Ma quando un nuovo scatto?
L’impegno divulgativo della produzione storiografica contemporanea profuso da Paolo Mieli sul “Corriere della sera” è sicuramente meritorio, anche e soprattutto quando dà conto (sempre ampio e accurato) di studi e ricerche italiane e straniere che mettono in discussione e magari fanno giustizia di più o meno vecchi miti, luoghi comuni e consolidate versioni di vicende vicine e lontane nel tempo. La verità storica, ammesso che possa mai essere appurata fino in fondo, non lo è comunque mai in modo definitivo e il revisionismo di per sé non è certo peccaminoso. A patto, naturalmente, che non lo si pratichi per partito preso, senza pezze d’appoggio adeguate e interpretando fatti e dati con troppa disinvoltura.
Ciò vale senza riserve anche per le ormai numerose opere riguardanti un tema reso ancor più delicato dalle sue connessioni con l’attuale problematica politica nazionale: quello della collocazione del Mezzogiorno nel Risorgimento e nella gestazione dell’Italia unita. Lo abbiamo già affrontato nel nostro bilancio a puntate del Centocinquantenario, ma la recensione che Mieli, appunto, ha dedicato il 10 gennaio scorso ad un saggio di recentissima pubblicazione ci induce a riparlarne. Intitolato “Il Regno delle Due Sicilie e le Potenze europee (1830-1861)” e firmato da Eugenio Di Rienzo, esso focalizza in particolare il ruolo dell’Inghilterra nella distruzione di quel regno.
Un ruolo notoriamente molto importante, che questo autore sembra ritenere addirittura determinante e del quale sottolinea e documenta le motivazioni di fondo: la difesa con ogni mezzo dell’egemonia inglese nel Mediterraneo e le conseguenti reazioni all’ingratitudine del re Ferdinando II per il sostegno di Londra ai Borboni nell’era napoleonica, alle sue mosse per liberarsi da ogni tutela e interferenza esterna e qualche gesto ostile compiuto dallo stesso sovrano di Napoli, prima con il rifiuto nel 1834 di accodarsi a Londra nel conflitto per la successione al trono di Spagna e poi impedendo nel 1855 la partecipazione di volontari siciliani alla guerra di Crimea in una legione anglo-italiana.
Tra le altre manifestazioni della multiforme politica antiborbonica dell’Inghilterra ancor prima dell’impresa dei Mille Di Rienzo annota l’appoggio fornito alla spedizione di Pisacane a Sapri nel 1857 e alcune pretese intimidatorie avanzate dopo il suo rapido fallimento. Non avendo ancora letto il libro non sappiamo se esso menzioni un precedente di segno opposto, ovvero le informazioni da fonte inglese che permisero al governo borbonico di stroncare su due piedi l’analogo tentativo dei fratelli Bandiera nel 1844.
Ma lasciamo da parte i dettagli e andiamo al nocciolo della questione. L’autore non manca di rilevare che la suddetta politica, legata ai nomi di Palmerston e Gladstone, venne poi apertamente criticata se non sconfessata da successivi governanti inglesi. Mostra tuttavia di escludere che fosse ispirata almeno in parte da considerazioni diverse dalla pura Realpolitik e quindi di dare poco o nessun credito alle vibranti denunce londinesi del carattere disumano del regime borbonico, stigmatizzato da Gladstone come “negazione di Dio”.
Un’apparente insensibilità, questa, che si estende al di là del rapporto Napoli-Londra. Nell’introduzione del libro il Di Rienzo si dice consapevole del rischio che il suo racconto possa essere “forse tale da portare acqua al mulino di quell’Anti Risorgimento vecchio e nuovo” contro cui ha recentemente tuonato in un altro libro anche il presidente Napolitano da lui di seguito citato. Ciò nonostante quest’acqua poi la porta eccome, e non solo oggettivamente.
