L’EGITTO DEI CREDENTI E LA ROTTA DEL LAICISMO

Ora che il rilancio religioso-politico è sul punto di prevalere anche in Egitto, è naturale interrogarsi: sarà un’asserzione ingannevole della fede quale fu nel 1948 il trionfo della nostra Democrazia Cristiana? Nessuno può rispondere se non in via ipotetica. Alcuni punti si possono però fissare. E’ nella logica e nella giustizia delle cose che il fronte della modernizzazione laica venga sfondato, in Egitto come altrove nel Terzo Mondo. Il laicismo ha fatto e mancato le prove decisive: quella della rivoluzione socialista, in sé obbligata nel contesto di tanta povertà (l’Egitto è il più sovrapopolato dei paesi arabi); e quella del liberismo occidentalizzatore a partire dal 1972. Il regime nato nel 1952 è rimasto militare e in teoria nasserista fino a oggi. Però con Sadat l’ispirazione socialista del primo ventennio si è andata spegnendo.

Nel passato l’opzione collettivista del Terzo Mondo era corroborata dall’esistenza stessa del campo comunista. Morto quest’ultimo, i gestori del potere sono ripiegati sull’ideologia capitalista. Oggi che quest’ultima, a valle del 2008, risulta grottesca nelle condizioni del mondo povero, la laicità non ha più nulla da proporre e l’islamismo si configura come grande protagonista, anche politico. Alle masse  promette il pane prima ancora che la salvezza dell’anima. Scriveva sessant’anni fa un musulmano egiziano di spicco, Ahmed Hasan al-Zayyat: “I Fratelli musulmani non concepiscono la religione come cosa di eremiti solitari, né il mondo come un remoto mercato, ma si rendono conto che la moschea e la piazza del mercato sono tutt’uno. I Fratelli hanno la lingua per fornire la guida, una mano per l’economia, un braccio per la Guerra santa e un’opinione per la politica”.

Il movimento fu fondato da Hasan al-Banna nel 1928, in Egitto. Ha attraversato molte fasi, comprese la clandestinità, la violenza fondamentalista, le repressioni e le reincarnazioni. Il fondatore era un laico e agli inizi i maggiori ‘ulama’ non aderirono. Sin dai primi passi la Fratellanza si confermò vicina ai ceti inferiori, incline sì a parlare il linguaggio agitatorio del populismo ma anche ad operare concretamente nella quotidianità, fornendo pane e riso agli affamati. Dimostrò che gli ideali islamici offrivano soluzioni sociali ben più idonee di quelle del liberismo e quelle del progressismo. Predicò anche la necessità della violenza per combattere l’ingiustizia e, a quel tempo, il colonialismo britannico.  Ottantaquattro anni dopo le parole d’ordine della Fratellanza sono più attuali che mai. Forse, indebolitasi l’estrema configurazione del regime sorto sessant’anni fa come nasserista, è giunto il momento della loro massima rilevanza. Fuori di esse c’è il vuoto, o meglio ci sono i relitti delle zattere progressiste, cui si aggrappano i naufraghi del radicalismo piccolo-borghese e urbano, gente che guarda a New York più che all’Egitto. Gente che addita emancipazioni e diritti che il popolo sente estranei, anzi combatte.

Nella misura in cui si impegnava nel costruire un socialismo arabo, il nasserismo sentiva i Fratelli islamici come concorrenti. In effetti, a volte essi si contrapponevano frontalmente a Nasser; un loro grande esponente, Sayyid Qutb, fu condannato a morte. In altri momenti prevalsero le spinte armonizzatrici: anche i militari di Nasser si prefiggevano in origine una società modellata sulla solidarietà, precetto coranico. Qutb, il martire, aveva scritto un libro sulla giustizia sociale come quintessenza dello Stato islamico.

Nel 1948 il movimento era stato sciolto una prima volta. Il capo del governo che aveva firmato il decreto fu assassinato da un adepto della Fratellanza. Un anno dopo fu ucciso il fondatore, al-Banna. A distanza di alcuni anni si ebbero tentativi di ammazzare il presidente Nasser e l’esecuzione di Sayyid Qutb. I militanti della Fratellanza affollarono le carceri egiziane alla pari dei comunisti. Invece non pochi tra i Fratelli condivisero il corso quasi-socialista del nasserismo. Lo stesso fece l’università al-Azhar, caposaldo egiziano dell’ortodossia. Queste vicende evidenziano nella Fratellanza il prevalere dei temi sociali e politici su quelli ‘teologici’. Rivolgendosi al popolo invece che alla borghesia occidentalizzante e secolarizzata, i Fratelli si identificavano con le istanze che coinvolgevano le masse.

Negli anni Ottanta la militanza islamica in Egitto tradusse il disagio sociale, che si aggravava per l’esplosione demografica, in forme di vera e propria guerriglia. Nella nuova politica di apertura al mercato, all’Occidente e ad Israele il successore di Nasser, Anwar al-Sadat, aveva in parte smantellato il Welfare e applicato le misure di rigore imposte dal Fondo monetario internazionale. La disoccupazione si aggravò, i divari si esasperarono. Sadat cadde assassinato.

Mezzo secolo fa i Fratelli avanzavano soluzioni che nel contesto arabo si impongono oggi:  redistribuzione della proprietà, sgravi fiscali sui redditi bassi, lotta alla speculazione, sobrietà, moderazione dei consumi, resistenza agli organismi internazionali. Il tutto nel nome di Allah e del dovere della carità. Il Corano sancisce il diritto di proprietà, però lo contrappesa coll’obbligo della condivisione (=col diritto dei poveri sui beni di chi ha molto). Il fallimento sia del socialismo arabo, sia di tutti i modelli importati dall’Occidente -dall’illuminismo al marxismo, dall’ideologia liberista al radicalismo laicista- ha lasciato la religione come sola ispirazione di giustizia e come stampo organizzativo. Del resto l’Islam non è mai stato solo religione: anche strutturazione della società. Per questo, nonostante i drammi, gli insuccessi e i tradimenti, si guarda all’Islam come religione e idea della giustizia. Ai credenti si offrono idee importate e astratte, ma essi scelgono il loro retaggio più che millenario. In qualche misura, è più operante che mai.

Antonio Massimo Calderazzi