurse sotto Palmiro Togliatti? Il comunismo è talmente fallito, talmente esecrato dai popoli, che Giorgio aveva il ‘diritto’ di ripudiarlo, di farsi borghese e satellite degli USA.
Più ancora. E’ imperdonabile che il Presidente si confermi ogni giorno come il Cardinale Protettore ed anzi il pontefice massimo della Casta. Più gli italiani disprezzano la classe politica e più Egli la proclama indispensabile, obbligatoria, una condanna senza scampo. E’ imperdonabile che, dovendo l’attuale posizione alla carriera fatta nel Pci, dunque alla spinta ricevuta dal Pci, Egli si recidivizzi nell’obbedienza agli Stati Uniti. Si può chiamare diversamente che obbedienza la singolare abitudine -per la verità attenuata negli ultimi mesi- di definire ‘giusta’ l’impresa coloniale nell’Afghanistan, ed ‘eroi’ quei militari di mestiere, ampiamente incentivati in euro a rischiare lì, che ci lasciano la pelle. La compunzione del Presidente di fronte alle bare tricolori è stata deplorevole. Ancora più deprecabile è che un capo dello stato avvezzo a frequenti interventi ed allocuzioni non abbia mai proposto agli italiani di ripudiare il patriottismo/nazionalismo e di desiderare la riduzione delle spese militari. In quasi sette anni hanno ricevuto la firma presidenziale innumerevoli decreti o leggi che, p.es. hanno fatto eccessivo il trattamento di generali e ammiragli, oppure sancito l’acquisto di armi costosissime. Non risulta pubblicamente che Egli spinga per la dismissione di caserme, poligoni di tiro, navi da guerra, ambasciate o altri beni ‘preziosi’, senza i quali la vita si spegnerebbe. Logico: la nostra ineguagliabile Costituzione, statuto del saccheggio dei politici e dei top burocrati, lo vuole comandante in capo delle Forze Armate ed Egli, si sa, stravede per la Costituzione.
Infine. L’uomo pubblico che, prima di diventare il presidente ‘di tutti’, è stato il politico della classe operaia, o meglio del partito detto operaista, non ha sentito il dovere di smantellare il Quirinale quale tempio e rocca dello sfarzo tradizionale, monarchico-pontificio, dunque classista. Sui bilanci quirinalizi ha fatto sforbiciate talmente esigue da contrastare alquanto nuovi incrementi di spesa, non da operare effettivi tagli. Il Quirinale andrebbe chiuso e venduto al migliore offerente cinese o saudita, attrezzando per le necessità della Presidenza una villa o palazzina, costosa un nono del Quirinale degli arazzi, dei corazzieri e dei palafrenieri. Poche cose sono più inutili ed offensive dei colossi oltre i due metri che campeggiano in tutte le funzioni presidenziali: va da sé che sarebbero facile prede di qualsiasi sicario del quartiere Scampìa, se volesse molestare il Sommo Inquilino. Peggio: per risparmiare qualcosa quest’anno sulla detestabile parata del 2 giugno -quella dell’anno scorso ebbe un costo enorme- c’è voluta una sollevazione popolare.
L’ex-marxista-leninista che siede nella reggia di Monte Cavallo non ha sentito il dovere di sgombrare di cortigiani, quirinalisti e valletti una parte del Palazzo per destinarla, almeno, a spazi espositivi per le opere d’arte che ammuffiscono nei magazzini dello Stivale. La regina Margherita e suo marito convertirono in ospedale di guerra alcune sale della Reggia. Lo statista che ha fatto il comunista per sessantacinque anni si è guardato bene dal convertire le stesse sale in ostello per i senza casa, o per gli orfani, per gli esodati, per i diseredati. In compenso ha proclamato che è -a parole- tutto dalla parte dei minatori del Sulcis. Ai quali va fatto ben altro discorso: quello di Luca Ricolfi su ‘La Stampa’ di oggi 11 settembre: sussidi alle famiglie sì, posti di lavoro artificiali no. Il titolo dice tutto: “Il salvataggio è impossibile”.
Peraltro. Nessun predecessore repubblicano al Quirinale ha sentito i doveri ignorati da Giorgio, oppure ha compiuto altre opere di bene. L’ethos della Costituzione impareggiabile non incoraggia. Giorgio almeno ha cancellato il disonore nazionale del satrapo di villa Certosa. Il quale fra l’altro ha fatto ministre e parlamentari varie callipigie (=belle di culo), allo stesso modo che Caio Germanico Caligola imperatore, nato quest’anno venti secoli fa, elevò al consolato il suo cavallo.
Porfirio