Non si limita infatti a censurare il comportamento inglese nel suo complesso come “una delle prime e più gravi violazioni del Diritto pubblico europeo della storia contemporanea”. Cita altresì un collaboratore di Benjamin Disraeli secondo il quale, contribuendo all’annessione del Meridione al Piemonte, “il Regno Unito aveva prostituito la sua politica estera appoggiando un’impresa illegittima e scellerata che aveva portato all’instaurazione di un vero e proprio regno del terrore”. Tutto ciò, precisa l’autore, aiuta a “ricordare che l’unione politica del Sud al resto d’Italia avvenne senza il consenso ma anzi contro la volontà della maggioranza delle popolazioni meridionali” e che “quell’unione, che per vari decenni successivi al 1861 non fu davvero mai ‘unità’, sia stata, in primo luogo, il risultato di un complesso e non trasparente intrigo internazionale”.
E così anche lo storico serio e scrupoloso scivola nella teoria dell’intrigo, che nella fattispecie necessiterebbe di ben altri elementi probatori e, come spesso avviene in casi del genere, rimane sospesa nell’oscurità allusiva. Quale altra potenza partecipò al “complesso e non trasparente” complotto oltre all’Inghilterra? Mistero. Come può il favoreggiamento dell’impresa dei Mille da parte inglese, marginale benché non trascurabile, spiegare la conquista garibaldina di metà del regno borbonico quasi senza colpo ferire e il fatto che le camicie rosse, poco più di un’armata Brancaleone sia pure con un eccezionale condottiero, incontrò un’apprezzabile resistenza finale solo dopo la caduta anche di Napoli? Nessuno l’ha ancora spiegato, e una spiegazione alternativa è stata semmai ventilata chiamando in causa tradimenti o cedimenti interni al regno stesso.
Allo stesso modo, anziché “ricordare” che l’unione del Sud al resto d’Italia sarebbe avvenuta senza il consenso e anzi contro la volontà della maggioranza della sua popolazione, bisognerebbe dimostrare che le cose siano andate davvero così e, prima ancora, semmai, che porsi il relativo problema sia sensato. Forse che il regno delle due Sicilie era il prodotto di una consapevole scelta popolare cementata da un genuino sistema democratico? Quando fu abbattuto esso non si trovava certo all’avanguardia nel mondo, ma semmai all’estrema retroguardia, del processo evolutivo che doveva portare alla consacrazione, peraltro ancor oggi non integrale né incondizionata, del principio dell’autodeterminazione dei popoli.
Quel tanto di “diritto pubblico europeo”, ovvero diritto internazionale, di cui si poteva parlare nel cuore dell’Ottocento, conservava come soggetti predominanti monarchie ereditarie fondate su un “diritto divino” molto più che su una “volontà della nazione”, e l’ordine che regnava nel continente era ancora, in gran parte, quello dinastico-feudale della Restaurazione celebrata dal Congresso di Vienna dopo la tempestosa parentesi napoleonica. Tra le eccezioni alla regola non figurava certo lo Stato borbonico, che resisteva alle minacce anche interne solo grazie alla protezione assicuratagli dalla Santa Alleanza. E’ possibile condannare oggi il suo abbattimento in quanto “grave violazione” di quell’ordine, e quindi negare implicitamente, supponiamo in nome del legittimismo di allora, la legalità oltre che la legittimità storica di tutte le successive trasformazioni del sistema internazionale?
Nel contestare l’approccio di Di Rienzo possiamo però, anzi dobbiamo andare ben più in là. Gli si può senz’altro concedere che l’annessione del Meridione al Regno di Sardegna sia avvenuta senza il consenso della maggioranza della sua popolazione, non diversamente da altre parti d’Italia. Sappiamo da sempre che i famosi, o se si vuole famigerati, plebisciti inscenati per legittimare l’unificazione nazionale, con le loro più che “bulgare” maggioranze favorevoli, altro non furono che uno dei primi esempi di montatura democratica destinati a fare scuola su vasta scala fino a tutt’oggi. Per lo stesso motivo, tuttavia, non è neppure lecito affermare che l’unificazione sia avvenuta contro la volontà di popolazioni in gran parte analfabete e comunque incapaci di capire di cosa si trattasse e quale fosse la posta in gioco.
