Nella fase in cui il presidente Obama -che a confronto con G.W.Bush era stato creduto amante della pace- prende tempo per metter fine all’impresa afghana, e in cui ogni tanto si fanno ancora sentire i bellicisti spinti quali Dick Cheney, ha senso ricordare che ci fu un capo di governo che volle allungare la Grande Guerra di un anno, prendendo sulla coscienza un’infinità di lutti in più. Parliamo del francese Georges Clemenceau. Pochi anni prima non era stato un guerrafondaio. Aveva appoggiato il trattato che nel 1911 scongiurò un conflitto armato con la Germania a seguito dell’episodio di Agadir, trattato che fece sperare in un accomodamento duraturo tra Parigi e Berlino.
Due anni dopo Clemenceau diventa ‘le veillard sanguinaire’, ‘le vieux Tartare’, il Tigre invasato dell’eccidio che, tornato al potere nel 1917 per imposizione del capo dello Stato Raymond Poincaré, fa naufragare gli sforzi internazionali per mettere fine alla strage, perseguita gli esponenti francesi che si erano uniti ai tentativi di pace, incarcera per alto tradimento il più importante tra loro, Joseph Cailleaux, che sei anni prima aveva firmato l’accordo con Berlino. Perché il Nostro diventa feroce?
La risposta non è in alcuna degenerazione umana dell’uomo e dei molti che lo seguono. E’ nel patriottismo nazionalista, malabestia della storia d’Europa. Scrive Poincaré, uno dei protagonisti che più fortemente vollero il primo conflitto mondiale, che Clemenceau ha in grado più alto “la fibre nationale. Il est patriote comme le Jacobin de 1793”. Coll’autorità d’essere stato capo del governo (1906-09) contribuisce, ancora in tempo di pace, all’allungamento della leva a tre anni; comincia la campagna contro ‘les ravages du pacifisme’ e contro la Gran Bretagna che non istituisce l’obbligo del servizio militare; auspica che il Giappone mandi divisioni per rafforzare la Francia; esalta lo ‘spectacle de sublime grandeur’ che offre la sfilata militare di Longchamp. Ha un suo quotidiano, letto quasi solo dai professionisti della politica ma importante perché egli è ‘le tombeur de ministères’, e quando viene la guerra vi scrive quasi quotidianamente, all’insegna di “nous voulons etre des vainquers’. Clemenceau è per definizione ‘l’homme de la Victoire’, il capo che la Germania (e non solo) ‘invidia alla Francia’. Per attirare nel conflitto l’Italia imposta un negoziato parallelo, nel quale ci offre Tunisi.
Agli inizi del 1917 i belligeranti sono spossati ma Clemenceau esige a Parigi “un gouvernement d’acier, indéfectible, armature inflexible d’une des plus nobles races de l’histoire”. Si offre come nuovo Gambetta, visita trincee di prima linea ‘pour flairer le Boche’, inneggia alla “magnifique unanimité et volonté supérieure à toutes chances de fléchissement”, soprattutto grida che “la France a besoin pour vivre que ses enfants donnent leur vie”. Il Tigre proclama che “la razza, la storia e la tradizione fanno guerriero ogni francese”. L’esaltazione e il disprezzo per l’uomo individuo raggiungono vette quali “mourir n’est rien, il faut vaincre”. N”est rien.
Quando, il 22 gennaio 1917, Woodrow Wilson propone ai belligeranti una ‘pace senza vittoria’ Clemenceau si scatena nell’insulto: ”Il presidente americano pensa sublime, perde lo sguardo nell’abisso delle ere, al di là del tempo e dello spazio, plana nel vuoto al di sopra delle cose che hanno il difetto d’essere reali”. Immensi elogi invece quando nell’aprile Wilson decide l’intervento USA.
Non mancano nel parossismo gli aspetti quasi comici. Rimprovera ancora al Giappone di anteporre i suoi disegni asiatici al soccorso alla Francia. Quando la Rivoluzione russa abbatte lo zarismo il giacobino Clemenceau annuncia che “l’insigne beauté du drame révolutionnaire est une première et décisive victoire sur l’Allemagne”. Per dieci giorni descrive come ‘successi’ le sporadiche operazioni militari di Kerensky. Ma l’impegno supremo è altro: martella che il pacifismo è tradimento; che la propria missione è ‘la guerre, rien que la guerre”; che “un giorno applaudiremo le nostre bandiere vittoriose, bagnate nel sangue e nelle lacrime, squarciate dagli obici, magnifica apparizione dei nostri grandi morti. Ce jour, le plus beau de notre race”.
Quando alla fine la Germania, rimasta senza munizioni e senza viveri, si dà per vinta il Nostro tenta di stravincere. Cerca non solo di ottenere riparazioni ancora più inverosimili ma di staccare dalla Germania la Renania e la Baviera per farne satelliti della Francia. Alla conferenza di Versailles ottiene una serie di successi diplomatici, tra cui l’artificiale grandezza di nazioni fino ad allora inesistenti (Polonia, Cecoslovacchia, Jugoslavia), o minori (Romania), legate a Parigi.
Il resto della storia è noto: i trionfi dello sciovinismo parigino (tra i quali l’occupazione della Ruhr) danno la Germania a Hitler e sette anni dopo Hitler annienta in due settimane la Francia, allora accreditata del primo esercito di terra al mondo. Questa ‘parabola di Clemenceau’ non dovrebbe insegnare qualcosa agli ipernazionalisti, negli Stati Uniti e altrove?
Porfirio