LE LEZIONI DI SARAJEVO

Commemorare a distanza di vent’anni l’inizio dell’assedio e del lungo martirio di Sarajevo è doveroso, anzi sacrosanto. Insieme con il massacro di Srebrenica e con la distruzione e gli eccidi di Vukovar, anch’essi per mano serba, è stato uno degli apici delle nefandezze che hanno costellato, da ogni parte, i conflitti nel cui baratro è sprofondata e perita la Jugoslavia di Tito. Un paese fiero ma dalle fondamenta fragili, soprattutto psicologicamente, che si vantava non senza qualche ragione di essere stato l’unico in Europa, oltre all’URSS, a tenere testa alle divisioni di Hitler e a darsi un regime comunista senza l’aiuto determinante dell’Armata rossa. Un regime cui rimane comunque il merito di avere compiuto l’unico tentativo serio di unificare costruttivamente popoli molto affini ma al tempo stesso assai diversi, poco o per nulla inclini ad affratellarsi ma inestricabilmente mescolati sul comune territorio.

Nell’ostinata speranza che la storia riesca ad essere davvero maestra di vita, la tragedia dell’antico capoluogo e oggi malcerta capitale di una Bosnia-Erzegovina indipendente più sulla carta che nella realtà, una città ricca di storia, cultura e persino esperienze esemplari di convivenza interetnica, va costantemente rammentata e rievocata come una di quelle lezioni che gli europei e l’umanità in generale dovrebbero scolpire nella roccia. E che tuttavia, per essere veramente utile per il futuro, presuppone un’adeguata conoscenza dei fatti e un’attenta depurazione del loro uso da ogni partito preso e da qualsiasi tipo di strumentalizzazione. Due condizioni, queste, che non sempre, per non dire raramente, vengono rispettate, come avviene anche in questi giorni.

Le colpe serbe, dei serbi della Serbia e della Bosnia-Erzegovina, sono fuori discussione. Nell’intera vicenda dell’agonia jugoslava come in quella di Sarajevo e dintorni i peggiori crimini contro l’umanità, spinti fino al limite del genocidio, sono stati commessi soprattutto benchè non soltanto da loro. Non deve perciò stupire né indisporre che soprattutto loro capi, sottocapi e gregari siano stati chiamati a renderne conto davanti al tribunale dell’Aja per subire i meritati castighi. I comportamenti penalmente perseguibili non esauriscono però il quadro delle responsabilità anche indirette per i percorsi approdati a quegli eccessi, che sono responsabilità anche soltanto politiche e neppure ricadenti esclusivamente sui protagonisti o comprimari jugoslavi di quelle vicende. E tutte, comunque, da mettere nel conto per la comprensione di queste ultime e le lezioni, appunto, da ricavarne.

La Bosnia-Erzegovina veniva spesso chiamata “piccola Jugoslavia” perché caratterizzata anch’essa dalla multinazionalità e in particolare dalla compresenza di tre principali etnìe: musulmani, croati (cattolici) e serbi (ortodossi), questi ultimi maggioritari prima che gli islamici, promossi sotto Tito a gruppo nazionale oltre che religioso, li scavalcassero dopo il 1945 grazie al più alto tasso di natalità. Proprio per questa sua caratteristica i suoi governanti si batterono fino all’ultimo, spalleggiati per analoghi motivi dalla Macedonia, per preservare l’unità jugoslava minata dal secessionismo sloveno e croato e dal suo scontro con il centralismo ed egemonismo serbo, in qualche modo arginati dal peso delle due repubbliche settentrionali nell’assetto costituzionale adottato nel 1945.

Falliti i tentativi di trovare compromessi accettabili per tutti, come la riduzione dello Stato federale ad una meno compatta confederazione, ed avviato il processo di disintegrazione della Repubblica federativa con il distacco della Slovenia al termine di un breve conflitto armato, la Bosnia-Erzegovina venne costretta a scegliere (con l’aspro confronto bellico tra Serbia e Croazia ancora aperto) tra la permanenza in una federazione gravemente amputata e perciò dominata più che mai da Belgrado e un’indipendenza oltremodo problematica sotto vari aspetti, a cominciare dalle reazioni di due forti minoranze e in particolare di quella serba. Reazioni rese temibili in partenza da non lontani precedenti storici, che avevano visto i serbi locali soffrire le più crude vessazioni da parte degli ustascia, i fascisti  di Ante Pavelic che sotto la protezione della Germania nazista avevano incorporato il grosso del paese nell’effimero stato croato teoricamente indipendente durante la seconda guerra mondiale.

