Dire a qualcuno che fa schifo non è vietato, né dalla legge né dall’etica. Lo è al massimo dalla buona educazione, che però in determinati contesti e circostanze passa in seconda linea. Persino dirlo in faccia può diventare addirittura doveroso, alle volte, sia pure correndo gli eventuali rischi del caso. Grazie allo sviluppo tecnologico oggi è più che mai avventato dirlo, di terzi, anche tra amici o comunque in via confidenziale. Ma ciò soprattutto, se non esclusivamente, quando esiste il pericolo di compromettere rapporti che in qualche modo e misura stanno a cuore.
Male perciò ha fatto il ministro Riccardi, cattolico fino a ieri impegnato in attività diplomatiche private a nobili fini di pace, ad esternare il suo ribrezzo per il modo di fare politica del principale partito che sostiene il governo di cui fa parte. A meno che, naturalmente, non intendesse proprio provocare uno screzio funzionale a scopi per individuare i quali non è qui il caso di arrovellarsi. Il suo superiore lo avrà perciò sicuramente redarguito, con l’abituale sobrietà, e verosimilmente esortato a presentare scuse più o meno sentite anziché accusare la stampa, come fanno i più, di avere travisato il suo pensiero, ignorato il contesto della frase e così via.
E tuttavia, premesso quanto sopra, come si potrebbe dare torto sulla sostanza al pur incauto schifato? Lo schifo è esattamente la prima cosa che viene in mente di prima mattina, prendendo poi alla gola, chi ascolta TG, GR e rassegne stampa o legge sui giornali le cronache relative alla politica nazionale (spesso anche quella estera, ma meno, se non altro perché un po’ più lontana). Ed è anche l’ultima che si prova a tarda sera se non si trovano alternative adeguate per chiudere la giornata in modo meno deprimente. Il perchè, crediamo, è sotto gli occhi di tutti. Se fosse necessario spiegare ed esemplificare, sembrerebbe di vivere in un mondo diverso da quello altrui.
Può perfino capitare, in materia, di sentirsi più vicini ad un giornalista d’assalto e decisamente schierato come Vittorio Feltri che ad osservatori più equilibrati e meno accecati dalla passione. In un recente talkshow televisivo il temporaneo erede di Montanelli, adeguandosi alla più aggiornata evoluzione terminologica del dibattito politico, ha dichiarato di collocarsi nel centro-destra perché questo gli fa meno schifo del centro-sinistra. Tenendo conto anche di una certa indipendenza di giudizio non di rado dimostrata dal personaggio, se ne deve dedurre che neppure il partito tuttora di maggioranza relativa sia di suo gusto, e che se continuerà a votarlo lo farà turandosi il naso come il suo mentore originario con la DC, benché non incomba più lo spettro del bolscevismo e dell’Armata rossa.
Un mio conoscente sosteneva che tra tè e camomilla, l’uno leggermente eccitante e l’altra leggermente calmante, non esiste praticamente differenza. Per analogia, potrei dichiararmi quasi d’accordo con Feltri pur preferendo invertire la sua preferenza. E all’incirca d’accordo con noi sembra d’altronde la popolazione cui apparteniamo dal momento che la popolarità dei partiti in generale risulta demoscopicamente assai vicina allo zero e che vincitore delle prossime elezioni potrebbe essere il partito ideale di quanti disertano le urne. Un’impopolarità spettacolare, dunque, che non esclude affatto gli stessi partiti minori, dei quali riparleremo però in una prossima occasione.
Dopodiché, qualche differenza che pur sempre rimane è emersa anche dalla scaramuccia sullo schifo. A suscitare quello di Riccardi è stata, come si sa, la decisione di Angelino Alfano di disdire un previsto appuntamento con il governo nonché Bersani e Casini. A sua volta, la disdetta è stata motivata o spiegata come reazione negativa al proposito degli interlocutori di affrontare anche temi quali la riforma della giustizia e della RAI e la lotta alla corruzione. Secondo il PDL, infatti, il governo “tecnico” dovrebbe occuparsi soltanto dell’emergenza economica oltre che, presumiamo, dell’ordinaria amministrazione, visto che si arriva a chiedere le dimissioni del ministro degli Esteri per asseriti errori e negligenze riguardo all’incriminazione dei marò nel Kerala e all’uccisione dell’ingegnere sequestrato in Nigeria.
