OLIMPIADI 2020: POSSIAMO PERMETTERCI DI SPRECARE L’OCCASIONE?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il Paese è pervaso da una oscura e crescente sindrome depressiva che inibisce ogni iniziativa, ogni speranza, ogni sogno, ogni volontà di riscatto e di rinascita. Il decreto sulle liberalizzazioni è un provvedimento serio e contiene anche un paio di cose importanti. Ma non è accettabile far credere che questo sia lo strumento per far rinascere il nostro Paese. Occorre invece far emergere la voglia di accettare le sfide, di reagire alla depressione contabile, di rimettere al centro dell’interesse non i contabili dei costi ma i creatori, i produttori, gli ingegneri, gli scienziati, i giovani, gli sportivi. E quindi: possiamo permetterci le Olimpiadi 2020 a Roma? La risposta è: non possiamo permetterci il lusso di non partecipare.

“Sono gli uomini che fanno la polis, non le mura o le navi deserte”
(Generale ateniese Nicia 413 a.C. dopo la disfatta della spedizione ateniese in Sicilia)

“Vorrei sapere che cosa pensa della partecipazione di Roma alla gara per le Olimpiadi 2020? Possiamo permetterci questo lusso con i tempi che corrono?”. Chi mi fa questa domanda al telefono è un bravo giornalista. Cerco di intuire che tipo di risposta si aspetti da me, forse negativa, ma non ne sono certo. In ogni caso la mia risposta è immediata e senza incertezze. Gli rispondo: non possiamo permetterci il lusso di non partecipare. Ed è una risposta che si inquadra nella mia visione del Paese in questa fase storica.
La principale malattia del nostro Paese è, oggi, la oscura sindrome depressiva che sta montando giorno dopo giorno. Da un Paese, in parte, pieno di irresponsabili e spericolati spacconi, del tipo comandante Schettino, ci stiamo, giorno dopo giorno, trasformando in un Paese di contabili dei costi, ossessionati dalla sindrome contabile, che il maestro di economia Caffè criticò, con preveggenza, in alcuni dei suoi ultimi scritti. Intendiamoci: che dobbiamo tutti fare un grande sforzo per controllare e, in parte, riequilibrare i nostri deficit, pubblici e privati, va da sé. Ma che lo dobbiamo fare recitando, tra le lacrime e strappandoci i capelli, un lacrimoso “confiteor”, schiacciati da una cappa depressiva che ci inibisce ogni iniziativa, ogni speranza, ogni sogno, è una malattia contro la quale è necessario reagire. Ma soprattutto è grave malattia mentale pensare sempre e solo ai costi e mai ai ricavi.

È così infatti che matura la convinzione “non possiamo permetterci il lusso” di partecipare alla gara per le Olimpiadi 2020; di realizzare l’Expo 2015; di investire nei nuovi stadi (come hanno fatto tutti i Paesi europei); di investire nella ricerca scientifica; di rinnovare il centro delle nostre grandi città; di investire nelle scuole, sviluppando nelle stesse programmi di musica, sport, lingue; di investire negli asili nido dei quali c’è una carenza drammatica a prezzi ragionevoli, almeno nelle grandi città; di rammodernare i nostri porti; di produrre programmi televisivi culturali o, comunque, decenti e tante altre cose che servono per migliorare il presente e preparare il futuro, per difenderci contro l’ebetismo totale che rischia di travolgerci tutti, per alimentare i sogni e le speranze dei giovani.

Io ero giovane quando assistetti a tutte le olimpiadi romane del 1960, le ultime olimpiadi umane della storia. Ricordo benissimo quanto enorme entusiasmo sollevarono in noi, giovani di allora, queste meravigliose olimpiadi, il grande volo di Berruti, la scoperta di Cassius Clay, le lunghe gambe nere della Rudolf, ma anche l’orgoglio che tutto questo avvenisse da noi, nella nostra bellissima Roma e che ci fosse tanta gente che imparava, così, cosa era Roma e l’Italia! Io ricordo benissimo il contributo straordinario che quelle Olimpiadi diedero per trasformare Roma da una sonnacchiosa città di ministeriali e di preti in una metropoli moderna.

