Secondo la maggior parte degli osservatori, le fazioni che si contendono il dominio del regime cinese sono tre: i liberalizzatori, inclini a ridurre le distanze tra le linee e le prassi finora vigenti e il capitalismo occidentale; i centristi, fautori della semplice continuità; i radicali di sinistra, impegnati nello sforzo di contrastare quella che caratterizzano come deriva liberista. Sembra che la prima abbia al momento, e salvo imprevisti, le possibilità migliori. Il suo maggiore esponente Li Kequiang potrebbe salire a capo del governo, mentre il suo alleato Wang Yang, capo del partito comunista del Guangdong, sta rafforzando la sua posizione. Si parla di Xi Jinping come prossimo capo dello Stato, ma al momento non è chiaro se egli inclini a correggere la rotta, e in quale direzione. I centristi o continuisti controllano le leve di comando principali: potrebbero, secondo gli sviluppi dell’economia e della politica, coalizzarsi con uno o l’altro dei gruppi di potere.
Gli uomini della terza fazione, variamente descritti come ‘populisti’ o ‘egualitari’, appaiono indeboliti dalla caduta di Bo Xilai nel marzo scorso. Era il segretario del partito a Chongqing, con 30 milioni di abitanti la maggiore metropoli del paese, e la sua potenza derivava anche dal fatto d’essere figlio di un cofondatore del partito comunista e del regime. In tempi recenti si era fatto notare anche, ma non solo, per una serie di iniziative nel segno di un rilancio di slogan rivoluzionari. Il suo prestigio di rianimatore dello zelo maoista, e anzi di pretendente a futuro Mao era stato pregiudicato da accuse, persino da uno scandalo: tra l’altro la sua consorte potrebbe essere coinvolta, in misura incerta, nell’assassinio di un uomo d’affari britannico. In più circolano voci di corruzione e di esercizio arbitrario del potere a Chongqing. Persone imparentate con Bo avrebbero depositato somme ingenti in banche estere. In altre parole, un’ascesa e una caduta clamorosamente teatrali. In ogni caso, ha scritto un’analista americana, “Bo was too turbocharged to truly fit in a contemporary China that values stability and consensus above all (…) he was an extreme embodiment of some of modern China’s biggest contradictions. How could Bo suddenly spout iterations of Mao’s class busting ideology? In today’s China there is no need for a Mao”.
Dicono che Bo Xilai abbia taglieggiato i maggiori operatori economici di Chongking sia per vantaggio personale, sia per finanziare vaste iniziative di mobilitazione politica, p.es celebrazioni rievocative di massa dei fasti maoisti quali la Lunga Marcia e la Rivoluzione culturale. La riproposta del fervore rivoluzionario è incongruo in una fase in cui l’imperativo assoluto resta il crescere ininterrotto della potenza economica. Le preoccupazioni principali del momento vengono dall’indebolimento della crescita, con numeri in calo nella produzione industriale e nell’export. Non che la via cinese sia esente dai vizi mostruosi del turbocapitalismo; ma non saranno gli slogan delle Guardie rosse e del Mao rivoluzionario permanente a additare la salvezza. E’ interessante la voce secondo cui il vertice del regime ha avviato un’esplorazione concettuale delle esperienze europee di socialdemocrazia.
Il disagio sociale e altri fattori potranno rallentare l’ascesa della Cina, e anche provocare sussulti. Ma secondo Goldman Sachs sembra sicuro che tra una dozzina d’anni il paese sarà non solo la maggiore economia del pianeta, ma anche quella che avrà ridotto l’abissale divario tra le classi. Le preoccupazioni più acute degli USA riguardano le ambizioni militari di Pechino; in particolare il programma per disporre di un apparato missilistico, non esposto agli attacchi americani, in grado di attaccare le portaerei degli Stati Uniti. Non per niente il potente missile balistico sviluppato dalla Cina viene indicato come carrier killer. Com’è noto l’ammiraglio Mullen, autorevole capo degli Stati Maggiori Riuniti fino a pochi giorni fa, ha fatto scalpore con la previsione che in un’eventuale guerra per il predominio nel Pacifico le portaerei, massima espressione della potenza statunitense, sarebbero facile bersaglio dei missili di Pechino. A parte la circostanza che, secondo l’ammiraglio, la più infallibile delle armi di Pechino è in realtà il fatto di detenere il grosso del debito degli Stati Uniti e di potere sempre pretenderne iil pagamento.
Sul piano militare, tuttavia, le ambizioni cinesi sembrano limitarsi al Pacifico occidentale, in particolare a Taiwan. E’ probabilmente la cyberwar lo scacchiere dove i cinesi potrebbero insidiare prima l’egemonia statunitense (vedi l’articolo di un autore di Internauta in proposito). L’anno scorso un hacker cinese riuscì a penetrare i sistemi di sicurezza di Google. Secondo Richard Clarke, già massimo responsabile dell’antiterrorismo statunitense, “We know of 3,000 U.S. companies that have been hacked. It is a serious threat to our economy. China regularly breaks into the networks of U.S. companies to steal anything of value”. Nel passato il Pentagono ebbe ad ammettere di avere subito, assieme ad altri organismi ufficiali “certain computer network intrusions”.
Peraltro ricordiamo una valutazione complessiva di Henry Kissinger, che 41 anni fa andò a Pechino e aprì il fondamentale rapporto tra Cina e USA: “La Cina non può non diventare presto la massima economia del mondo, però il debito pro capite resterà un quinto di quello americano. E verso il 2025 o 2030 dovrà affrontare duri problemi demografici: urbanizzazione troppo rapida, crescente peso sulla popolazione attiva dei segmenti anziani, fermenti sociali potenzialmente (teoricamente) rivoluzionari”. Per il grande segretario di Stato, non è detto che “the largest economy” debba per forza diventare “the dominant country”.
A.M.C.