Ad infierire allora sulla popolazione serba, tra le cui numerose vittime vi fu anche la famiglia di Ratko Mladic, il futuro “macellaio di Srebrenica”, aveva collaborato almeno una parte dei musulmani, alcuni esponenti della quale, insofferenti della Jugoslavia monarchica, avevano d’altronde chiesto prima del conflitto l’annessione al Terzo Reich adducendo una fantasiosa origine tedesca del loro gruppo etnico. Alla memoria sempre viva di una simile esperienza si aggiunsero poi i timori suscitati dal fatto che il governo di Sarajevo, capeggiato dal “bosgnacco” Alja Izetbegovic, aveva manifestato nella fase terminale della crisi jugoslava la tendenza ad accentuare l’islamicità della propria repubblica federata coltivando a questo scopo anche i rapporti del caso col mondo esterno.

Nonostante tutto ciò la scelta cadde sull’indipendenza, con il solo conforto di un’adesione della componente croata inficiata peraltro da riserve mentali. Decisiva fu comunque, secondo ogni apparenza, l’entrata in scena di un nuovo protagonista: la Comunità europea, che già aveva svolto un ruolo determinante nella crisi jugoslava. Dapprima, infatti, si era adoperata per scongiurare la disintegrazione della Repubblica federativa, incoraggiando così di fatto, benchè non intenzionalmente, il tentativo serbo di impedire con la forza la secessione slovena e soprattutto quella croata. Poi invece aveva appoggiato entrambe col risultato di favorire l’esplosione del conflitto armato, rapidamente rientrato solo nel caso della Slovenia, con la quale Belgrado non aveva un problema di minoranza serba da difendere come con la Croazia.

Ancor più avventata e addirittura fatale fu la decisione della futura Unione europea di accogliere la richiesta di riconoscimento dell’indipendenza avanzata dal governo di Sarajevo nel dicembre 1991, dopo la proclamazione in ottobre della piena sovranità repubblicana cui i serbo-bosniaci di Radovan Karadzic avevano replicato disertando il parlamento e creandone uno separato. Le autorità di Bruxelles condizionarono il riconoscimento all’approvazione dell’indipendenza mediante un referendum popolare, che si svolse il 29 febbraio e 1° marzo 1992 con il boicottaggio serbo, tanto più scontato in quanto Izetbegovic lasciò cadere un progetto di divisione del paese in cantoni confederati secondo il modello svizzero.

Altrettanto scontato risultò così il verdetto delle urne, che premiò i voti favorevoli ma in misura limitata al 63%, con la contrarietà quindi di un’intera componente nazionale. Ciò bastò tuttavia all’Europa dei 12 e agli Stati Uniti per concedere il riconoscimento (6-7 aprile), e fu solo all’indomani di questo passo che scattò la reazione serba, dura e persino feroce quanto si voglia, con i primi colpi di fucile nel cuore di Sarajevo che, seguiti ben presto dalle cannonate, segnarono l’inizio dell’assedio e della guerra civile. Un conflitto inevitabilmente impari, perché, come già avvenuto in Croazia, la parte serba fruì di quanto restava (e restava parecchio) della vecchia Armata popolare di Tito, uno dei più forti e meglio attrezzati eserciti d’Europa, da sempre prevalentemente in mano a comandanti e ufficiali serbi e comunque animati da spirito “unitarista” .

Il vero o presunto maggiore rapporto di continuità della Serbia di Milosevic con il vecchio regime, comunista o socialista che fosse, rispetto alle altre repubbliche jugoslave, e la sua maggiore vicinanza alla Russia pur decomunistizzata di Elzin, sicuramente influirono non poco sulle scelte occidentali benchè la guerra fredda tra Est e Ovest fosse ormai archiviata. Poiché tuttavia Belgrado aveva ormai abbondantemente dimostrato, all’inizio del 1992, di non lasciarsi frenare da alcuna remora nel perseguire i propri obiettivi, giusti o sbagliati che fossero, l’Occidente avrebbe dovuto modulare almeno con più accortezza le proprie mosse riguardo alla Bosnia-Erzegovina. E una volta compiuta comunque la propria scelta politica, certo non doveva lasciar passare poi oltre tre anni prima di optare per l’intervento militare necessario per porre fine alla peggiore carneficina continentale del secondo dopoguerra dopo avere oggettivamente contribuito a scatenarla.

Franco Soglian