Poichè un governo “tecnico” è un governo normale come ogni altro benchè formato da non politici, non si vede come le sue competenze potrebbero essere ragionevolmente limitate, in linea di principio, a questa o quella materia. E ciò tanto più quando da varie parti, compreso il PDL, si prospetta addirittura una sua possibile durata anche al di là dell’attuale legislatura, ossia dopo la primavera del 2013. Pregiudiziali più o meno pretestuose a parte, poi, pare che il gran rifiuto dell’ex ministro della Giustizia (chissà se comunque suggerito o imposto dal suo ex premier) abbia fatto seguito non casualmente alla notifica da parte di Monti che il governo intende mettere all’asta le frequenze televisive, finora assegnate gratis come ovviamente gradito da Mediaset. Una scelta doverosa, chiaramente, quando il piatto statale piange e i sacrifici colpiscono un po’ tutti ma specialmente in basso.
Cruciale è comunque il tema corruzione. Tutti sanno dove le relative classifiche continuano, impietosamente, a collocare l’Italia: tra gli ultimi (cioè i peggiori) posti in Europa e in posizione tutt’altro che brillante anche nel mondo intero. Mettere in dubbio l’attendibilità delle ben note graduatorie di Transparency International, come quella di tante altre che circolano sui temi più diversi, non è vietato pur apparendo sconsigliabile. Prendendo alla lettera, ad esempio, recenti raffronti internazionali circa le condizioni delle donne, quelle italiane andrebbero esortate a trasferirsi in blocco nel Lesotho, non potendo fruire proprio tutte, in patria, delle risorse del bunga bunga.
Per farsi un’idea di come stiamo a corruzione, in realtà, non occorre neppure Transparency International; basta ascoltare anche distrattamente la radio e la televisione o sfogliare qualche giornale. Non passa giorno, o quasi, che non veda divampare uno o più nuovi scandali a tutti i livelli della politica, della pubblica amministrazione e degli affari, oppure tornare alla ribalta, per nuovi sviluppi e rivelazioni più o meno clamorose, quelli vecchi e spesso dimenticati appunto perché ormai innumerevoli. Anche qui non sembra necessario esemplificare, mentre lo è cercare di chiarire se e come si corra ai ripari oppure ci si limiti a “tenere alta la guardia” come si incita a fare in simili casi.
Giace tuttora in parlamento un progetto di legge anticorruzione varato senza fretta dal governo Berlusconi su proposta dell’allora ministro Alfano, emulo del suo predecessore alla Giustizia, Frattini, padre di una precedente legge sul conflitto di interessi priva di qualsiasi mordente rispetto alla concreta problematica nostrana e neppure paragonabile ai più classici modelli americani. Anche il progetto Alfano, approvato nel frattempo dal Senato e in attesa del vaglio della Camera, viene generalmente considerato all’acqua di rose (“acqua fresca”, secondo una definizione riportata dalla “Stampa” lo scorso 8 marzo), ossia del tutto inadeguato a fronteggiare quella che sta diventando sempre più una delle tante emergenze nazionali.
Così è stato comunque giudicato dall’Unione europea, che chiede tra l’altro un inasprimento delle pene, l’allungamento dei tempi di prescrizione dei reati e il ripristino di quello di falso in bilancio, depenalizzato com’è noto dal precedente governo, e sollecita da tempo l’Italia ad approvare e applicare le convenzioni internazionali vigenti in materia. Tutto ciò si scontra però con la resistenza, attiva o passiva secondo le circostanze, del Popolo delle libertà, ostile in linea generale al potenziamento delle misure anticorruzione affidate al potere giudiziario. Non a caso, vari portavoce del PDL hanno celebrato il ventennale di Mani pulite quasi inneggiando al fallimento, del resto innegabile e conclamato, di quella campagna, come se sul terreno politico e amministrativo l’azione sia stata invece molto più oculata, costante ed efficace.
