La discontinuità più sacrosanta
Sessant’anni fa, 28 maggio 1951, due preti operai furono arrestati a Parigi per atti di violenza durante una manifestazione contro il generale americano Ridgway. Fu forse la situazione limite di un impegno a sinistra di segmenti del clero francese, impegno che aveva ricevuto sostegno da due cardinali e da vari prelati minori. Quell’anno stesso il nunzio apostolico a Parigi card. Marella notificò a 26 vescovi la soppressione totale dei preti operai. Del resto il 28 giugno 1949 il Santo Uffizio aveva decretato la scomunica per tutti coloro che diffondevano le dottrine materialiste del comunismo.
Passò una dozzina d’anni, venne il Concilio e udimmo il cardinale tedesco Agostino Bea, una delle guide del rinnovamento, affermare in un discorso pubblico: “La libertà dell’uomo vuol dire il suo diritto di decidere del proprio destino liberamente, secondo la propria coscienza. Da questa libertà nascono il dovere e il diritto dell’uomo di seguire la propria coscienza, al quale dovere e diritto risponde il dovere dell’individuo e della società di rispettare questa libertà e autodecisione”.
Gli ambienti conservatori insorsero: il porporato germanico era andato oltre la carità verso l’errore, aveva affermato insindacabile la coscienza individuale; laddove il cattolico aveva sempre dovuto inchinarsi alla Chiesa, interprete unica della Parola Rivelata. La tradizione della Chiesa non ammetteva la libertà dell’errore e del male. Ma il card. Bea andò per la sua strada.
Alla fine del 1963 lo sentii precisare, nella sala affrescata dal Tiepolo del palazzo dell’Ispi dove lavoravo, che chi erra in buona fede, anche in materia religiosa, adempie di fatto la legge morale e quindi la volontà di Dio, secondo la propria retta coscienza. Di fatto il cardinale rivendicava il valore universale della più alta tra le enunciazioni di Lutero suo conterraneo: il rifiuto dell’intermediazione ecclesiastica, per di più autoritaria, tra l’uomo e il Padre.
Sono trascorsi 49 anni. I Pontefici hanno ripetutamente ammesso che la Chiesa può sbagliare proprio là dove insegna: per esempio condannò Galileo, per esempio mise a morte cristiani che ora veneriamo come santi. Il cardinale germanico ha vinto. Un cristiano di oggi, che può fare se non prendere in parola sia il porporato tedesco che riabilita la conquista centrale della Riforma luterana, sia i papi che chiedono perdono per la Chiesa?
Ed ecco una delle conseguenze che discendono dal sessantennio di riflessione cristiana seguito alla scomunica di cui sopra: è giusto sostenere che il Papato dovrebbe abbandonare Roma e alzare la Tenda biblica altrove. Meglio fuori d’Italia, dove troppi misfatti furono commessi al vertice della Chiesa. Che la gestione del cattolicesimo sia stata appaltata soprattutto all’alto clero italiano, espresso prevalentemente dal patriziato nazionale, è un drammatico, lunghissimo errore che presto un pontefice confesserà. Abbandonare Roma avrà il senso di ripudiare nel concreto- non solo con le parole lette davanti alle telecamere- una tradizione bimillenaria di Chiesa principesca, non evangelica, a lungo turpe, sempre mondana.
Sarà un trasloco sofferto oltre che materialmente difficile, ma una nuova vita nascerà. Presto la Chiesa avrà vergogna dei palazzi che sono il suo passato. La Chiesa avrà orrore di quel cognome arrogante “Burghesius” fatto scolpire a lettere gigantesche da Paolo V, un fuoriclasse del crimine di nepotismo, sulla facciata di San Pietro, la meno santa di tutte le basiliche. ‘Burghesius’ farà un figurone come insegna dello shopping center più fastoso della terra che si aprirà nel chiesone di Paolo V Borghese, dopo la vendita a chi paga meglio e dopo il trasloco del Servo dei Servi di Dio. Troppo tardivamente Paolo VI vendette per beneficienza il Triregno, la tiara delle usurpazioni.
Qualunque altro angolo della cristianità andrà bene per la tenda del Vicario. Tenda, non reggia. E’ buona cosa che in quell’altra reggia, sul Quirinale, sieda un caponomenclatura invece che un papa.
l’Ussita
(trascrivendo dal settimanale SVOLTA, 1997)