Oggi in Lettonia si vota un referendum per rendere il russo seconda lingua ufficiale dello Stato. La questione è più importante di quel che potrebbe sembrare, per un Paese in cui il 30% della popolazione è russa. Per capire le ferite che questo voto riapre bisogna conoscere la storia dei paesi baltici, un remoto angolo di nord est dell’Europa spesso ricordato solo per le bellezze locali (più che per il recente europeismo) o direttamente dimenticato.
Dopo l’annessione sovietica – costellata di deportazioni ed eccedi – Estonia, Lettonia e Lituania sono state popolate da Stalin negli anni ’40 di cittadini russi. Qui sono rimasti per gli anni successivi, imparando a sentirsi a casa in un Paese di cui però in pochi hanno imparato la lingua e la storia. Spesso, anzi, hanno mantenuto un forte legame con la Grande Madre Russia.
Questo ci porta al 1991, quando le repubbliche baltiche ottengono l’indipendenza dal blocco sovietico. Timorose di perdere quanto appena guadagnato, stabiliscono delle leggi sulla cittadinanza e sul diritto di voto discutibili anche se forse necessarie (è una questione che lasciamo agli storici). In Lettonia si decise di dare la cittadinanza solo a chi poteva vantare ascendenti residenti in Lettonia prima del 1940. Nel 1995 la cittadinanza, e con essa il diritto di voto, venne estesa a chi, pur non rispettando il requisito “di sangue”, era in grado di superare un esame di lingua e cultura lettone.
Con questi precedenti in mente, e questa situazione sociale e giuridica, si deve guardare al voto di oggi. Riconoscere il russo come seconda lingua ufficiale dello Stato avrebbe delle sicure conseguenze. E se per alcuni allunga le ombre di un passato ancora inquietante, per altri rappresenta l’occasione di un riscatto non solo concreto ma anche ideale.
Tommaso Canetta