Le richieste e le sollecitazioni di Bruxelles sono per contro spalleggiate dalla vecchia opposizione ovvero coincidono con quanto reclamano per proprio conto sia il Partito democratico sia il Terzo polo, oltre naturalmente a Italia dei valori. Il PD, beninteso, non può più vantare in fatto di corruzione una maggiore virtuosità costituzionale rispetto al suo principale avversario, benchè permanga forse un diverso grado di contaminazione. Il deterioramento anche della sua immagine è tuttavia compensato appunto da una maggiore sensibilità alla piaga del malaffare e un superiore impegno a combatterlo, analogamente a quanto avviene riguardo all’evasione fiscale (e non invece, sembra, riguardo ai privilegi della “casta”, dove peraltro può invocare l’alibi di minori legami con i ceti più abbienti).
Non si può comunque negare che il PD condivida con il PDL un’inadeguatezza anch’essa apparentemente costituzionale ad affrontare con lucidità di visione e credibilità di programmi, capacità operativa e responsabilità di comportamenti i gravi problemi del paese. Ci si deve ovviamente augurare che entrambi, o altre formazioni politiche che nascano da un’eventuale rimescolamento delle carte, sappiano rigenerarsi e mostrarsi all’altezza del compito, sotto la spinta del discredito e della disaffezione popolare nonchè di fronte ad una minaccia di bancarotta del sistema paese forse non ancora definitivamente scongiurata. Ma lo scetticismo resta di rigore.
Al momento in cui scriviamo si deve registrare un parziale ripensamento dei dirigenti del PDL, indottisi a riprendere il dialogo col governo e i concorrenti politici senza esclusione pregiudiziale di argomenti. Ciò è avvenuto malgrado la ferma dichiarazione pubblica del presidente del Consiglio che di corruzione si può e si deve parlare se non altro per la sua pesante incidenza sulla salute dell’economia nazionale. Malgrado, oppure proprio per effetto di una simile presa di posizione, che potrebbe anche segnalare una risolutezza di Monti a tirare dritto a costo di mettere in gioco la sopravvivenza del governo, che ai partiti maggiori sembra stare ancora a cuore nonostante e forse proprio a causa delle imminenti elezioni amministrative.
Non sappiamo quale sarà l’esito dei suddetti incontri, la cui montagna potrebbe anche partorire, nella fattispecie come in altri casi, il topolino di qualche “riformetta” (come quella paventata da Dario Di Vico parlando del mercato del lavoro sul “Corriere della sera” del 13 marzo) avente l’unico pregio di non scontentare troppo nessuna parte interessata. Ma sarebbe pur sempre meglio di niente, e il merito di avere fatto almeno qualcosa, se non proprio tutto il necessario ed auspicabile, spetterebbe in primo luogo ad un governo “tecnico” che conserva tuttora il gradimento della maggioranza degli italiani malgrado l’inevitabile impopolarità (non certo nel caso della corruzione, comunque) di varie sue opzioni e decisioni.
Per il momento, ma crediamo ancora per non poco tempo, a rimpiangere il governo dei politici in compagnia di leghisti e dipietristi rimarrà soltanto, tra gli intellettuali improvvisamente colpiti da “afonia democratica”, l’ultimo quanto incompreso difensore del vero liberalismo. Nella sua rubrica sul “Corriere” (10 marzo), infatti, Piero Ostellino ha sentenziato che urge tornare al voto essendo il governo “tecnico” la negazione della “democrazia rappresentativa” e quest’ultima il “male minore”, nel presupposto che un governo che si rispetti deve rispondere al parlamento. Il fatto è, come abbiamo accennato, che il anche il governo Monti deve rispondere e risponde al parlamento, ma che se qualcosa non cambierà, presto e non poco, bisognerà continuare ad aggiungere “purtroppo”.
Mevio Squinzia