Tornano in scena i partiti
Miracolo tra Seul e Roma. E’ bastato che il premier sobrio e monogamo ventilasse dal lontano oriente la minaccia di dimettersi per provocare, come d’incanto, il repentino ritorno dei partiti al centro della scena, all’insegna di un “adesso ci pensiamo noi”: una promessa o una controminaccia? Intendiamoci. Che i partiti e in particolare quelli maggiori si trovino d’accordo su qualcosa, anziché accapigliarsi per lo più sconciamente, con quel nuovo stile a base di urla e turpiloquio ormai imperante, non può che rallegrare in linea di principio. Salvo che, naturalmente, l’accordo non rafforzi la difesa dei privilegi della casta o produca altri effetti di segno negativo.
Sarebbe stato in realtà portentoso che l’evento, ossia l’intesa raggiunta nel precipitoso vertice ABC, si rivelasse positivo e rassicurante anche nei suoi contenuti. E il secondo miracolo, infatti, non c’è stato. Al momento di scrivere non conosciamo ancora tutti i dettagli, che sembrano ancora da mettere a punto. Ma per quanto se ne sa pare già chiaro di che cosa si tratti almeno a grandi linee. Avremo una nuova legge elettorale e si procederà alla modifica della Costituzione con particolare riguardo allo sfoltimento della rappresentanza parlamentare, alla revisione delle competenze delle due camere e al rafforzamento dei poteri del premier.
Bene. Sul primo punto, chi potrebbe dolersi per l’archiviazione del porcellum? Tutti conoscono le sue molteplici pecche, tali da renderlo persino indecoroso nella sua stoltezza. Si spendevano somme enormi (riducibili, si spera, anche sopprimendo le votazioni fino a lunedì) per eleggere governi incapaci di governare e due camere a rischio di ritrovarsi con maggioranze diverse. Si attende conferma o meno del ripristino delle preferenze, dal quale molti si aspettano mirabilia, dimenticando, sembra, che erano state abolite perché favorivano le infiltrazioni mafiose. Più in generale, purtroppo, c’è da temere, per dire il meno, che anche una legge elettorale tecnicamente perfetta serva a ben poco se non cambia la qualità degli eletti.
Sul secondo punto, non si capisce, o si capisce fin troppo bene, perché deputati e senatori debbano complessivamente diminuire solo da 945 a 750 quando il piatto piange e non risulta che i rappresentanti del popolo siano oberati di lavoro. Perché, inoltre, il nostro Senato debba avere il triplo di membri rispetto a quello degli Stati Uniti, la cui popolazione è cinque volte superiore alla nostra. Quelli Uniti sono appunto Stati mentre noi abbiamo solo regioni, che il federalismo mira però a potenziare ulteriormente e che già oggi si fregiano, a differenza dello Utah o dell’Alabama, di costose rappresentanze all’estero. Perché, infine, lo stesso Senato non debba essere composto da pochi rappresentanti delle regioni eletti dai rispettivi Consigli anziché dal popolo (anche qui, dunque, con relativo risparmio di soldi), come avviene per il Bundesrat tedesco.
Quanto ai poteri del premier, suona senz’altro giusto assegnargli quello di nominare e destituire i ministri, che devono ovviamente godere la sua fiducia. Non necessariamente, invece, quello di sciogliere il parlamento e indire nuove elezioni, a meno di voler svuotare le maggiori competenze del capo dello Stato; il ruolo svolto da Napolitano non dovrebbe sconsigliarlo? Da ricordare, comunque, che della presunta impotenza del premier si lamentava spesso e volentieri Berlusconi, che però le riforme vere non riusciva a farle, a differenza di Monti e malgrado le proprie maggioranze “bulgare”, per paura di perdere voti assai più che per gli impacci costituzionali.
Non si capisce inoltre, e in questo caso davvero, che senso abbia la scelta degli ABC di indicare sulle schede il nome del candidato premier di ciascun partito quando il progetto di nuova legge elettorale non prevede un premio di coalizione e favorisce quindi l’elezione indiretta anche di fatto del capo del governo, cioè da parte del parlamento anziché direttamente dal popolo. Con la singolare conseguenza che la carica potrebbe persino toccare, per effetto di imprevedibili alleanze parlamentari, non al candidato premier del partito di maggioranza relativa ma a quello di un altro, magari terzo o quarto arrivato.
Qui comunque siamo su un terreno squisitamente tecnico. Su quello politico e volendo anche morale l’attenzione viene piuttosto richiamata dalla telefonata di Fabrizio Cicchitto a Mario Monti, durante il vertice di Seul e subito dopo quello degli ABC, per ammonire il premier, a quanto risulta, a bloccare le modifiche che il ministro Severino vorrebbe apportare al progetto di legge anticorruzione per renderlo un po’ più incisivo e quindi anche più sgradito al PDL. In attesa di conferma e di vedere come reagirà Monti, se ne può dedurre con quale spirito la vecchia maggioranza stia preparando il terreno per il dopo governo tecnico, si spera senza trovare complicità, nella fattispecie, nella vecchia opposizione.
A rigore, d’altronde, la vecchia maggioranza non esiste più neanche in prospettiva data la diserzione della Lega, refrattaria tuttavia a scelte irrevocabili. Un tempo giustizialista, il partito di Bossi era poi saltato dalla parte opposta, così come dallo “scalone Maroni” di alcuni anni fa è passato all’avversione più aspra nei confronti della riforma pensionistica dell’attuale governo. Già sostenitore, inoltre, dei tentativi berlusconiani di radiare l’articolo 18, oggi si affianca all’estrema sinistra contro l’analoga operazione Monti-Fornero e di questa campagna leghista si erge ad alfiere Roberto Calderoli, l’uomo del porcellum, gridando che il premier in carica gli ha proprio “rotto le balle”. Schierato sulle stesse posizioni benché meno sboccato, Antonio di Pietro accusa Monti di puro sadismo nei confronti dei lavoratori, mentre Italia dei valori continua a perdere i suoi pezzi più pregiati (De Gregorio, Scilipoti, Ferrandelli, ecc.) a beneficio della concorrenza.
Se nelle prime file della politica, oltre a tutto, l’intesa ABC già minaccia (o promette?) di provocare spaccature all’interno di PDL e PD nonchè la resurrezione di Forza Italia (o che altro) e AN da una parte e DS (o che altro) e Margherita (però mai davvero defunta, come sappiamo, almeno agli effetti monetari) dall’altra, anche dai rincalzi sarebbe dunque incauto aspettarsi più di tanto. Viva, allora, l’antipolitica? Dirlo è vietato, anche se verrebbe voglia di metterla alla prova perché in fondo è politica anche quella, come insegnava Aristotele.
Licio Serafini