Ancor oggi, d’altronde, la scena mondiale continua ad offrirci esempi vistosi di grandi rivolgimenti prodottisi per scelta e per mano di minoranze persino esigue. Nella Russia del 1917 si insediò quasi senza colpo ferire un regime comunista ad opera di un minuscolo partito rivoluzionario, lo stesso che 74 anni più tardi, benché cresciuto a dismisura, venne spodestato in modo pressocchè analogo, ossia con minimo coinvolgimento popolare e nessuna tangibile espressione di volontà popolare. A provocare la svolta epocale bastò che a Mosca scendessero in piazza contro il golpe anti-Gorbaciov alcune migliaia di persone più o meno vogliose di democrazia e che Boris Elzin salisse su un carro armato per arringare la folla e rimandare i militari golpisti nelle caserme; l’appello allo sciopero generale restò praticamente inascoltato e il resto del paese rimase in attesa degli eventi.
Se questo avvenne nel 1991 in una grande potenza altamente industrializzata e culturalmente progredita, cosa ci si poteva aspettare dalle miserabili masse contadine e sottoproletarie che costituivano la schiacciante maggioranza del regno borbonico? Al massimo, quello che effettivamente avvenne: una parte di esse, specie in Sicilia, accolse Garibaldi come un messìa o un liberatore, e una parte più numerosa si rivoltò contro lo Stato sabaudo o si diede al brigantaggio quando si accorse che il nuovo regime, ciecamente e anche brutalmente repressivo come usava allora e quanto meno maldestro, per quanto le riguardava non era migliore del vecchio e poteva apparire persino peggiore.
Di Rienzo, dunque, non va certo fuori strada allorchè afferma che l’unione non si tradusse in vera unità “per vari decenni successivi al 1861”. Forse esagera nel conteggio, perchè già con l’avvento al potere della sinistra la compartecipazione meridionale al governo dell’intero paese divenne massiccia e sistematica. Ha invece gravemente torto quando mostra di ignorare un fatto di capitale importanza e di grande rilievo storico simboleggiato, volendo, dalla stessa figura di uno dei maggiori protagonisti di questa compartecipazione. Quella cioè del marchese Antonio di Rudinì, che prima di capeggiare due volte il governo di Roma verso la fine del secolo, divenuto in giovane età sindaco di Palermo dopo l’unificazione, nel 1866 difese per tre giorni con le armi quel municipio assediato dalle bande di rivoltosi che avevano conquistato il resto della città, liberata in seguito dalle truppe di Raffaele Cadorna.
Quello del nobiluomo siculo sarà anche stato un caso limite, che tuttavia può ben considerarsi rappresentativo di una parte cospicua e probabilmente maggioritaria di un’élite socioculturale e quanto meno potenziale classe dirigente del Mezzogiorno che da vari decenni era ai ferri corti con il governo borbonico. Quando non lo combatteva apertamente con il favore delle circostanze lo sopportava sognando o lavorando per un’alternativa dentro o fuori dei confini del regno. Allo scoccare dell’ora fatidica non gli prestò alcun apprezzabile appoggio, lo tradì disertando o complottando oppure si schierò decisamente con i vincitori, magari anche solo per opportunismo, come suggestivamente raccontato da scrittori dell’epoca o più moderni quali Federico de Roberto e Giuseppe Tommasi di Lampedusa.
