“Ha senso restare a Kabul fino al 2014?”. Si intitola così il 13 marzo l’editoriale de ‘La Stampa’; il titolo è così eloquente da non richiedere la lettura del testo. E invece leggiamolo: perché dice la posizione di un quotidiano equanime come pochi; e perché è firmato da V.E. Parsi, opinionista che più volte in passato indossò prima di scrivere l’uniforme della Nato, e sopra il pastrano del patriottismo militare all’antica.
Argomenta il Nostro: la sicurezza peggiora, molti si chiedono se sarà realistico ritirare i contingenti alleati. “Eppure la domanda giusta è un’altra: Che senso ha tirare al 2014? Non sarebbe più saggio accelerare, prendere atto del sostanziale fallimento, militare e politico, di oltre 10 anni di campagna?” . Non sono stati conseguiti successi. Bin Laden è morto, Al Qaeda ha subito colpi durissimi, molti insorgenti sono stati uccisi, “ma molti altri ne hanno preso il posto e, fatto più grave, quella parte di popolazione che aveva salutato l’intervento occidentale ci sta girando le spalle”.
Per Parsi il ‘mentoring’ e il ‘training’ delle truppe locali si sta dimostrando fallimentare. Sempre più i militari occidentali sono percepiti dagli afghani come l’ennesima forza d’occupazione. L’editorialista valuta in particolare che i militari americani non sono all’altezza: “C’è qualcosa da cambiare nella selezione e nell’addestramento delle forze armate USA, che hanno perso la battaglia per il cuore e la mente della popolazione (…) E’ amaro doversi lasciare alle spalle un altro Iraq, avendo deluso milioni di afghani, a cominciare dalle donne che perderanno i pochi diritti conquistati. Ma se occorre rivedere la strategia, prima se ne prende atto meglio è per tutti. Abbiamo cominciato a perdere la guerra quando non siamo riusciti ad assicurarci l’effettiva collaborazione del Pakistan (…) Il Pakistan ha probabilmente vinto la sua guerra. Nel 2014, 13 anni e decine di migliaia di morti dopo, proprio il Pakistan tornerà ad essere l’arbitro assoluto dei destini afghani: esattamente come quando a Kabul regnava il mullah Omar”.
Se le cose stanno come dice ‘La Stampa’ -per altri stanno peggio- la guerra di Washington e satelliti è persa, altrettanto disonorevolmente quanto quella d’Indocina. Andarono di male in peggio le sette crociate ufficiali per la Terrasanta, le ultime due guidate da Re San Luigi IX, il quale morì di peste appena sbarcato a Tunisi e la settima crociata si spense. Le guerre condotte dagli USA, da quella di spoliazione contro il debole Messico (1845-46) ad oggi, sono state tutte ‘crociate’ per questa o quella causa, normalmente menzognera. Le crociate ottocentesche fruttarono grosse acquisizioni territoriali. I due conflitti mondiali, di W:Wilson e di F.D.Roosevelt, fecero dell’America la potenza planetaria; i profitti ci furono.
A partire dalla Corea le campagne militari presero ad andar male, ma agli americani non insegnarono niente. Oggi i Joint Chiefs of Staff fanno piani di attacco contro Siria, Iran ed altro. Il possesso in sé delle forze armate più mastodontiche della storia condanna il Pentagono a preparare nuove imprese, ciascuna delle quali benemerita della libertà, dei diritti, delle donne, dei diversi, eccetera.
Però i 62 anni passati dal conflitto sul 38° parallelo non hanno fatto che peggiorare la reputazione dei guerrieri americani. I 16 civili afghani uccisi giorni fa da uno zombie dei Marines -un corpo cosiddetto d’élite che frequentemente riabilita le SS- non sono il frutto più delittuoso di una ‘addiction’ nazionale, abbellita come esercizio del premoderno diritto di portare armi.
Resta la qualità singolarmente bassa sia dei combattenti statunitensi, sia dei loro condottieri e polemologi. Dopo i trionfi del 1945, conseguiti a valle della consunzione fisica degli avversari, non ne è andata bene più una. Chi dubita che l’Andorra, se avesse le armi del Pentagono, prevarrebbe sulle flotte e sui gruppi di armate di Obama e Panetta?
A partire dal Vietnam gli Aiaci statunitensi si confermano sempre meno idonei, sempre più psicolabili. Sembra che abbiano servito in Iraq e Afghanistan due milioni di guerrieri (le nostre fonti non parlano di donne: fatto non senza significato, visto che la guerra del Golfo era sembrata affermare -in contesto islamico!- che Uncle Sam promuoveva le girls a guerriere di Pentesilea. Con l’occasione ricordiamo che la regina delle Amazzoni fu uccisa da Achille che peraltro, come prevedibile, si innamorò della caduta). 400 mila reduci hanno avuto bisogno di terapie e pensioni d’invalidità. A quasi 221 mila sono stati diagnosticati problemi mentali. Sorprendentemente numerosi i suicidi, 12 solo nella base di Fort Lewis, da cui veniva il mostro che ha spento 16 vite, infanti compresi.
In due guerre il Pentagono ha reclutato una non gloriosa legione straniera di un milione di mercenari (un centinaio di nazionalità). George W.Bush, il presidente di combattimento e di vittoria che tuttora fa sognare l’Elefantino, aveva promesso la cittadinanza automatica ai meteci che si arruolavano. Dicono che il 30% delle reclute abbandonino la divisa dopo 6 mesi. Non si sa di altri eserciti al mondo i cui soldati subiscano crolli e insufficienze altrettanto gravi. Il materiale umano necessario per imporre la pax americana al globo è talmente screditato che di recente la macchina della propaganda si è acconciata ad esaltare come the best among the best l’esigua specialità dei Navy Seals (v. in questo Internauta ‘L’ultima di Hollywood sulle prodezze belliche’), la cui unica gesta è stata di macellare Osama bin Laden.
Se non ci saranno sorprese, l’impresa afghana è fallita. Non è solo la sconfitta del presidente ‘umanitario’ Obama, che col surge e coi drones l’ha fatta sua. E’ lo scacco di tutti i governanti stranieri affiliati a Washington, che puntando sulla carta sbagliata hanno fornito ascari a costo zero per il committente. Hanno fatto figura di pecore stupide gli opinion makers di mezzo mondo che per un decennio hanno garantito “l’Afghanistan non è l’Iraq”.
Nel nostro paese i mille pundit alla Franco Venturini e i leader progressisti alla D’Alema avevano caldeggiato lo sterminio dei talebani. Il savio presidente Napolitano aveva ripetutamente definito ‘giusta’ la spedizione. L’Afghanistan, insieme al mancato contrasto alla casta dei politici e allo sfarzo quirinalizio, è l’errore più grave del personaggio che pure passerà alla storia: ha deposto il visir di Arcore e affidato lo Stivale a un governante degno.
Anthony Cobeinsy