Ma davvero crediamo veramente che lo sviluppo ed il lavoro per i giovani verrà da 500 notai in più, da qualche taxi in più, da qualche avvocato che non è più tenuto ad applicare le tariffe ufficiali? Lo sviluppo verrà solo realizzando tutti gli investimenti necessari, alimentando i sogni dei giovani, investendo in ricerca e innovazione, cioè facendo esattamente tutte le cose che la sterminata corte di contabili dilettanti che ha invaso l’Italia, ci dice essere un “lusso che non possiamo permetterci”. Ed invece il vero lusso che non possiamo permetterci è spendere 30 miliardi di euro ogni anno per prepararci ad una guerra che non combatteremo; lasciare infiltrare, in misura ormai allarmante, nella nostra sanità centinaia e migliaia di ladri e di incompetenti che offuscano e umiliano i tanti bravissimi operatori sanitari che, come angeli civili, tengono su la baracca, e che spingono all’emigrazione i nostri giovani più in gamba; alimentare un costo della politica tra i più alti ed oppressivi del mondo; tollerare senza combatterla una corruzione che non ha eguali tra i Paesi ad economia sviluppata; svendere continuamente il nostro territorio e il nostro patrimonio naturale e culturale alla speculazione immobiliare.

Mettiamo, dunque, mano a queste ed altre vere e proprie piaghe bibliche del nostro Paese e vedrete che potremo partecipare alla gara per le Olimpiadi 2020, ed a tanti altri investimenti, che alimentano speranza e sviluppo.

Jean Gimpel è uno storico francese che si è dedicato soprattutto agli sviluppi tecnologici e industriali del Medio Evo. Il suo denso libretto – “La révolution industrielle du Moyen-Âge “(Éditions du Seuil, 1975) – è ancora oggi una miniera di notizie e di stimoli importanti. Gimpel illustra lo straordinario sviluppo economico europeo nei primi tre secoli dall’inizio del millennio e ne individua le radici nel fervore operativo che dominava in tutto il continente, trainato dal nuovo spirito imprenditoriale e dagli sviluppi tecnologici (l’albero a camme è del X secolo e poi seguono, tra gli altri, i mulini di ogni tipo, i caminetti, gli occhiali, l’uso del carbone per l’industria, l’orologio astronomico, l’impiego del cavallo in agricoltura, la bussola). È l’epoca in cui, in genere, anonimi architetti costruiscono le più importanti cattedrali d’Europa, capolavori artistici e tecnologici.

Gimpel analizza poi il lungo periodo di decadenza dell’economia europea, dovuto a bruschi cambiamenti climatici che causarono diffuse carestie, la peste nera (portata in Europa da mercanti genovesi nel 1347), le continue svalutazioni e le crisi finanziarie con il fallimento di molti banchieri, la guerra dei cento anni, la spaccatura della cristianità. E come conseguenza di tutto ciò il montare della demoralizzazione e la graduale perdita di interesse per l’innovazione e per la tecnologia: “Un des grands malheurs de l’histoire de l’humanité est qu’une société vieillissante, dans son désire de jouir de la paix, se détourne de la technique”.

Forte di questa affascinante strumentazione concettuale, messa a punto nel corso dei suoi studi sullo sviluppo economico e tecnologico nella Francia medioevale, Gimpel, nel 1956, tenne una memorabile conferenza a Yale nella quale predisse che, negli anni Settanta gli Stati Uniti sarebbero entrati in una era di declino, che il dollaro sarebbe stato svalutato e che la leadership tecnologica sarebbe stata assunta da altri popoli. Nessuno lo prese seriamente, ma a metà degli anni Settanta fu rinvitato negli Stati Uniti per spiegare come aveva fatto a prevedere ciò che si era poi verificato. E Gimpel documentò la sua posizione con una serie di fatti che segnalavano il crescente disimpegno del popolo americano dall’innovazione e dalle grandi sfide tecnologiche:

«Dès mon arrivée aux États-Unis je remarquais que le dynamisme traditionnel de ce pays déclinait rapidement. L’idéal américain de la libre entreprise et l’hostilité au pouvoir central étaient partout battus en brèche. Des groupes de plus en plus nombreux faisaient appel au gouvernement fédéral. Le nombre de fonctionnaires – fédéraux, des états et locaux – dépassait 7 millions. I y avait proportionnellement, moins de self-made men car de plus en plus de fils héritaient des affaires de famille. Les hommes d’affaires faisaient des déjeuners de plus en plus longs. Les Américains n’avaient plus cette ambition, souvent caractéristique des nations jeunes, de construire toujours plus grand ou plus haut, de battre des « records du monde ». L’esthétique du Lever House Building contrastait avec l’Empire State Building. Les Américains, à cette date, étaient moins passionnés par de nouveaux gadgets et le culte du neuf avait moins de prise sur eux. Ce déclin du dynamisme influait et pesait sur le développement technologique du pays sans que la population elle-même, et les étrangers en visite soient conscients de cette évolution».

Il neocapitalismo reaganiano reagirà a questa involuzione, ma spostando tutto il potere sul fronte della finanza invece che sul fronte dell’industria e della tecnologia, preparerà le basi del disastro scoppiato nel 2008.