In attesa della pur contrastata evoluzione generale in senso democratico, accompagnata da un’altrettanto lenta ma progressiva acculturazione e presa di coscienza da parte delle masse popolari, solo una simile élite poteva avere titolo a rappresentare un popolo nelle sue aspettative e al limite nella sua volontà, nel Mezzogiorno come nel resto dell’Italia, dell’Europa e del mondo. Che essa sapesse sempre rappresentarlo in modo adeguato, al di là dei propri particolari interessi ed esigenze di classe, può certo essere contestato e spesso negato. Nella fattispecie, sono ben note sia le buone intenzioni che animarono gli sfortunati capi e sostenitori della repubblica napoletana nel periodo napoleonico sia l’autocritica di cui furono capaci quanti di loro sopravvissero alla repressione.
E’ da quel periodo, comunque, che si deve partire per mettere a fuoco il ruolo del Mezzogiorno nel Risorgimento. Finiti al patibolo nel 1799, i vari Carafa, Serra di Cassano, Caracciolo, Pagano, Fonseca Pimentel, ecc. non costituivano quella sparuta pattuglia di rivoluzionari, isolati dal popolo e forti solo delle armi francesi, di cui generalmente si parla nella vulgata della storia nazionale. Così come, all’inverso, il cardinale Ruffo, il principe di Canosa e i loro simili non possono considerarsi l’unico specchio fedele dei sudditi dei Borboni. I primi avevano invece dietro di sé un ceto neoborghese in ascesa e, nel tempo, anche il vigoroso riformismo del ministro Tanucci e l’apertura della grande cultura partenopea del Settecento.
Prima e dopo la loro sconfitta, la partita non si giocò, sul campo, solo tra opposti eserciti stranieri e le bande dei sanfedisti o lazzari antirivoluzionari, né i rivoluzionari poterono contare su un certo seguito solo nella capitale del regno. Al contrario, fu semmai in periferia e in particolare in Puglia che infuriarono aspri scontri, al limite della guerra civile, anche tra intere città schierate con i repubblicani o con i borbonici. In aggiunta ai fattori locali, il terreno era stato preparato, tra l’altro, da un’attiva propaganda massonica e da quella giansenista, di ispirazione democratica oltre che religiosa.
Quella che è stata definita la “prima sanguinosa pagina del Risorgimento italiano” poichè “una tradizione rivoluzionaria italiana del Risorgimento s’inizia proprio con i patriotti della Partenopea” (così lo storico Niccolò Rodolico), anche se in gioco non era ancora la causa nazionale, sfociò in un esodo dei vinti qualitativamente importante e non irrilevante neppure numericamente. Già nei primi anni dell’800 parecchie centinaia di esuli trovarono rifugio a Milano, e la loro stessa presenza nella capitale della Repubblica cisalpina e poi del Regno d’Italia fondati dal Buonaparte contribuì a promuovere quella causa. Un altro centro di immigrazione nonché laboratorio di italianità soprattutto, ma non solo, culturale divenne poi anche Firenze, capitale dello Stato italiano più liberale dopo la definitiva caduta di Napoleone.
Tra gli esuli napoletani a Milano spicca la figura di Vincenzo Cuoco, capostipite, si può dire, dei profeti del riscatto nazionale proprio sulla base di un’analisi critica di un’esperienza anche personale nel suo “Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli” (1801), che lo condusse a coniare il celebre motto “L’Italia farà da sé”. Il suo pensiero, diffuso anche per via giornalistica, influì su Manzoni e il giovane Mazzini. Ma il profeta si rivelò tale anche in patria. Un eminente promotore del patriottismo italiano a Napoli durante la Restaurazione fu Basilio Puoti, famoso per la sua pedanteria non meno che per la sapienza linguistico-letteraria (pare che in punto di morte sussurrasse “me ne vo, ma si può dire anche me ne vado”), maestro di numerosi conterranei tra i quali Francesco De Sanctis e Luigi Settembrini, al quale confidava l’auspicio che gli italiani “parlassero come il Machiavelli ed operassero come il Ferruccio”.
