Ormai ci siamo. L’“italiano moderno” (B. Severgnini) sta penetrando in profondità anche nel linguaggio politico ad alto livello. Il viceré del PDL, Angelino Alfano, si è dichiarato risoluto a resettare il partito. Quanti avranno capito, specie tra la popolazione più anziana, d’altronde in procinto di diventare maggioranza assoluta nell’elettorato e perfino nel paese? Molti lettori o ascoltatori lombardo-veneti, meno acculturati e aggiornati dell’uomo politico siculo, avranno subodorato la caduta accidentale di una enne, essendo del tutto plausibile che la creatura di Berlusconi necessiti quanto meno di una vigorosa risciacquatura, ovvero di essere “resentato”. Ma tant’è, forse meglio non esporsi troppo, lasciare un certo margine alla polivalenza concettuale e alla libertà di interpretazione, piuttosto che dovere troppo spesso smentire il giorno dopo quanto detto il giorno prima.
L’inconveniente, comunque, era già familiare, grazie all’avanzata conversione di giornalisti e frequentatori della rete (web, per intenderci) ad un idioma nazionale debitamente svecchiato, sprovincializzato e globalizzato. Chi ha qualche nozione linguistica si domanderà perché si debba dire o scrivere “rumor”, “mission”, “step”, “competitor”, ecc. quando esistono i ben noti corrispondenti italiani “voce”,“compito”, “passo”, “concorrente”, ecc. O perché si preferisca “esaustivo” ad “esauriente”, “attrattivo” ad “attraente” o “implementare” ad “attuare”; forse per il solo gusto di anglicizzare. Anche ai colti, tuttavia, capita di restare perplessi di fronte al significato talvolta oscuro di “suggestione”, termine spesso ma non sempre usato sotto la suggestione, e quindi come equivalente, di quello che in inglese, tolta la e finale, sta invece per “suggerimento”. Ai meno colti, poi, sorgerà magari il malizioso dubbio che chi continua a “supportare” il governo tecnico lo faccia pur trovandolo assai antipatico.
Chiariamoci. Nessuno oggi, è da credere, vorrebbe ripetere gli sforzi erculei compiuti, con esiti spesso comici e comunque con scarso successo, nell’Italia fascista o nella Francia gollista e più o meno antiamericana per trovare ad ogni costo dei surrogati ai vocaboli stranieri dilaganti, che erano poi ancora quelli francesi nel primo caso e sono da tempo quelli di provenienza anglosassone nel secondo. Le lingue franche diventano tali per buoni motivi e del resto si alternano nel tempo; anche l’italiano ha avuto nei secoli i suoi momenti di gloria. I primati e le preponderanze nella civiltà materiale e/o in campo politico e culturale si traducono inevitabilmente in egemonie o predominanti influenze linguistiche che è vano combattere senza quartiere. Tanto più che, in generale, tutte le lingue nascono per poi evolvere e modificarsi in modo incessante e sostanzialmente incontrollabile.
Tutto ciò, però, non significa che si debba rinunciare in partenza a difendere la lingua patria, fin dove possibile, da ingiustificati stravolgimenti e gratuite invadenze allogene. Sarà inutile a lungo andare, anzi si dimostra già inutile, cercare di convincere i concittadini, come molti si sono prodigati a fare, che le pene giudiziarie vengono “comminate” solo dai legislatori e “irrogate” o inflitte, invece, dai magistrati; oppure che definire pomposamente “vertice” un incontro di sottosegretari o commissari di polizia è oggettivamente ridicolo. La moneta cattiva, assicurano gli economisti, scaccia sempre quella buona, ma una buona causa resta tale anche se destinata a perdere. La sua difesa, intanto, serve a limitare la confusione, gli equivoci e al limite l’incomunicabilità che così spesso ostacolano il dibattito pubblico e i rapporti interpersonali.
Lo stesso discorso può valere del resto per un’altra infezione sempre più contagiosa del linguaggio corrente quale il turpiloquio. Il fenomeno non va stigmatizzato e possibilmente contrastato per un fatto di perbenismo quanto per motivi di buon gusto, di rispetto per se stessi prima ancora che per gli altri, per la propria intelligenza, se c’è, e per quella altrui, da presumere esistente fino a prova contraria. La scurrilità o l’insulto occasionalmente dettati dall’ira o dalla ricerca dell’effetto umoristico possono starci, non invece il loro abuso sistematico che, oltre a squalificare personalmente chi lo pratica e contribuire allo scadimento collettivo del costume, strapazza e vanifica anch’esso il patrimonio culturale rappresentato dalla lingua e aggrava le difficoltà già così acute della convivenza civile.
A qualcuno, forse ai più, sembrerà ozioso preoccuparsi di questioni di lessico quando sono di scottante attualità tante altre apparentemente ben più sostanziose. Conviene però ricordare che personaggi sicuramente rispettabili e autorevoli ci hanno assicurato nel corso dei secoli che in principio sta il verbo, che le parole sono pietre e che ne uccide più la parola che la spada. Le parole di cui parliamo mietono certo vittime più che altro metaforiche o comunque non direttamente umane, ma non per questo di poco conto. E d’altronde è vero che se il dono della parola distingue, in meglio, gli uomini dagli animali, questi ultimi possono ampiamente rifarsi quando quel dono viene usato malamente.
Licio Serafini