SALAZAR ESORDI’ COME UN MONTI

Appena giunto l’annuncio -che lo Stivale esulta della mortificazione dei partiti; che a nessun costo vorrebbe rivedere le solite facce- è un accorrere di pietosi e di prèfiche a confortare i dolenti, a rianimare gli spaventati, a portare il consòlo. Chi confida ‘è un falso allarme’; chi sentenzia ‘la politica non è scalzabile’; chi, più faccia di bronzo, rievoca la ‘nobiltà della politica’ (benché fatta dalla confederazione degli Al Caponidi); chi incoraggia i già saliti sulla forca: ‘Forse la corda si spezzerà’. L’elder statesman Massimo D’Alema, con l’imperturbabilità di chi è ‘multa passus’, e in più ha compiuto molte perigliose traversate della baia di Gallipoli, ha pronunciato le parole che queste sì rincuorano: ”E’ legittimo che chi fa politica progetti il dopo Monti”.

Chi più attendibile di un homo consularis che ha seduto a palazzo Chigi? Il maggiore e il più pervicace rappresentante sindacale dei gaglioffi che ‘fanno politica’ ha detto ancora: “Non si può governare solo con scelte tecniche efficaci. Occorre una visione del futuro, che può venire solo dalla politica”. A chi pensa che Napolitano e Monti vanno invitati a restare, l’ex-presidente dei Pds risponde invece che si deve tornare a una dialettica democratica, “restando nel campo della democrazia parlamentare”, cioè della gozzoviglia dei Proci, Massimo rassicura: la politica dei partiti sembra naufragata, appare una Costa Concordia, e invece no: “con una nuova legge elettorale e con la fine del bipolarismo selvaggio chi vince le elezioni potrà costruire in Parlamento le convergenze programmatiche per governare”. In altre parole, traduciamo noi, “nessuno ci schioderà. Hic manebimus optime. Si illude l’Italia se agogna a liberarsi di noi solo perché ci stima a un livello vicino allo zero”.

Meno tracorante, o più pensoso, ma ancora abbastanza vicino al doglio dei politici di regime, Michele Salvati: “Anche ammesso che ognuno dei partiti affermasse ‘sono il continuatore della linea Monti, chi ci crederebbe? La nostra democrazia ha bisogno di riforme radicali. Di conseguenza richiede per un lungo periodo, almeno l’intera prossima legislatura, un governo ‘tipo Monti’. Assicurare nelle prossime elezioni una solida maggioranza a questo tipo di governo è per i partiti l’unico modo per uscire dal discredito in cui sono caduti”.

Ma il consòlo più corroborante, anzi più virile, ai dolenti del partitismo l’ha dato Piero Ostellino (“Il male minore della democrazia”, Corriere della Sera): “A certi intellettuali colpiti da improvvisa afonia democratica (perdita di voce politica dovuta ad alterazione tecnocratica) il governo dei tecnici piace assai più della democrazia rappresentativa. Si chiedono se non sarebbe meglio rinviare le elezioni e andare avanti indefinitamente col salazarismo in salsa bocconiana”.

Bravo Ostellino (dico sul serio): il riferimento a Salazar è un colpo d’ala, un pezzo di bravura, degno dell’ex-direttore scientifico dell’ISPI, istituzione in cui alcuni di noi Internauti agimmo a lungo, prima dell’arrivo di Ostellino. In effetti agli inizi Antonio de Oliveira Salazar fu un Mario Monti. Era un importante, austero professore 36enne di economia a Coimbra, primo ateneo del Portogallo, nel 1926 quando lo fecero ministro delle Finanze perché fermasse il dissesto lusitano. Era stato novizio gesuita, destinato al sacerdozio. Risanò i bilanci, impose sacrifici, seppe fare. Sei anni dopo divenne capo del governo e da allora le parvenze liberal-democratiche finirono. Non erano solo parvenze di Salazar: i tempi non erano amici del parlamentarismo gradito solo ai benestanti, qui più putrefatto che in Spagna e che in varie altre contrade d’Europa.

Sotto il Professore il paese migliorò. Dette una mano al movimento di Francisco Franco, però rispetto all’autoritarismo spagnolo lo Stato corporativo di Lisbona fu più lontano dal fascismo. Il regno di Salazar terminò solo nel 1968, per una paralisi che due anni dopo spense il semi-dittatore. Nel 1951, quando camminammo per una giornata per le strade di Lisbona (seguiti discretamente da un paio di agenti della Polizia), la capitale portoghese così come le sue vigne e le sue fisheries appariva piuttosto una dipendenza della demoplutocratica Londra che della Madrid ancora in pieno assetto franchista.

Ostellino riconosce che il salazarismo bocconiano “avrebbe il pregio di evitare il ritorno dei partiti ad opera del ‘popolo bue’. Stigmatizza che (certi intellettuali) scrivano “giù le mani dalla Costituzione, se qualcuno ne segnala incongruenze e contraddizioni; che fondino la Repubblica sull’antifascismo; che quando ‘gli altri’ vincono le elezioni citino Tocqueville sui pericoli della ‘dittatura della maggioranza; che fino a ieri l’invocazione di Marco Minghetti ‘fuori i partiti dalle istituzioni’ fosse una bestemmia; che oggi siano contrari al ritorno dei partiti in quanto la tecnocrazia postdemocratica non deve rispondere al Parlamento”. L’ex-direttore del ‘Corriere’ asserisce che i partiti, con tutte le loro carenze ‘da sanare’, aggregano valori e interessi. Il male è che occupano quasi tutto, “ma il modo c’è per neutralizzarli: farli fuori col voto”.

Qui è il limite del colto studioso, autore dell’acuto parallelismo super Mario-super Salazar:

una momentanea, umana amnesia non gli fa ricordare che far fuori col voto il partito X è perfettamente inutile visto che si insedia il partito Y, altrettanto esiziale quanto il primo. X e Y sono sezioni dello stesso monopartito della frode e del furto. La lealtà di “vecchio (e quasi ultimo) liberale” fa quasi tenerezza. Ma è già passato più di un secolo da quando Giovanni Giolitti la lasciò cadere, per il fatto stesso di fare il ‘dittatore’ liberale.

A.M.Calderazzi