Politicamente più diretto e attivo fu naturalmente l’impegno della Carboneria, sfociato a sua volta nel primo tentativo insurrezionale, sempre in Campania, nel 1820. Benché facilmente stroncato anche a causa della concomitante rivolta in Sicilia, ancora di tipo eminentemente separatista e quindi combattuto a mano armata dagli stessi insorti napoletani, esso servì da esempio e sprone al successivo moto dei liberali piemontesi (1821), divampato sia pure con esito ugualmente negativo in uno Stato italiano ancora più reazionario del Regno delle due Sicilie, tanto da riuscire sgradito persino a Metternich. L’animatore del moto torinese, Santorre di Santa Rosa, definì entrambi parti di un’unica rivoluzione, “la prima che si sia fatta in Italia da molti secoli senza il soccorso e l’intervento degli stranieri” ad opera di “due popoli italiani che dalle due estremità della penisola – dalla Sicilia al Piemonte – rispondono l’uno all’altro”, per concludere che nonostante la momentanea sconfitta l’Italia era “conquistata, non sottomessa”.
In realtà i tentativi e il comune insuccesso erano destinati a ripetersi nel 1848, con il là, comunque, dato nuovamente dal Sud. A muoversi per prime, stavolta, furono, anzi già nel 1847, Sicilia e Calabria (a Reggio l’ennesima richiesta di una Costituzione si levò all’insegna del tricolore), provocando un effetto domino che a ricominciare da Napoli mise a soqquadro, nell’anno fatidico per mezza Europa, l’intero paese. A Palermo, in una lezione all’università, un economista aveva lamentato alla vigilia che “oggidì è un vezzo dell’Alta Italia il raccomandare a noi moderazione e pazienza, il consigliarci di attendere; ma, oh Dio! Ho passato metà della mia vita senz’altro aver fatto che attendere”.
Malgrado il nuovo fallimento le premesse per l’affermazione, in un modo o nell’altro, della causa nazionale si stavano ormai creando anche nel Meridione oltre che sul piano internazionale. Le sollevazioni avevano assunto dimensioni e forza d’urto molto maggiori che in precedenza, come controprovato dalle varie migliaia di successive condanne a morte (peraltro commutate per lo più in ergastoli). Nel Napoletano liberali e democratici avevano fatto breccia in tutte le classi sociali, la Sicilia era stata liberata quasi interamente prima di soccombere, vittima anche della rivalità franco-britannica.
Partenopei e siculi parteciparono all’estrema difesa delle repubbliche di Roma e Venezia, alcuni perdendovi la vita. Un siciliano dei più illustri, lo storico dei Vespri Michele Amari, finì col convertirsi da un patriottismo prevalentemente insulare all’unificazione nazionale sotto la monarchia sabauda, aderendo, come altri due autorevoli liberal-democratici moderati del Sud quali Silvio Spaventa e Luigi Settembrini, all’indirizzo propugnato dal veneziano Daniele Manin. Amari, in verità, avrebbe preferito un’Italia, se non federalista, almeno con adeguate autonomie regionali, che lo Stato nato dalle annessioni del 1861 ritenne invece di non dover concedere.
Una scelta iniziale, questa, modificata molto e probabilmente troppo più tardi e che insieme con altre ma forse più di altre ha pesato sulle sorti del Mezzogiorno, non proprio “magnifiche e progressive”, fino ai giorni nostri, e quindi anche su quelle del paese nel suo complesso. Il tutto, però, a lungo andare, con preminenti, benché certo non esclusive, responsabilità delle classi dirigenti meridionali, alle quali in 150 anni non sono sicuramente mancati i modi e le occasioni per difendere i diritti e promuovere gli interessi delle loro terre e dei loro popoli anzichè privilegiare i propri come sono spesso sembrate fare. Nuovi scatti come quello di cui sono state capaci nella prima metà dell’Ottocento, insomma, sarebbero stati assai opportuni. Ma finora non ve n’è stata traccia.
Franco Soglian