La rilettura di Gimpel mi ha riportato a rileggere anche la stupenda relazione che Carlo Cattaneo tenne alla Società d’Incoraggiamento d’Arti e Mestieri di Milano, nel 1845, dal titolo: “Industria e Morale”. Cattaneo rivolge qui un vigoroso invito agli italiani ed ai milanesi a impegnarsi sul fronte dell’innovazione e della tecnologia, a credere al moto e non alla quiete, a osare, a “permettersi il lusso” di erigere i propri templi, e conclude con parole che dobbiamo tutti rileggere e meditare:

“Pur troppo vi è chi collocando la felicità delle genti non nel moto, come è il desiderio dell’universa natura, ma nella quiete della fossa, vorrebbe che le cose umane fossero tutte con inviolabile norma prefinite. Vorrebbe dunque un magisterio d’arte che numerasse i fili d’ogni tessuto; vorrebbe un’architettura che comandasse anzitempo a tutte le combinazioni della vita; vorrebbe un grado di dovizia perpetuo nelle famiglie; una filosofia di sillogismi perenni, ai quali attingere tutti i particolari della scienza; un dizionario infine nel quale s’impietrisse perfino la parola; sicché un’inesorabile predestinazione aggravasse tutti i pensieri e tutte le speranze dell’uomo. Ma infelice quella generazione che si proponesse d’essere in tutto come furono i suoi padri! Poiché, quando quelli avessero pure sfolgorato d’ogni valore e d’ogni gloria, i figli, finché nulla aggiungessero alle loro imprese, rimarrebbero tanto da loro degeneri, quanto l’inerzia è diversa dall’opera, quanto l’immobilità è diversa dal moto…. Quindi è necessità, necessità morale, che ogni generazione inalzi i suoi templi e i suoi archi, e modelli le sue sculture, e apra nuove vie per alpi e per lagune, e inarchi nuovi ponti non solo ormai sui fiumi, ma sui laghi, ma sui mari, e non solo sopra lo specchio delle aque, ma fin per disotto ai tetri loro gorghi. È mestieri che a forza d’ardimenti e di temerità l’uomo si trovi di repente dubitoso e smarrito a fronte d’immediati ostacoli, affinché il genio allora si svegli, e si avvegga di sé, e affronti con nuovi pensamenti la vecchia natura. E perché questa salutevole palestra delli animi dia nervo a tutto un popolo, e diffonda perfino nell’ultima famigliola il polso d’una vita sollecita e intensa, bisogna che tutta la legione delle arti utili si rinovelli a ora a ora dietro i quotidiani della scienza”.

Sotto la pressione del gigantesco esercito persiano, gli ateniesi dovettero sgombrare Atene, nel 480 a.C., favoriti dal sacrificio degli spartani di Leonida che alle Termopoli guadagnarono un po’ di tempo prezioso, e permisero agli ateniesi di rifugiarsi nelle isole. Dopo la gloriosa e mirabile vittoria di Salamina gli ateniesi ritornarono nella loro città. Nelle discussioni sul da farsi ci fu chi propose che la prima grande cosa da fare fosse quella di erigere un grande tempio sull’Acropoli per ringraziamento agli dei e per ricostruire il grande tempio precedente, innalzato da Pisistrato, e distrutto da Serse. Ma all’Areopago dissero: non ci sono i soldi. Allora Pericle si offrì di finanziare personalmente il tempio. Ma l’Areopago gli negò questa possibilità, dicendo che il tempio era un bene cittadino e che, come tale, doveva essere finanziato da tutta la città. E così l’Areopago si ingegnò, i soldi vennero fuori ed all’umanità fu donato il Partenone.

Forse la nostra Italia non può costruire il Partenone, non per mancanza di architetti di talento, né per mancanza di soldi perché, alla fine, i soldi vengono sempre fuori (persino in Grecia dove, oggi, il Partenone lo affittano), ma per mancanza di cervello, di volontà, di morale. È questo ciò che, innanzi tutto, dobbiamo ricostruire. La voglia di accettare le sfide, di reagire alla depressione contabile, di rimettere al centro dell’interesse non i contabili dei costi ma i creatori, i produttori, gli ingegneri, gli scienziati, i giovani, gli sportivi. Tutto ciò che è vita, speranza, sogno, desiderio, volontà di riscatto e di rinascita. Il decreto sulle liberalizzazioni è un provvedimento serio e da approvare e contiene anche un paio di cose importanti. Ma far credere che questo sia lo strumento per fa rinascere il nostro Paese , questo no, non è accettabile.

Non esauriamo le nostre risorse intellettuali ed emotive in queste che sono, in gran parte, battaglie di retroguardia. Come la penosa battaglia dei taxi. Pensiamo alto, pensiamo in grande, pensiamo alle cose che i contabili ci dicono essere “un lusso che non possiamo permetterci”. Come le Olimpiadi a Roma nel 2020.

Marco Vitale
da AllarmeMilanoSperanzaMilano